[Recensione] “Le parole di luce” di Joanne Harris

Prima ci fu Il canto del ribelle. Poi fu il turno di The Testament of Loki (traduzione italiana tutt’ora avvolta nel mistero). Terzo per ordine cronologico (non di pubblicazione), Le parole segrete. Infine, il quarto e ultimo posto in fila lo troviamo occupato da Le parole di luce, quest’oggi esposto sul vetrino perché la lepisma ne analizzi la cellulosa a livello molecolare. Con questo romanzo, l’uroboro si morde la coda e chiude la quadrilogia di scritti che Joanne Harris ha consacrato ai miti norreni. Come anticipato dalla Harris è molto probabile che il quadri diventerà penta, ma l’autrice non ha rilasciato alcuna coordinata temporale entro la quale aspettare l’uscita in sala di un quinto volume. Nel frattempo, perciò, godiamoci i piatti che son già in tavola.

Si avvisano i gentili lettori che questa recensione contiene spoiler sulla trama del libro prequel Le parole segrete. Se il titolo non figura tra le vostre letture pregresse, procedendo a scrollare questo articolo vi assumete per silenzio assenso ogni responsabilità del vostro gesto scellerato. Alla lepisma potrete rinfacciare solo di non avervi cacciati con più solerzia.

Titolo: Le parole di luce
Autore: Joanne Harris
Genere: fantasy/young adult
Editore: Garzanti Libri
Pagine: 593

Maddy e Maggie hanno la stessa età, ma non potrebbero essere più diverse. Maddy è coraggiosa e ribelle; Maggie, invece, ama le regole e la disciplina. La sua passione sono i libri antichi. E solo immersa tra quelle pagine che riesce a non sentirsi sola. Eppure c’è qualcosa di misterioso che unisce le due ragazze nel profondo. Un marchio sulla loro pelle: una runa. Un simbolo considerato da tutti una maledizione, un flagello. Perché nel mondo dove vivono Maddy e Maggie la magia è proibita. Giocare è vietato. E sognare è considerato il più terribile dei peccati.

Ma c’è qualcuno che non ha paura di quel segno antico. Adam, un sorriso che toglie il fiato e due occhi azzurri impenetrabili dietro cui si nasconde un oscuro passato. All’inizio Maggie cerca di allontanarlo, ma poi non riesce a resistere alla forza sconosciuta che la attira verso di lui: il ragazzo è l’unico a conoscere il segreto scritto nella runa. Un segreto che parla di lei, delle sue origini e della scomparsa della sua famiglia. Un segreto che custodisce una minacciosa profezia che sta per compiersi: il loro mondo e il loro amore sono in pericolo. Maggie è la sola in grado di difenderli. Ma per farlo deve essere pronta ad accettare il suo destino. Un destino che la lega in modo indissolubile a Maddy. Le due ragazze hanno bisogno l’una dell’altra. Finalmente sono vicine come non mai, ma allo stesso tempo inesorabilmente lontane.


Le parole di luce: la recensione

Le parole segrete ci ha abbandonati su una fulminante rivelazione: Maddy è Móði, progenie profetizzata di Thor. Nell’assestare qualche pacca consolatrice a un dio del Tuono derubato degli eredi maschi (ma in corso d’opera avrà tutte le ragioni per inorgoglirsi anche di una figlia femmina), passiamo in rassegna i nuovi volti dei vecchi dèi.

C’è chi è stato tutto sommato fortunato, come Thor nelle sembianze del nerboruto Dorian Scattergood, e chi non può che grufolare e manifestare a incomprensibili grugniti la propria indignazione come la permalosissima Sif nelle rotondità adipose del corpo di una scrofa. Sembra che gli dèi – con diversi gradi di apprezzamento – siano scesi a patti con i loro aspetti e conducano una vita tutto sommato regolare nella Malbry del mondo di sopra.

Il mondo di sopra, tuttavia, non soddisfa le loro divine aspirazioni. Dal giorno della caduta gli dèi mirano con nostalgia alla loro casa nel cielo, ora cumulo di rovine. La loro vita ha imboccato un binario che scorre in un deserto dove rotolano le palle di salsola e gli dèi si sono rassegnati a rimanere infognati in corpi che non sono i loro, in esistenze terrene che non sono state tagliate per loro. Non c’è speranza di smettere i cenci del Popolo per calarsi di nuovo nella seta asgardiana.

