Non è la prima volta che King mostra interesse per le ipotetiche quanto catastrofiche potenzialità della telecinesi. Vedasi Carrie, romanzo agli esordi della sua onorata carriera. Adesso, con L’Istituto, King si è liberato dell’aridità creativa che ha contraddistinto le sue recenti pubblicazioni consegnando ai lettori una storia soprannaturale che in dirittura d’arrivo stuzzica l’ago della nostra bussola morale.
Di cosa parla?
Titolo: L’istituto
Autore: Stephen King
Genere: thriller/fantascienza
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine: 576
È notte fonda a Minneapolis, quando un misterioso gruppo di persone si introduce in casa di Luke Ellis, uccide i suoi genitori e lo porta via in un SUV nero. Bastano due minuti, sprofondati nel silenzio irreale di una tranquilla strada di periferia, per sconvolgere la vita di Luke, per sempre. Quando si sveglia, il ragazzo si trova in una camera del tutto simile alla sua, ma senza finestre, nel famigerato Istituto dove sono rinchiusi altri bambini come lui. Dietro porte tutte uguali, lungo corridoi illuminati da luci spettrali, si trovano piccoli geni con poteri speciali – telepatia, telecinesi.
Appena arrivati, sono destinati alla Prima Casa, dove Luke trova infatti i compagni Kalisha, Nick, George, Iris e Avery Dixon, che ha solo dieci anni. Poi, qualcuno finisce nella Seconda Casa. «È come il motel di un film dell’orrore», dice Kalisha. «Chi prende una stanza non ne esce più.» Sono le regole della feroce signora Sigsby, direttrice dell’Istituto, convinta di poter estrarre i loro doni: con qualunque mezzo, a qualunque costo. Chi non si adegua subisce punizioni implacabili. E così, uno alla volta, i compagni di Luke spariscono, mentre lui cerca disperatamente una via d’uscita. Solo che nessuno, finora, è mai riuscito a evadere dall’Istituto
L’istituto: la recensione
Il plot de L’Istituto ruota attorno alla giovane figura di Luke Ellis, che appena dodicenne è in grado di risolvere equazioni matematiche da A-levels e che si vede già conteso come futura matricola tra due università della Ivy League. Fin qui, nulla di strano. Solo in questi giorni c’è l’ingegnoso Laurent Simons che a soli nove anni fa notizia per essere prossimo al primato di laureato più giovane della storia.
No, la genialità di Luke Ellis non è che un attributo come un altro, una qualità aggiunta al dono vero e proprio che gli è stato concesso alla nascita. Perché se anche la materia grigia abbonda, non è il suo elevatissimo QI a cui mira la misteriosa organizzazione criminale a capo dell’Istituto che presta il titolo al romanzo. Luke, infatti, per quanto il diretto interessato possa sottovalutare le sue facoltà mentali, è un promettente e appetibile telecineta.
Ti mando all’Istituto di King is the new Ti mando in collegio?
Ricordate quando, all’ennesimo compito a casa eseguito di malavoglia, vi piovevano addosso, nell’ordine, minacce di interdizione alla visione di cartoni animati, sequestro delle cartucce del Game Boy, spedizioni in collegio con tanto di tono di voce che s’alzava di un’ottava? Nel mio caso, le prime due intimidazioni si concretizzavano anche abbastanza spesso. L’impossibilità di piallare la Lega con Pikachu a livello 100 si rivelava, almeno in via temporanea, una cura efficace alla mia pigrizia scolastica.
Ma la prospettiva del collegio? Alla generazione di Hogwarts, idee del genere fanno un baffo e possono solo scatenare la fantasia con lunghe sessioni di sogni a occhi aperti. Mai una volta che abbia battuto ciglio, insomma, sapendo che la minaccia sarebbe caduta puntualmente nel vuoto. Se fra di voi si nascondono tutt’ora genitori che questo Ti mando in collegio! lo hanno sulla rampa di lancio a beneficio dei figli lavativi a scuola, invito i suddetti a trovare alternative meno anacronistiche e davvero deterrenti, del tipo… Ti mando all’Istituto di King! Solo così crescerete futuri laureati a Harvard. E adesso vi spiego perché.
Non tutto è oro ciò che luccica
La mensa dell’Istituto sforna sfiziosi manicaretti a colazione, pranzo e cena. Le stanze dei giovani, talentuosi ospiti sono progettate per replicare il comfort e l’atmosfera delle loro camerette di casa fin dal mobilio e dagli oggetti, identici, con cui vengono arredate. Non ci sono lezioni da seguire, libri su cui studiare: i residenti possono scegliere se bighellonare nei corridoi, magari conversando con l’anziana inserviente, o giocare all’aperto sull’erba e godersi la luce del sole. Poi, se si comportano bene in quel poco, pochissimo, che viene loro richiesto di fare, possono guadagnare dei gettoni con cui navigare in internet o comprarsi degli snack ipercalorici o delle sigarette (sì, sigarette!) alle apposite macchinette.
(E questo è King, non Collodi: nessun bambino dell’Istituto si risveglia al mattino con sulla testa un paio d’orecchie da ciuco.)
Niente male, non vi pare? Ai genitori dei cari ospiti il soggiorno all’Istituto non costa una lira. Pensate: meno di un centesimo di euro! L’immatricolazione, d’altronde, è un processo assolutamente automatico che scavalca – strazia, maciulla – qualsiasi patria podestà: il bambino viene prelevato nottetempo da SUV dai vetri oscurati contro la volontà di tutta la famiglia (in gergo, “rapito”), condotto all’Istituto nell’incoscienza indotta dai farmaci, schedato, esaminato. Sottoposto, come una cavia da laboratorio prima che fosse introdotto il divieto alla vivisezione, a orribili esperimenti e prove di resistenza per risvegliarne il potenziale psichico e spremerlo dalle sue meningi.
