Preambolo necessario: ringrazio di cuore Raffaele Izzo per avermi inviato una copia digitale di questo libro in cambio di una recensione onesta. Chi volesse fare richiesta di recensione può consultare questa pagina.
Fra i venti libri che ho letto dall’inizio di quest’anno, Rorschach è stato il più sofferto. Che non mi si fraintenda: non è stato il peggiore in sé, ma il peggiore da digerire. Tanti i fattori responsabili, da un genere di metanarrativa profonda e filosofica che non è il pane che sono solita masticare a uno stile volutamente prolisso che mette al bando ogni realismo, senza trattenersi dal riversare qualche goccia di superacido sulla narrativa di generi più commerciali e sui suoi relativi lettori. Vediamolo assieme.
La recensione
Rorschach è un romanzo ambizioso sulla lotta interiore e tutta umana fra istinto animalesco e razionalità. È la storia della famiglia Rorschach e dei loro figli, uno naturale e l’altro adottivo, rispettivamente Michael e Jean Paul, in una Parigi in cui i riflessi della Senna e la luce soffusa dei lampioni in ferro battuto si ritirano dietro le quinte per cedere il palco a una narrazione astratta e libera dai vincoli del realismo. La psiche è la protagonista indiscussa.
Ed è la psiche la nemica dei Rorschach. Quando Michael, adolescente introverso e mentalmente più maturo dei coetanei, mostra le prime avvisaglie di un tratto che la famiglia si tramanda di generazione in generazione, Philippe, suo padre, colui che ha spezzato il cerchio del male, deve escogitare una soluzione perché quest’indole genetica e oscura, latente per tutta la vita, non prenda il sopravvento sul ragazzo come ha fatto in passato su altri membri della famiglia.
Ricco di spunti e di percorsi metanarrativi, Rorschach, dal nome del famoso psichiatra, si configura come un romanzo sperimentale che stimola il lettore a riflettere sulla coscienza umana e sulla responsabilità delle nostre scelte.
Coinvolgere piccoli, potenziali scrittori
Rorschach è diviso in tre sezioni. La prima, di gran lunga la più riflessiva delle tre, ci introduce ai membri della famiglia Rorschach, o forse dovrei dire che l’autore stesso rompe la quarta parete e ci guida la mano a stringere quella di Michael, di Jean Paul e dei loro genitori. Un po’ troppe interferenze per i miei gusti di lettrice, ma nel guazzabuglio di aggettivi emergono un paio di stimoli interessanti, primo fra tutti l’incapacità della mente umana di proiettarsi davvero in una coscienza estranea alla sua. La seconda parte, dal titolo Un accenno di romanzo, è più snella in nozioni di filosofia ma sempre viscosa da deglutire.
La terza parte, l’ultima, ha risvegliato un interesse andato scemando nelle sezioni precedenti. Qui l’autore si immedesima professore (in seguito a ricerche scopro che lo è davvero, di lettere) e propone agli studenti di scrivere, coi loro mezzi e secondo la loro vena creativa, delle variazioni alla storia principale esposta nelle precedenti sezioni. Gli studenti si ripresentano dunque a scuola il giorno successivo, leggono ad alta voce uno degli elaborati e lo discutono insieme all’insegnante, che li stimola a lasciare un contributo nel calderone del dibattito di classe. Da mera lettrice, mi sono trovata partecipe: viene naturale inserirsi nel contesto di quest’aula immaginaria e ruminare le opinioni dei compagni. L’idea di partire da un prompt e sguinzagliare la creatività su finali alternativi l’ho trovata davvero interessante.
Ma anche un’idea interessante dev’essere sviluppata bene.
Affascinante (e già collaudato) l’incarto… ma il contenuto?
Ottimi il ritmo e la sintassi, palesi eredi della cifra stilistica ad asindeti di Saramago (di cui ho letto solo Cecità, e non troppo poco tempo fa, pertanto potrebbero esserci altre influenze che il mio bagaglio di letture non coglie), mentre sul piano ortografico si incappa in qualche affianco, accento e apostrofo da far storcere un pochino la bocca (un incudine, un’affastellarsi, da l’impressione di essere, ora va a giocare un po’), ammaccature su una buccia altrimenti immacolata. Domina, tuttavia, una tendenza a perdersi in quella che, per usare un termine forse un po’ troppo dispregiativo, viene chiamata fuffa.
Suo padre sembrava perplesso adesso, stranamente chiuso nei suoi pensieri, come se stesse viaggiando verso altri lidi, senti che strane immagini vengono in mente a questo piccolo uomo che dice di non amare i libri, e dove l’avrà mai presa questa figura del viaggiatore e della spiaggia, ci chiediamo noi in un impeto si curiosità, giustificata senz’altro dal contrasto dei due stati, profondo quello interno, vacuo e leggero quello esterno, che sempre l’uomo deve avere tante maschere, girarle continuamente sia verso gli altri che verso se stesso, data la difficoltà della vita terrena, impossibile da affrontare senza schermi, maschere, scudi e inganni.