Ma ecco, tra capo e collo, l’imprevisto: l’orizzonte uniforme si spezza in un tracciato che si snoda in un bivio. A tirar dritto sul binario monco davanti a voi abbraccerete l’impatto con un paraurti di adamantio. L’altro tracciato, in rotta di avvicinamento alla stessa velocità dei vostri iperturbati pensieri, si incurva e si fonde in lontananza con l’estremità di un arcobaleno e già sapete, memori dei tempi d’oro che furono, quali meraviglie vi aspettano dall’altra parte del ponte a semicerchio. Per esserne testimoni, tuttavia, dovete prima deviare dalla traiettoria di morte che state cavalcando a velocità ultrasonica.

Il deviatoio si chiama soluzione della profezia appena formulata e sta a voi ricomporre il puzzle per dirottare il convoglio verso la Asgard 2.0. A complicare le cose, però, vi insegue dappresso un brigante apparso da chissà dove in sella a un dromedario. Non solo l’animale tiene testa al treno, ma con le zampe sparge mangiate di sabbia per aria che vi ostacolano la visuale. Oltretutto, in quello che vi riesce di intravedere nella nuvola di granelli vorticanti, vi sembra che questo brigante abbia degli occhi inquietantemente famigliari.

Questo brigante si chiama Maggie e nessuna opera di proselitismo varrà a farlo desistere dal suo obiettivo: impedirvi di girare al crocevia.


Qualcuno tappi la bocca a quell’oracolo!

“Vedo un possente Frassino accanto a una Quercia possente.
Vedo alto un Arcobaleno, eredità d’ingannevole Morte.
Ma Tradimento e Massacro con Follia volano in cielo
e quando si romperà l’arco, allora la Culla cadrà
e poi la Quercia e il Frassino, tutto cascherà.

La Culla cadde un’era fa, ma sorgerà da Popolo e Fuoco
in dodici giorni, alla Fine dei Mondi; un dono nel sepolcro.
Ma la chiave del cancello è figlia dell’odio, figlia di entrambi e nessuno.
E nulla di sognato è mai perduto, e nulla perduto per sempre.”

Fedele all’impostazione del mito da cui trae ispirazione, la trama de Le parole di luce, come Le parole segrete prima di esso, ruota attorno al contenuto di una nuova profezia. Il concetto di predestinazione, d’altronde, condiziona tutti i racconti del mito norreno: ne è il filo conduttore, è la certezza della caduta da cui non ti puoi sottrarre. L’Edda poetica stessa esordisce con la profezia detta Vǫluspá dove si narra della creazione del mondo e del ciclo di vita e di morte potenzialmente infinito a cui sarà sottoposto (Ragnarǫk).

Se ti chiami Odino, ad esempio, sai già che l’ultimo alito di vita lo esalerai infilzato tra le zanne bavose del lupo figlio di tuo fratello, e che quel bastardo e infingardo di tuo fratello ingaggerà battaglia con Heimdallr, e che i due si stroncheranno la vita a vicenda in un’apocalisse globale alla quale sopravviverà solo il ramo più giovane dell’albero genealogico divino. Già sai tu, vecchio guercio sotto al cappello a tesa larga, che sarai estromesso dal mondo che rinascerà dalle ceneri di Asgard. Le profezie sono ineluttabili. Non ci sono finali alternativi a quello predetto, né sotterfugi che tu possa escogitare affinché il destino prescritto rimanga solo il delirio psicotico di una cariatide un po’ matta (Vǫlva). Ti metti l’anima in pace, punto.

Le parole di luce esordisce con una profezia dall’impostazione molto simile: il mondo come lo conosciamo cadrà, ma risorgerà dalle proprie rovine. Non lo farà tuttavia da solo, in autonomia, gli servirà una mano che lo tiri su dall’alto. Ai nostri protagonisti decifrare il contenuto e capire cosa fare perché si avveri.

Insomma: la vecchia Asgard è andata perduta, ora è tempo di rilasciare una nuova versione della cittadella celeste che sia corretta da tutti i bug e, soprattutto, inespugnabile da qualsiasi malware dei Nove Mondi. E si sa che il fiume Sogno abbonda di materiali da costruzione… forse questa leva di scambio è più a portata di mano di quanto si pensi.


Io, francamente, continuo a capirci poco

Questi libri della Harris parlano di sogni e a trascrizioni oniriche assomigliano: in loro è assente qualsiasi senso di consequenzialità, al pubblico passivo stimolano l’innalzamento di un sopracciglio confuso mentre la trama procede a tre passi avanti e due indietro. L’impianto de Le parole di luce, come anche degli altri volumi di questa serie, tenta più volte il colpo di scena con la tecnica reiterata del “detto dopo”. Ci sono scrittori che della slealtà moderata fanno una virtù; altri, come la Harris, che sembrano non avere il senso della misura per fermarsi prima di esagerare e stancare il lettore a suon di rivelazioni.

