[Recensione] “La scatola dei bottoni di Gwendy” di Stephen King e Richard Chizmar

Atteso il 20 marzo nelle librerie nostrane, La scatola dei bottoni di Gwendy è un romanzo scritto a quattro mani da Stephen King e Richard Chizmar. Me lo sono procurato in lingua originale e, dopo una singola, inquieta seduta di lettura, è giunta l’ora di mettere per iscritto le mie impressioni. Sotto con la recensione!

Titolo: La scatola dei bottoni di Gwendy
Autore: Stephen King, Richard Chizmar
Genere: thriller/horror
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine: 256

Che cosa accomuna una ragazza che non si arrende e un seducente uomo in nero? Una cosa preziosa: una scatola in mogano coperta da una serie di bottoni colorati. Ma che cosa ottenere premendoli dipende solo da lei.

Gwendy Peterson ha dodici anni e vive a Castle Rock, una cittadina piccola e timorata di Dio. È cicciottella e per questo vittima del bullo della scuola, che è riuscito a farla prendere in giro da metà dei compagni. Per sfuggire alla persecuzione, Gwendy corre tutte le mattine sulla Scala del Suicidio (un promontorio sopraelevato che prende il nome da un tragico evento avvenuto anni prima), a costo di arrivare in cima senza fiato. Ha un piano per l’estate: correre tanto da diventare così magra che l’odioso stronzetto non le darà più fastidio. Un giorno, mentre boccheggia per riprendere il respiro, Gwendy è sorpresa da una presenza inaspettata: un singolare uomo in nero. Alto, gli occhi azzurri, un lungo pastrano che fa a pugni con la temperatura canicolare, l’uomo si presenta educatamente: è Mr. Farris, e la osserva da un pezzo. Come tutti i bambini, Gwendy si è sentita mille volte dire di non dare confidenza agli sconosciuti, ma questo sembra davvero speciale, dolce e convincente. E ha un regalo per lei, che è una ragazza tanto coscienziosa e responsabile. Una scatola, la sua scatola. Un bell’oggetto di mogano antico e solido, coperto da una serie di bottoni colorati. Che cosa ottenere premendoli dipende solo da Gwendy. Nel bene e nel male.


La scatola dei bottoni di Gwendy: la recensione

“What if you had a button, a special magic button, and if you pushed it, you could kill somebody, or maybe just make them disappear, or blow up any place you were thinking of? What person would you make disappear, or what place would you blow up?”

La scatola dei bottoni di Gwendy è una novella dove la tensione nasce come un ronzio di sottofondo a volume crescente.

Ci troviamo a Castle Rock, un’immaginaria cittadina che sta ai romanzi di King come Cabot Cove sta a quella portatrice di iella ambulante che è Jessica Fletcher. È il 22 agosto del 1974 quando Gwendy Peterson, al culmine del suo quotidiano appuntamento con l’esercizio fisico, si vede consegnare una scatola misteriosa dalle mani di un ancora più misterioso individuo che viaggia sotto le spoglie di Richard Farris. Se non bastano le iniziali di questo nome a oscurare l’orizzonte con infausti presagi, ci pensa lo scenario d’incontro di questi due personaggi. Gwendy, infatti, fa in tempo a scoccare uno sguardo inquieto all’uomo in nero prima che quest’ultimo, un perfetto sconosciuto, per lei, la interpelli dalla panchina in ombra sulla quale è seduto:

“Hey, girl. Come on over here for a bit. We ought to palaver, you and me.”

[…]

“I’m not supposed to talk to strangers.”
“That’s good advice.” He looks about her father’s age, which would make him thirty-eight or so, and not bad looking, but wearing a black suit coat on a hot August morning makes him a potential weirdo in Gwendy’s book. “Probably got it from your mother, right?”
“Father,” Gwendy says. […]
“In that case,” says the man in the black coat, “let me introduce myself. I’m Richard Farris. And you are—?”
She debates, then thinks, what harm? “Gwendy Peterson.”
“So there. We know each other.”
Gwendy shakes her head. “Names aren’t knowing.”

