Primo preambolo: ringrazio di cuore Angelica Rubino, l’autrice di Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta, per avermi inviato una copia digitale di questo romanzo in cambio di una recensione onesta. Chi volesse fare richiesta di recensione può consultare questa pagina.
Secondo preambolo: spero abbiate trascorso delle buone feste e vi siate concessi una colossale scorpacciata di cioccolato, colomba e cannoncini. Che l’ago della bilancia sia con noi fino al prossimo Natale.
Terzo preambolo… stop ai preamboli, discutiamo del libro!
La recensione
Ambientato in una Britannia sospesa tra realtà e fantasia dove le fate si confondono tra la razza umana, Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta è un romanzo che condanna, con parole semplici e dirette, l’ingiustizia e la disuguaglianza sociale.
Il bienno 999-1000 è stato testimone della fervida immaginazione di stampo catastrofista della gente del Medioevo. Si temeva, infatti, che allo scoccare del secondo millennio una serie di calamità naturali avrebbe distrutto la Terra e annientato tutta la vita sulla sua superficie. In questo scenario dai toni apocalittici si muovono i nostri protagonisti: l’anziana nonna nonché fata in incognito Juliana, i due giovani fratelli Jeremy e Janeka, il cavaliere Sam, il tiranno re Deathproof, la gentile Kamila e la coccolatissima e viziatissima figlia del re, Cordelia (che fa rima con Crudelia De Mon – un nome, una garanzia).
Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta riesce a disporre sulla scacchiera delle pedine ben sagomate e subito classificabili per colore. In questo tavoliere quadrettato come nella vita vera, non manca la presenza di una zona grigia in cui schierare i personaggi ambigui e in bilico tra forze opposte.
Una menzione particolare va ai membri del popolo celtico. È confortante sapere che ci sia ancora qualcuno che non attribuisce la paternità di Halloween agli americani. Angelica Rubino integra le tradizioni celtiche conosciute con altre, come la leggenda del Melon, concepite di proprio pugno. Visto come simbolo di prosperità e immortalità, il melo era davvero un albero sacro nella loro cultura. Può darsi che l’assonanza sia una coincidenza, ma a me piace pensare che queste allusioni siano frutto di ricerche.
Tanta cultura celtica, troppe feste
La trama tende un po’ a deviare per le strade secondarie di eventi accessori quali feste di compleanno e di Halloween. Se anche ho apprezzato molto il lavoro di studio sulle tradizioni celtiche, non è a Ognissanti che è intitolato il romanzo. A tratti pare che i nostri eroi siano più impegnati a imbellettarsi e sistemarsi i canini posticci che a sventare i piani di quel despota di re Deathproof.
L’impressione, insomma, è che il romanzo manchi di struttura e che i capitoli siano stati scritti d’istinto senza l’ausilio di una scaletta a prevenire deragliamenti di intreccio.
Le situazioni conflittuali non vengono sfruttate a dovere. Nei primi capitoli assistiamo a un dialogo tra Jeremy e sua madre: lui ha le formiche ai piedi dal desiderio di partire per la corte del re, lei avanza un inutile tentativo di metterlo in guardia dall’abitudine del sovrano di decapitare i giullari che non incontrano i suoi gusti artistici. Ma Jeremy è irremovibile e pronto a scommetterci il collo.
Qual è stata la mia reazione immediata? Mi sono sfregata le mani in previsione di vedermi somministrare una massiccia dose di conflitto: ce la farà Jeremy a farsi assumere o perderà letteralmente la testa? Accidenti, che posta in gioco, ora voglio proprio vedere come si tira fuori dal ginepraio! A dispetto delle mie rosee aspettative, tutto questo potenziale si è dissipato in poche righe:
Ecco, adesso era il suo turno.
“Ce la puoi fare, Jer” pensò fra sé aspettando che il re lo chiamasse dinanzi a lui per farlo esibire. Quando accadde, sentì un vento gelido attraversare il suo corpo ed entrargli nel sangue.
«Hai bisogno di qualcosa maghetto?» rise Deathproof.
