[Recensione] “L’anno in cui imparai a raccontare storie” di Lauren Wolk

Vi avevo annunciato, qualche giorno fa, che avrei recensito L’anno in cui imparai a raccontare storie, nuova uscita della Salani che questo 10 maggio reclamerà la sua nicchia sugli scaffali delle nostre librerie. Ebbene, mi ripresento sul blog con buone notizie e il cuore strapazzato…

Titolo: L’anno in cui imparai a raccontare storie
Autore: Lauren Wolk
Genere: ragazzi/drammatico
Editore: Altromondo Editore
Pagine: 278

Come Il buio oltre la siepe, a cui è stato paragonato da tutti i critici che l’hanno recensito, questo libro è la sintesi perfetta di avventura, suspense, impegno civile. Ambientato nel 1943, all’ombra delle due guerre, è il racconto di una ragazzina alle prese con situazioni difficili ma vitali: una nuova compagna di classe prepotente e violenta, un incidente gravissimo e un’accusa indegna contro un uomo innocente. Annabelle imparerà a mentire e a dire la verità, perché le decisioni giuste non sono mai facili e non possiamo controllare il nostro destino e quello delle persone che ci sono vicine, a prescindere da quanto ci impegniamo. Imparerà che il senso della giustizia, così vivo quando si è bambini, crescendo va difeso dalla paura, protetto dal dolore, coltivato in ogni gesto di umanità.
Una scrittura nitida e coinvolgente dà voce a una delle protagoniste più forti della letteratura contemporanea e terrà incollati alle pagine sia i ragazzi che gli adulti. L’anno in cui imparai a raccontare storie è già un classico.


L’anno in cui imparai a raccontare storie: la recensione

If my life was to be just a single note in an endless symphony, how could I not sound it out for as long and as loudly as I could?

L’anno in cui imparai a raccontare storie vi farà digrignare i denti e stringere i pugni. Che siate bocche di porto o bocche di rosa, vi caverà fuori una sfilza di volgarità assortite. Lettori avvisati, mezzi salvati. Le mani cominceranno a prudervi così tanto dal desiderio di fare qualcosa, qualunque cosa, che rischierete di defenestrare il libro. Se tecnologicamente aggiornati, lancerete l’eReader sul quale lo state leggendo. Magari gli assesterete prima un paio di testate sperimentali, giusto per avere conferma, non senza una punta di frustrazione, che le leggi fisiche che governano il nostro mondo non sono le stesse che pervadono quello magico di Harry Potter e del diario di Thomas Riddle.

Lungi dall’essere solo un romanzo per ragazzi, L’anno in cui imparai a raccontare storie non si fa scrupolo di sconvolgere il lettore con tematiche forti, di quelle da strofinarsi le braccia per scacciare via i brividi di orrore. E non crediate, voi del pubblico che avete già soffiato su diciotto candeline, di poter scampare alla pelle d’oca. È un libro crudele, di una violenza sottile ma agghiacciante. Vi turberà, che lo vogliate o meno, e poi vi farà sfiatare come tori pronti a incornare il primo malcapitato. Proprio come Il buio oltre la siepe.

Ma di che violenza stiamo parlando, esattamente?


L’anno in cui imparai la violenza del bullismo

Siamo alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, nell’autunno del 1943. Alla cattedra scolastica si presenta Betty, ragazza di città trasferitasi dai nonni nella pacifica campagna della Pennsylvania. Annabelle, figlia di fattori e nostra protagonista, è lì lì per tendere il palmo aperto in segno di amicizia, ma Betty Glengarry, a dispetto del grazioso visino d’angelo, butta via il rametto d’ulivo per impugnare il bastone.

Betty non è cattiva, si dimostra cattiva. Tanto cattiva da far cascare la mascella a tutti i lettori, a prescindere dalla loro età. Temendo ritorsioni, Annabelle si lecca le ferite al buio, lontano dagli occhi dei genitori. Solo dopo l’intervento di Toby, un veterano di guerra che da anni intrattiene un silenzioso quanto strano rapporto con la famiglia della ragazza, Annabelle si arma di sufficiente coraggio per confidarsi con gli adulti.