La scena ricalca grossomodo l’incipit di IT, e chi ha letto il romanzo sa che da una conversazione di questa risma non possono che derivare risultati raccapriccianti. Ai sorrisi diabolici di Pennywise lo sconosciuto sostituisce un fascino tranquillizzante che vince qualsiasi remora della ragazzina, tant’è che Gwendy, dopo un istante di scetticismo, accoglie l’invito di sedersi accanto a lui. Nel dialogo che segue all’adescamento è inquietante osservare come quest’uomo infagottato a lutto riesca a pizzicare le corde a lei più sensibili, quali il fattore peso, fonte di derisione ed emarginazione fra le mura scolastiche.

Gwendy si vede assegnare, per motivi che hanno la trasparenza del fango, questa scatolina decorata con due leve e delle serie di bottoni colorati di cui il signor Farris si premura di illustrare il funzionamento: una leva farà emergere un cioccolatino dai poteri rimpinzanti, perché Gwendy non soffra più di attacchi di fame, l’altra risputerà una moneta d’argento dal valore spropositato per l’epoca. Ciascun pulsante colorato rappresenta un continente, a eccezione di quello rosso e di quello nero.

Lo zio Ben una volta disse: Da un grande potere derivano grandi responsabilità. E saranno pressappoco queste le criptiche parole che il signor Farris rivolgerà a Gwendy all’atto del passaggio di proprietà della scatola. Col senno dei suoi dodici anni, Gwendy subisce tutto il magnetismo di questo “dono”. Dal momento in cui lo sconosciuto le pone la scatola fra le mani, la ragazzina la rivendica come sua, in un’improvvisa manifestazione di attaccamento materiale che ammicca tanto al rapporto malsano fra Gollum e l’Unico Anello.

Il confine fra paura e ossessione è labile e Gwendy lo scavalca ancora prima di rincasare, mentre si affanna alla ricerca di un nascondiglio sicuro dove riporre il tesoro da poco acquisito. Nessuno deve trovare la scatola o le conseguenze saranno devastanti, di questo è convinta. Il tempo scorre lesto grazie allo stile minimale di King: l’apprensione di Gwendy cresce giorno dopo giorno, insieme alla sua età, ai cioccolatini mangiati e al cumulo di monete d’argento. Le cosce si rassodano, abbandonati sono gli occhiali da vista, migliorano i voti a scuola. Sfiorare i bottoni con la punta del dito diventa presto un rituale imprescindibile, ma Gwendy si guarda bene dal premerne anche solo uno. Soprattutto quello nero. E la tensione sale, oh se sale.

Ma nonostante faccia un uso tutto sommato “nobile e morigerato” della scatola, l’aggeggio infernale non manca di condizionare la vita della ragazza: genitori e amici cominciano a ravvisare un cambiamento in lei, e non in positivo. Gwendy trema al pensiero di privarsene, all’idea che qualcuno la scopra, ma al contempo si chiede se lo sconosciuto si rifarà mai vivo in quel di Castle Rock per riprendersi quel caval donato che ora come ora ha raggiunto una mole troppo ingombrante per starsene docile e celato nelle tenebre di un armadio. E se questo scheletro, questo parallelepipedo di mogano, volesse essere trovato, come l’anello di Sauron? Gwendy avrà la forza di resistere al richiamo del male?


Esempio di stile

King è una garanzia di stile: mostra quando deve mostrare, racconta quando deve raccontare. Soprattutto, non infarcisce il racconto con dettagli ininfluenti e lascia che siano le azioni e le parole dei personaggi a dare spessore alle scene. La sua penna si mantiene a una certa distanza e racconta l’adolescenza e l’alba dell’età adulta di Gwendy in terza persona, una scelta azzeccata che ha anche un che di alienante.

La storia conta una trentina di capitoli molto corti che possiamo interpretare come episodi della vita di Gwendy. Potremmo, in senso lato, considerarlo un romanzo di formazione che segue Gwendy dal suo ingresso alla scuola media al college. In ogni caso, numerosi battiti di mani all’accoppiata King-Chizmar per questo manualetto di stile.


Una piccola perla

Peeerò.