A lui quel riso non piacque e si sentì imbarazzato.
«Sì, mi servirebbe un mazzo di carte» rispose.
[…]
Jeremy prese due carte e le mostrò al pubblico, dopo di che invitò Cordelia a inserirle nel mazzo in posizioni diverse e distanti fra loro. Lei lo fece. A quel punto lui disse di essere in grado di ritrovare le due carte semplicemente lanciando il mazzo in aria e…ci riuscì. Cordelia applaudì divertita e Deathproof si alzò in piedi per rendere omaggio l’artista. Daron tirò fuori dal baule il costume da giullare.
Fin.
Il protagonista che ha vita difficile ci calamita al libro, mentre un romanzo privo di contrasti è la quintessenza della noia. Parola d’ordine: conflitto. In un vecchio manuale di scrittura (il cui titolo sta attualmente giocando a nascondino nell’archivio dati della mia memoria…) si consigliava di seguire il detto “dalla padella nella brace”. Elevare i pericoli al quadrato invece di estrarne la radice, non lesinare cattiverie ai danni dei personaggi. Facciamoli tribolare per ottenere il loro lieto fine! Cosa sarebbe successo se Jeremy avesse indovinato solo una delle due carte?
In ogni caso, la storia di fondo è ricca di spunti di riflessione. Possiamo interpretare l’abisso di benessere tra il popolino e il re, tra chi sta alla base e chi alla sommità della piramide sociale, come un riflesso delle moderne classi di chi governa e chi lavora, dell’uno che frega e del milione che viene fregato. Ne servirebbero, di Jeremy! Nonostante il romanzo intrecci elementi del filone fantasy, quali le fate, appunto, ad altri che affondano radici nella Storia del nostro mondo, la tematica che affronta è più attuale che mai: sul trono che spetterebbe all’animo virtuoso siede, molto più spesso, il corrotto fino al midollo che puntualmente è disposto a vendersi l’anima al diavolo pur di piantarci il sedere vita natural durante (e oltre).
Ma siamo davvero in Britannia?
Ci sono, purtroppo, alcuni particolari che stonano.
Nella Britannia di Jeremy, all’imbrunire del 999, esistono gli zainetti e i panciotti. Ci troviamo in un universo parallelo che ci ha preceduto di cinque secoli nell’invenzione dei panciotti? Non viene specificato.
Manca il supporto di una mappa, anche appena abbozzata. Le distanze si misurano in generiche settimane di viaggio, non in chilometri. Non si sa dove siano le immaginifiche Adalama e Flourshing (o Flourishing, entrambe le grafie sono utilizzate) rispetto a Londinium e il Tamesis, gli unici toponimi geograficamente collocabili.
Sono mancanze da strapparsi i capelli? Certo che no, ma sono sintomatiche di una scarsa cura nei dettagli. La riuscita di un romanzo fantasy dipende da questi dettagli a prescindere dal target di lettura: non è che se un romanzo è per ragazzi allora posso costruire un regno “campato per aria”.
Messo da parte il fascino della cultura celtica, rimane insomma il quadro di una worldbuilding dipinta con pennellate rozze, in una disarmonia di colori da imputare, forse, più all’uso sbadato dei termini di cui sopra che a contaminazioni anacronistiche.
A(f)fianco, “c’è l’avevi” e virgole birichine
È giunto il momento di commentare il tallone d’Achille del romanzo: lo stile. Sarà un viaggio irto di spine. Vi chiedo il permesso di sottrarvi qualche altro minuto del vostro tempo e di leggere i paragrafi seguenti fino alla fine, dove troverete… no, la priorità alla recensione vera e propria. Non sbirciate con fulminei scorrimenti di rotellina del mouse, ché la lepisma vi guarda.
Dunque… c’è da dire che, tolta qualche intrusione di punto di vista (quello che viene definito PDV “ballerino”), la penna di Angelica Rubino si lascia leggere con scioltezza. Non si inceppa, né si esibisce in ghirigori barocchi. Questi (ottimi) punti a favore non compensano, però, i suoi gravi difetti.