Emerge prepotente lo sproloquio, quel tipo di discorso che sottrae al lettore tempo ed energie senza ricambiare in contenuto. In quest’arte, la pseudo-retorica del parlare a profusione senza dire nulla di concreto, i nostri politici han conseguito la laurea ad honorem. Se anche basta pigiare un tasto del telecomando per virare a contenuti più informativi, però, non possiamo saltare a piè pari intere pagine di un libro, perché incorreremmo nel rischio di sorvolare i passaggi importanti. Di una trama, infatti, in Rorschach c’è solo l’embrione al primo stadio di sviluppo e si abbonda invece di introspezioni che si dilungano a meditare a ciclo continuo sugli stessi concetti e non concorrono a caratterizzare i personaggi.
«Un giorno saremo maturi per la vera avanguardia, una narrazione veramente astratta, che salta i passi mediani, inutili, deboli, e si concentra solo sulle scene enormi, anche a distanza di anni. Per cavalcare tutto il tempo, e non solo pochi anni. È l’epica introdotta nel romanzo, lo so, ma io resto scettico, e con me tutte le tendenze attuali.»
Fatti, non parole
Su azioni e descrizioni concrete prevalgono dunque digressioni filosofiche e riflessive a colpi di enunciati da trecento parole l’uno. Diversamente da Cecità, ad esempio, in cui si bilancia il concreto con l’astratto nelle giuste dosi, lo stile di Rorschach, che pure si ispira dichiaratamente alla penna dell’autore portoghese, commette l’errore di sopravvalutare la narrazione astratta identificandola come superiore a quella concreta dei prodotti commerciali a uso e consumo, e qui cito pari pari dal libro, “della massa di cerebrolesi che attualmente ci sommerge”. Gli occhi guizzano febbrili da margine a margine in cerca di una descrizione, di un paio di virgolette caporali o di un punto a capo su cui rifornirsi di ossigeno (si garantisce lo sviluppo di un paio di polmoni da sommozzatore). Si legge tanto per sapere poco. È uno stile che pende troppo verso la pigrizia stilistica del raccontato.
Un semplice cruccio di un padre di famiglia a beneficio di un tenebroso figlio adolescente si traduce allora nell’occasione per rivangare il brodo primordiale in un monologo interiore nel quale il genitore si interroga – si tormenta – sui propri metodi educativi:
Subito andò agli episodi degli ultimi giorni, alle piccole sensazioni che lo angosciavano da almeno un anno. Anche lui, come sua moglie, aveva percepito nell’aria dei segni, dei sintomi di un cambiamento nel carattere dei suoi figli. Certo, non erano pensieri esprimibili per sintesi, anzi, si chiedeva spesso se non fossero solo proiezioni delle sue angosce di scrittore fallito. Poteva essere che si sbagliasse? Aveva sempre creduto di conoscere bene la sua famiglia: ma, ultimamente, non ne era più tanto convinto. Non riusciva a capire come avesse potuto sfuggirgli tutto di mano in quella maniera. Sembrava che da un giorno all’altro tutto fosse cambiato all’improvviso. O era lui che non aveva seguito abbastanza lo sviluppo degli eventi? Era veramente troppo preso dal suo mondo di gnomi e folletti? Viveva in un regno fantastico trascurando le persone a lui più care? Scacciò il pensiero in maniera netta, no, era un’idea che non voleva accettare, la rigettava con forza nel profondo della caverna dentro di lui, meglio pensare al presente, a come risolvere i problemi con i suoi figli. Eppure il senso di colpa tornava a colpirlo con una forza imprevedibile, niente riusciva a tranquillizzarlo veramente. E meno che mai il cercare di approfondire il dialogo con loro. Ci aveva provato, certo. In tutte le maniere possibili. Tuttavia niente aveva potuto evitare che i suoi figli si allontanassero lentamente da lui. Quando era cominciato? Con Jean tutto era ancora agli inizi. Sentiva molto il peso della situazione difficile tra il fratello e il padre. I litigi frequenti lasciavano sicuramente un segno profondo anche in lui. Forse però c’era ancora tempo di rimediare. Con Michel, però, la cosa era andata già oltre. Niente di trascendentale, certo. Tutti gli adolescenti passavano quella fase. Lui compreso. Tuttavia nel suo figlio maggiore c’era qualcosa di diverso. Lui lo percepiva. Così come sua moglie. Sì, Anne aveva ragione. C’era una vena segreta e profonda dentro Michel, un pozzo a cui lui attingeva segretamente, una miniera profonda e oscura in cui lui si rifugiava incoscientemente, sempre più spesso ultimamente, estraniandosi dal mondo. Si ripeteva sempre che era normale a quell’età, che suo figlio era solo un tantino introverso, tutto qua. E più se lo diceva, meno ci credeva. Non riusciva a comporre il tutto in pensieri coerenti.
E questo è solo il primo paragrafo di una lunga serie di stream of consciousness a cui urge, a mio parere, un “servizio di potatura del superfluo”. Ne consiglio comunque la lettura a chi si entusiasma coi barocchismi e con le citazioni di grandi classici della letteratura. Se ne trae più di una lezione di stile.
Per concludere
Buono il come, migliorabile il cosa.
La lepisma libraia