La scatola dei bottoni di Gwendy si legge in fretta, forse troppo in fretta. L’impressione che rimane a fine lettura è quella di aver dissotterrato la sommità delle radici di una storia che è un peccato non poter approfondire. Scorgiamo la punta dell’iceberg che rompe la superficie, ma non il corpo, ben più mastodontico, che affonda nelle profondità del mare. Esistono romanzi di cui non vorremmo mai vedere la parola fine, ma quando, volenti o nolenti, tagliamo infine il traguardo, abbiamo la sensazione di aver concluso il percorso, di aver chiuso il cerchio e di aver corso tutti i metri da percorrere. La scatola dei bottoni di Gwendy fa rodare i motori con un what if…? di quelli da tenere il naso incollato alle pagine, ma accelera ingranando la sesta con un’eccessiva fretta di arrivare alla fine, che nell’edizione inglese giunge in poco più di un centinaio di pagine. È l’embrione di quello che sarebbe potuto diventare un bellissimo romanzo, se sviluppato oltre lo stato di bozza nel quale è stato abbandonato e rilasciato al grande pubblico. Si rimane insoddisfatti, ecco, come dopo un assaggio. Sebbene non sia un difetto grave, priva la storia del voto perfetto che si meriterebbe.

Il magnifico crescendo di tensione e la ricerca dell’horror (e anche un pizzico di sadismo, temo) ci spingono a desiderare che Gwendy metta a profitto il potere distruttivo della scatola, ma il bottone nero, per esempio, che la ragazza si rifiuta di toccare paragonandolo a un cancro, non viene mai sfruttato, perché langue solo il tempo di alcune frasi nella mente della protagonista. L’elemento horror cresce di pagina in pagina, come una tempesta che si avvicina all’orizzonte lasciando presagire un finimondo di fulmini e onde anomale, ma sulle note finali è come se si assopisse: il cielo si sgombra a dispetto delle aspettative che ci siamo costruiti e il finale ci abbandona in acque in clima di bonaccia.

I contorni fumosi della trama avvolgono anche i personaggi, che non hanno spazio di manovra per svilupparsi: se Gwendy non brilla per caratterizzazione, ancor meno si può valutare il bullo che da anni le dà il tormento: aggressività e violenza fini a se stesse, con risvolti prevedibili che lo rendono piuttosto monodimensionale. Originale e ben costruita, invece, la figura secondaria di un collezionista di monete.


Per concludere

La scatola dei bottoni di Gwendy è una ricetta favolosa concretizzata in una porzione da canarini. Due cucchiaiate e il piatto è già vuoto!

Angolo soundtrack: se volete trarre il meglio dall’incipit inquietatamente affascinante del romanzo, ascoltate Kensington Gardens dei Carbon Based Lifeforms mentre leggete il primo capitolo. La trovate su YouTube.

Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.

La lepisma libraia

La scatola dei bottoni di Gwendy

8

Trama

6.0/10

Stile

10.0/10

Personaggi

8.0/10

18 commenti su “[Recensione] “La scatola dei bottoni di Gwendy” di Stephen King e Richard Chizmar”

  1. Articolo ben scritto ma non condivido assolutamente la recensione… il racconto e’ ben più che incompleto… avrebbe forse e sottolineo forse meritato al Massimo la pubblicazione in una delle raccolte ma così per il prezzo che viene chiesto e’ una presa in giro…ho sempre più la sensazione che king non scriva una riga di quello che pubblica anche a suo nome…
    Molto insoddisfacente!

    Rispondi
    • Da quello che ho estrapolato a posteriori da Google sembra che solo il finale sia farina del sacco di Chizmar, che si è visto consegnare il testimone perché King non sapeva come concludere il manoscritto. Si sente sì il senso di vuoto del finale, ma il resto l’ho volato d’un fiato, ragion per cui alla trama ho dato una misera sufficienza… Concordo al 100% con il costo troppo alto di quello che è a tutti gli effetti un romanzo breve. L’edizione inglese si vende a qualche euro di meno, a un prezzo più equo.
      Grazie del commento!

      Rispondi
  2. Ciao, ho finito proprio oggi di leggere il romanzo. La penso esattamente come te , le tue impressioni coincidono in toto con le mie. Chi ti scrive È una fan di king, così sfegatata da aver letto la sua opera Omnia, per cui puoi immaginarti come anche io sia rimasta male Di fronte a questi assaggini di una trama che secondo me impotenza poteva esplodere in qualcosa di veramente bello. Poi il signor Richard Farris, alias Randall Flagg, alias l’uomo in nero poteva essere sviluppato meglio. Sarò di parte, ho sempre avuto un debole per l’uomo in nero e mi aspettavo una definizione del personaggio Maggiore. nonostante ciò è un libro che si legge volentieri, scorre rapidamente, solo mi hanno fatto sorridere le tavole illustrate e lo stile di impaginazione, caratteri grandi, margini enormi, quasi fosse un libro per bambini…quasi! 😛

    Rispondi
    • Ora mi spiego le 240 pagine dell’edizione italiana! Il cartaceo originale non va oltre le 170… Dei chiaroscuri all’inizio di alcuni capitoli mi accorgo ora di non aver parlato, ma aggiungono poco a una storia che poteva davvero essere più approfondita.
      Grazie del commento!