Non l’avesse mai fatto. Vi lascio il piacere (il raccapriccio) di addentrarvi da soli nel ginepraio di questa storia di bullismo.


L’anno in cui imparai la violenza del pregiudizio

Dopo l’incontro/scontro con Toby, imponente nella sua stazza di adulto coi pugni sulle reni, Betty se la svigna con la coda fra le gambe. Quando la quiete sembra tornare nella vita di Annabelle, ecco che un sasso piomba di nuovo a sconvolgere la superficie dello stagno. La increspa di onde che si infrangono sull’intera comunità di Wolf Hollow. La dinamica dell’accaduto, di cui non parlerò, ha tutte le carte in regola per essere classificata come un incidente. Quando Betty, tuttavia, punta il dito accusatore contro Toby, Annabelle è certa che si tratta di una rappresaglia nei suoi confronti.

La collettività allora abbocca come un pesce all’amo e scaglia la prima, metaforica pietra. Toby è strano, Toby spiccica due parole in croce, Toby si aggira per la campagna con tre fucili sulla schiena, Toby occupa un affumicatoio a malapena abitabile, Toby, Toby, Toby. Toby che è così magro da avere costole in evidenza, che possiede poco più della sua pelle. Deve essere lui il colpevole perché, insomma, Betty ha detto che lo ha visto e Betty è la voce della verità. Perché è facile lapidare chi ha solo mani nude dietro cui ripararsi.

One time he had showed me a batch that featured a red-tailed hawk with a rabbit in its beak, a thunderhead glazed with evening light, a deer napping in a patch of mayapples. I had never known anyone quiet enough to approach a sleeping deer. Nor had I known any hungry man who would shoot one with a camera instead of a gun.

Ritroviamo, in una misura ridimensionata rispetto al più “adulto” Il buio oltre la siepe, la condanna verso il razzismo e l’oppressione dell’innocente. Un’altra penna che denuncia una realtà in cui l’ideale di una giustizia equa (r)esiste solo nella mente di alcuni illusi. Inquieta, se non addirittura indigna, l’attualità di questa disuguaglianza.

E il rimorso arriva sempre troppo tardi!


L’anno in cui imparai la violenza dei pensieri

Le circostanze portano Betty a giacere ignara su un tappeto di edera velenosa, e gli strali di Annabelle sono anche i nostri: ti vengan le vesciche fin fra le dita dei piedi, brutta vipera. Quando lo srotolarsi della trama esaudisce le preghiere con gli interessi, però, Annabelle rivaluterà la sua coscienza, e così noi la nostra.


L’anno in cui mentii secondo convenienza

Per assecondare l’intuito che le dice di essere nel giusto, Annabelle deve fare ricorso a quelle che vengono definite bugie bianche: mentire, cioè, a fin di bene. Le costerà. Annabelle non solo imparerà a raccontare “storie”, ma dovrà anche imparare ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte, qualunque siano le loro conseguenze. Imparerà a rendersi conto che a nulla vale rimacinare i se del passato quando la vita che si percorre non permette di fare marcia indietro.

Ovunque si trovi la fine di questo percorso, l’ostinazione della giovane Annabelle è come un faro di speranza verso un futuro in cui si annulleranno tutte le ingiustizie sociali. Bisogna perseguire la verità, sempre e comunque, indipendentemente dalle probabilità di successo. Alla gioventù il compito di crescere più rigogliosa della generazione precedente.


Per concludere

Una storia drammatica e coinvolgente che ruota attorno a un grappolo di personaggi indimenticabili, nel bene e nel male, introdotti con uno stile che è come carta moschicida per i nostri occhi.

Stellina per recensioni.
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La lepisma libraia

L'anno in cui imparai a raccontare storie

10

Sviluppo

10.0/10

Stile

10.0/10

Personaggi

10.0/10

2 commenti su “[Recensione] “L’anno in cui imparai a raccontare storie” di Lauren Wolk”

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