In spiccioli: i colpi di scena colpiscono se sono pochi. Per dirla con una deriva dialettale di queste parti, i colpi di scena della Harris mi hanno sgionfato (dialettale per stufato).


Ricicliamo la carta, non i cattivi

E mi ha sgionfato anche il cattivo. Non puoi proporre lo stesso identico antagonista in tre libri su quattro, Joanne! Persino la Rowling, col suo villain potenzialmente immortale, non è arrivata a tanto!

No, Maggie non è l’antagonista. Di ciò che posso svelare di lei senza incorrere in spoiler parlerò nel paragrafo successivo, ma per ora lasciatemi mettere nero su bianco questo enunciato: Maggie non è il cattivo. Maggie è solo una pedina, una ragazzina turlupinata e sedotta da belle parole e false promesse infiocchettate con nastrini di raso. Il vero nemico, invece, è qualcuno che conosciamo fin troppo bene. Ne Le parole di luce ritroviamo dunque l’atmosfera da Fine dei Mondi con gli dèi che devono (ri)salvare l’universo dallo stesso cattivo che l’ha già minacciato l’altra volta.

E che barba, che barba, che noia… ma neanche la cricca di Jurassic Park, d’altronde, ha capito che il fascino del T-Rex è inversamente proporzionale al numero di volte che lo porti su schermo.


Maggie, stupidotta Maggie

La star decaduta de Le parole di luce è Maggie, coetanea di Maddie. È chiaro fin dalle prime pagine che Maddie deve aver fatto un uso migliore di Maggie dei nutrienti nel liquido amniotico, perché fra loro due c’è una netta disparità di materia grigia.

Maggie è una pecora smarrita, una pecorella nata fuori dal recinto. Anziché raggiungere il gregge che la chiama a grandi belati dall’interno della staccionata, Maggie preferisce spassarsela con Amico Lupo. Chi le darebbe torto, d’altronde? Le pecore nel recinto brucano erba che cresce a stento mentre Amico Lupo torna ogni sera a vezzeggiarla con zuppiere di steli della migliore qualità. Le riempie la pancia senza chiedere altro in cambio, le permette di scaldarsi dormendogli accanto.

Nel sentirsi al centro dell’attenzione, trattata come neanche una regina, Maggie gira il codino a beneficio delle altre pecore e continua a mangiare a sbafo, mentre il lupo si lavora la bava in bocca e con l’olfatto della mente annusa l’arrostino d’agnello con patate nel quale, terminato il periodo d’ingrasso, Maggie si trasformerà.

Maggie nega l’evidenza dei maltrattamenti per continuare stolidamente a definirsi innamorata del suo carceriere. Un amore, il loro, che scocca non si sa bene da quale arco, un rapporto irrealistico impresso su carta per convenienza di trama e niente altro. Vado a pesca della metafora più zuccherosa e smancerosa del mio repertorio di galantuomo paragonando i tuoi occhi a stelle del firmamento e *boom*, fra noi ci si dichiara amore imperituro. Ma da quando?

Al di là del fatto che ogni parola di un libro andrebbe comunque valutata in funzione dell’importanza che ricopre nello sviluppo dell’intreccio narrativo (una buona attività di scrematura del superfluo che spesso viene ignorata e violata senza pudore), deve comunque percepirsi lo sforzo da parte dell’autore di coltivare relazioni tra personaggi che imitino le dinamiche sociali del mondo reale.

Maggie è clinicamente stupida, di quella forma di inverosimile stupidità che non posso soffrire.


Potpourri divino

Vale a dire una ciotola che raccoglie di tutto un po’. Al solito, di tutto l’assortimento di fiori secchi si salvano solo pochi petali: Odino, Loki e i corvi Huginn e Muninn (una piacevolissima entrata in scena, la loro; da soli, intrattengono il pubblico meglio di quanto faccia il cast principale con la sua trentina di personaggi). I personaggi de Le parole di luce sono ancora una volta monodimensionali, mere incarnazioni delle principali forze di natura. Perfino ai nemici degli Æsir manca la verve: non è un buon cattivo colui che non dà l’aria di poter gettare più di un sassolino a intralciare l’ascesa del protagonista.


Quell’OOC che mi è sempre rimasto in gola

C’è poi un piccolo quanto fastidioso problema che avevo già ravvisato ai tempi della recensione de Il canto del ribelle e che voglio dare in pasto al responso del web una volta per tutte: nei romanzi della Harris, la relazione tra Loki e Sigyn è terribilmente OOC (dall’inglese Out Of Character, carattere non fedele a quello canon). Sarà che in queste settimane sto procedendo a una rispolverata dei vecchi episodi di Vikings, sarà che c’è una certa scena che mi si è marchiata a fuoco nelle retine, sarà che ho letto il libro con questa nuova consapevolezza… insomma, un’immagine vale più di mille parole e quella determinata scena a me è rimasta impressa come “rappresentazione ultima della fedeltà coniugale”. Ma procediamo per gradi a raccontare ciò che accade nel mito norreno.