      Rispondi
      • Figurati!sono una divoratrice di libri d’ogni genere anche io ed è bello parlare con qualcuno che nutre la tua stessa passione. Ogni volta che parlo di libri mi si accendono gli occhi, ma non tutti capiscono XD

        Rispondi
  3. Delusione. Letto in poche ore mi ha lasciato assolutamente insoddisfatta e dire che poteva davvero essere un grande romanzo! In realtà già ero rimasta delusa da “Sleeping beauties” e cercavo il riscatto in questo sperando di ritrovare il King che mi ha da sempre entusiasmato. Invece è stato addirittura peggio, una trama accennata, senza adrenalina, quasi noiosa e non ho ritrovato nemmeno lo stile caratteristico dell’autore. Peccato.

    Rispondi
    • Mi trovi d’accordo sulla trama accennata. L’ho letto comunque con piacere, perché scorre bene, ma poteva essere approfondito meglio.
      Grazie del commento!

      Rispondi
  4. Non avrei mai pensato che Stephen King si squalificasse tanto!
    Spero che il suddetto non abbia scritto neanche una pagina del libro.
    Presa in giro: poco più di 200 pagine di testo di cui almeno 100 in bianco, scritte in un modo che sarebbero state meglio in un libro di 50 pagine tanto erano poche le parole per pagina.
    Vergogna! Detto da uno che possiede tutti i libri scritti da Stephen King e possiede anche tutti i libri che parlano di Stephen King.

    Rispondi
    • Purtroppo sembra che nell’edizione italiana si sia cercato di ingrossare il numero delle pagine impostando una grandezza di caratteri per ipovedenti. Pratiche commerciali un po’ discutibili…
      Grazie del commento!

      Rispondi
  5. Stesso commento fatto dopo aver letto Sleeping Beauties: ma perché non si rimette a scrivere da solo? Anche se ultimamente non ha più l’ispirazione dei bei tempi, potrebbe fare molto meglio di questo scipito abbozzo senza capo né coda, raffazzonato per riempire più pagine possibile.

    Rispondi
    • Mi trovi d’accordo, andava sviluppato meglio. Il finale è particolarmente debole e a quanto pare è stato proprio Chizmar a scriverlo, dopo che King si è impantanato per sua stessa ammissione.
      Grazie del commento!

      Rispondi
  6. Un racconto fine a se stesso in cui i personaggi sono evanescenti assolutamente non ben delineati, la trama debole. Anche a sforzarsi non si riesce a trovarne una chiave di lettura, un’ interpretazione metaforica che ne riscatti la pochezza contenutistica.

    Rispondi
    • Una storia a misura di romanzo, forse, e non di novella come deciso dagli autori. Concordo con te: poteva essere sviluppata fino in fondo. Grazie del commento!

      Rispondi
  7. Ciao a tutti, posso porre una domanda? Perché la versione epub è composta da sole 98 pagine anziché le 256 del cartaceo? La versione è tagliata?

    Rispondi
    • No, non è tagliata. Il numero delle pagine di un eBook si calcola, da quello che so, sulla quantità di parole. A determinare il numero delle pagine è quindi un divisore (che non è sempre fisso, ma che sembra attestarsi il più delle volte attorno alle 250-300 parole per pagina). Ci sono più fattori, invece, che dettano il numero di pagine del cartaceo: l’effettiva lunghezza del libro e la dimensione dei caratteri tipografici scelta dalla casa editrice che lo pubblica.
      È prassi quasi consolidata, qui come all’estero, stampare racconti con font di grandi dimensioni perché lo spessore finale del libro si avvicini a quello di un romanzo. Il libro è fisico: lo tocchi, lo percepisci. A parità di prezzo, si è in genere più disposti a portarsi a casa il libro che pesa di più.
      Non c’è bisogno che dica che disapprovo questa prassi con tutta me stessa.

      Rispondi

Lascia un commento