Gravi, sì, perché lo scrittore è l’ultima persona da cui potrei aspettarmi imprecisioni linguistiche. Se sui refusi sono disposta a soprassedere perché non esiste un vaccino contro le distrazioni, non posso – e non sarebbe corretto ai fini di una valutazione sincera – ignorare i numerosi errori di ortografia e il posizionamento arbitrario delle virgole.
Daron e Corr, erano affianco a lui e russavano, coprendo i suoi già flebili passi.
«E’ già, d’altro canto […]» disse lei facendo l’occhiolino.
«Auguri!» risposero in coro i ragazzi «non c’è l’avevi detto!»
«Figlio mio, tu sai bene che Deathproof decapita chiunque faccia esibizioni a lui, non gradite!».
[…] si sollevò su una gamba sola e li guardò come chi osserva un’animale per la prima volta.
Precisione, precisione e ancora precisione
La qualità dello stile è incostante: raramente descrive bene, spesso non descrive affatto, troppe volte si adagia sugli allori e ricicla le stesse espressioni linguistiche. Ancora peggio, questo stile racconta quando dovrebbe mostrare.
Persevererò nella predicazione della tecnica dello show, don’t tell finché avrò fiato: le scene cardine di un romanzo vanno mostrate, non raccontate. Sono troppo importanti per essere liquidate in una manciata di parole.
In quel momento Cordelia lanciò un urlo. Non di rabbia, stavolta, ma di dolore.
La diciassettenne abbassò le braccia e lanciò anche lei un grido. Quello che vide la spaventò enormemente: la cugina era stata colpita alle spalle da una freccia.
Raccontando, riassumendo, si privano i colpi di scena del giusto impatto.
Vorrei vedere Cordelia digrignare i denti, storcere la bocca, tremare nel tendere una mano verso l’asta piantata nella schiena. È attraverso le azioni concrete, e non le descrizioni astratte, che si caratterizzano i personaggi. Imboccare il lettore con la pappa pronta dicendo che tal personaggio si spaventa enormemente, invece di descrivere la paura come, che so, una sensazione di gelo nelle ossa o di un cuore che tenta di sfondare la cassa toracica, non sollecita alcun interesse né coinvolge il lettore emotivamente.
Questo è mostrare:
I loro volti erano ingialliti, pieni di pustole, i denti cariati, le ossa quasi fuoriuscivano dalla carne magrissima. Le case erano distrutte, dalle fontane usciva solo acqua sporca.
Questo no:
Il cavallo si trasformò diventando improvvisamente enorme.
Raccontare equivale ad annacquare una bottiglia di Barolo. Per scrivere bene, bisogna sforzarsi di essere precisi. Ma non sempre vale questa regola…
Annuì poi con la testa.
Questa precisazione è superflua perché si annuisce solo con la testa.
E il libro è tutto così.
Dulcis in fundo
Sapete qual è il colmo? Che nella prefazione al romanzo qualcuno di cui non voglio fare il nome abbia avuto la faccia di bronzo di lodarne lo stile. Questa, signori, non è professionalità. È una presa in giro nei confronti dell’autrice che nonostante la giovanissima età e i limiti dettati dall’inesperienza si è messa in gioco e con dedizione ha portato a termine un’impresa di cui c’è solo di che andare orgogliosi. Lo stile è immaturo? Sì. Sono presenti errori di grammatica? Cavolo, sì. Allora è un obbligo morale farglieli notare perché ne diventi cosciente e corregga il tiro in vista di lavori futuri. Mentire non è costruttivo.
Per concludere
Un’animale. C’è l’avevi. Daron e Corr, erano affianco a lui. Annuì con la testa. […] decapita chiunque faccia esibizioni a lui, non gradite.
Al rappresentante di Apollo Edizioni che si spertica in complimenti sullo stile (“Ogni parola, ogni punto e perfino ogni virgola è meditata e giustapposta […]” ) vorrei chiedere se il libro l’ha quantomeno sfogliato o se l’ha usato per assestare la gamba del tavolo.
La lepisma libraia