Loki uccide Baldr. Viene condannato a scontare una pena esemplare: legato a una roccia dalle budella dei suoi figli uccisi per mano degli altri dèi, scandirà l’eternità contando le gocce di veleno che stillano dalle zanne di un serpente appeso sopra la sua testa. La moglie Sigyn arriverà in suo soccorso, le braccia tese verso l’alto a raccogliere il veleno in una ciotola. Goccia dopo goccia, la ciotola finirà tuttavia per riempirsi fino all’orlo: arriverà il momento in cui Sigyn sarà costretta ad allontanarsi per andarla a svuotare. In quei secondi infiniti, gocce di veleno saranno libere di conciare il viso di Loki come una fetta di Leerdammer. Questo, secondo i vichinghi, scatenava i terremoti (e scusateli, ai loro tempi non c’erano facoltà di Geologia a cui iscriversi).

Che conclusioni traiamo da questa punizione? Che gli dèi hanno voluto colpire Loki nel suo metaforico tallone: uccidendo i suoi figli e offrendo sua moglie (madre dei figli uccisi, tra l’altro) a un’eternità di afflizione. Ricaviamo che questo aneddoto del mito è stato concepito dal suo creatore come, appunto, “rappresentazione ultima della fedeltà coniugale”: Sigyn non abbandona il marito nemmeno quando avrebbe tutte le ragioni per farlo. Ricordo, infatti, che le leggi della società vichinga prevedevano il diritto al divorzio per entrambi i coniugi, e che il mito rispecchia la mentalità della gente di allora.

Il Loki de Le parole di luce se ne sbatte dei figli. In quanto alla moglie, vive la sua presenza con la stessa tolleranza che un misofobo riserva a un tizio che gli starnuta addosso. Che pena esemplare è se dei figli non ti importa un fico secco? Se voglio farti del male vado a colpire, giustamente, nelle aree dove so di farti un male boia. Non ti privo di qualcosa di cui so che non sentirai la mancanza. Capish, Joanne? Sono il dolore e il rancore, in ultima istanza, a trasformare il trickster caotico neutrale in una serpe vendicativa che aprirà le porte di Asgard alla progenie di Surtr, dettandone il destino di rovina.

OOC a parte, la sua interpretazione del personaggio è una di quelle che apprezzo di più. Il premio per la chiave di lettura più fedele a quella del mito, però, lo consegno senz’altro a Hilda Lewis. Nel suo racconto per bambini The Ship that Flew, infatti, riesce là dove Joanne Harris fallisce in quattro libri: inquadrare la figura di Loki con un solo scambio di battute. In quanto alla trilogia di Magnus Chase di Rick Riordan, sto ancora aspettando che la ferita lasciata aperta si rimargini…

E con questo mi son tolta il proverbiale – e pedante, ne sono conscia – sassolino dalla scarpa.


Non brutto, ma neanche bello

È probabile che i paragrafi precedenti suscitino l’idea che Le parole di luce non mi sia piaciuto. Mi è piaciuto, ma meno di quanto avrei voluto che mi piacesse. Ci sono scelte di intreccio e stilistiche che continuo a non condividere. Ci sono personaggi che son macchiette di latte su un foglio bianco e altri personaggi ancora che risaltano scarlatti come un bindi indiano sulla fronte. Fra le tante cose ho apprezzato, oltre ai già sopracitati Huginn e Muninn, il finale che ammicca al ciclo perpetuo di vita e morte, di inizio e di fine, espansione e riduzione, ma è poca cosa in relazione a un tomo da 600 pagine.

Il canto del ribelle si conquista la medaglia d’oro aggiudicandosi il premio per il libro più strutturato dei quattro. D’altronde, l’impalcatura era già quella pronta e prefabbricata del mito norreno: la Harris si è limitata al ruolo di tappabuchi ricoprendo lo scheletro con frattazzo e cazzuola.


Per concludere

Le parole di luce è criptico ma intrattiene quanto basta per invogliare a raggiungerne la fine. È una storia sul perseguire ciò che è giusto, che spesso non coincide con ciò che è facile, un racconto sul senso di appartenenza alla propria famiglia. La lezione più importante che se ne trae? Diffidate degli incantatori dalle bocche di rosa: hanno la mente di una serpe.

Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.

La lepisma libraia

Le parole di luce

6

Sviluppo

6.0/10

Stile

5.0/10

Personaggi

7.0/10

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