L’Istituto non è una scuola. L’Istituto è un incubo e Luke si risveglia al suo interno.
In mezzo a telepati e telecineti
Messo al corrente del traffico di bambini fra le mura dell’Istituto, Luke deve elaborare un piano di fuga. Non avrà che qualche settimana per abbozzare la scaletta: tanto dura la permanenza in quella che viene definita Prima Casa dell’Istituto. Oltre quel traguardo ci sono solo la Seconda Casa e il silenzio tetro dei bambini che ne varcano la soglia senza più tornare indietro. Ma come scappare, come eludere la stretta sorveglianza? La sua telecinesi basta appena a smuovere dei cartoni di pizza!
Perfino i deserti più impervi nascondono delle oasi di gioia. Disorientato e atterrito com’è, Luke si sente quasi a casa grazie alle sue nuove amicizie. Fra le tanti vittime della stessa sorte, Kalisha, Nicky, Avery e George. Grazie ai poteri paranormali che condivide con questi ragazzi, Luke stringerà con loro uno stretto rapporto come mai ne ha coltivati durante la vita in libertà (si dibatte spesso sulla relazione inversamente proporzionale fra intelligenza logica e intelligenza emotiva, per cui al progredire della prima cala la seconda e viceversa… e Luke, come King dà occasione di mostrare, è tutt’altro che lento di sinapsi).
Le relazioni più profonde e significative nascono dalla comunanza nelle avversità, e la lotta impari cede parte del vantaggio alla speranza quando i deboli fanno fronte compatto contro un nemico comune…
L’amichevole degenera in finale da campionato mondiale
Con più di una riverenza alla serie Netlix Stranger Things, L’Istituto pretende di essere letto d’un fiato e promette una lettura coinvolgente, adrenalinica e angosciosa al tempo stesso. È facile, troppo facile voler bene a Luke, schierarsi dalla sua parte, dalla parte della giustizia. Stringere i denti quando si trova a sbattere su una porta chiusa, gongolare di piacere e sfregarsi le mani quando, al contrario, le porte in faccia le sbatte lui. È facile, e anche assai assurdo, avvertire l’orgoglio e la compassione che salgono a ondate dallo stomaco per il coraggio e lo spirito di ribellione con cui questi ragazzini affrontano difficoltà che ridurrebbero a gelatina le gambe di un adulto.
L’incipit del romanzo, diciamo le prime 50 pagine, è insolitamente pacifico e infonde un senso di calma che sotto la penna di King preannuncia fulmini da tempesta tropicale. Conosciamo Tim Jamieson, appena giunto, in cerca di una nuova esistenza, nella sonnacchiosa cittadina di DuPray (come Cabot Cove dimora di Jessica Fletcher, non la troverete sull’atlante). Lo abbandoniamo dopo alcuni capitoli in favore del punto di vista di Luke, che diventa predominante per tutto il resto del romanzo. Tim Jamieson è dunque un personaggio che si trova a lottare per una nicchia di trama, ma non sottovalutate il suo apporto. Nella botte piccola…
Da questo punto in poi della narrazione è come viaggiare in sesta costante e inchiodare – o trattenere il fiato – davanti agli ostacoli imprevisti. Come in qualsiasi partecipazione emotiva che si rispetti, si degenera facilmente in incitamenti da cori da stadio. Dai, Luke, dai che ce la fai. Complice uno stile in splendida forma, L’Istituto ti cattura (in senso metaforico) e ti costringe a non mollarlo più fino alla parola fine.
Fatta la spremuta, via l’arancia nel bidone dell’umido
Dietro alla facciata dell’Istituto c’è una popolazione di camici: dottori, medici specialisti, infermieri, tecnici di laboratorio, comuni impiegati, inservienti. Qual è la ragione dietro a un simile dispiego di forze? Perché tutto questo arruolamento di personale, questa cura maniacale per il dettaglio?
Che fine ultimo perseguono i test condotti nella Prima Casa, oltre a quello primo di potenziare i poteri paranormali dei ragazzi? Soprattutto, cosa succede fra le pareti inespugnabili della Seconda Casa? Che cos’è quel ronzio che si sente a tratti fuoriuscire da essa, cosa significa vedere i puntini?
Oh, quanto vorrei dirvelo, perché niente rende più felice il lit-blogger della condivisione dell’entusiasmo per un libro. Ma il lit-blogger avveduto sa che niente rende più inferocito il lettore di uno spoiler a tradimento, perciò non avrete altro bocconcino da me a parte la figura appena abbozzata di un alquanto ordinario Mr. Smith, come a milioni saranno registrati all’anagrafe statunitense, che sulle battute conclusive del romanzo solletica la nostra integrità con un quesito da far vacillare le ginocchia.
Quel nodo in fondo allo stomaco
L’Istituto è un romanzo realistico ed è il suo realismo a mettere paura. Non servono clown con chiostre di denti aguzzi per sentir camminare le formiche lungo la schiena: basta la realtà, il lato peggiore della razza umana cosiddetta intelligente. La buona letteratura è anche quella che pone al lettore domande scomode: è proprio il finale del romanzo, dolceamaro, a toglierci il tappeto da sotto i piedi rivoltando le nostre convinzioni come un calzino.
Ci impone di mettere in dubbio la nostra presunzione di essere sempre e inequivocabilmente seduti dalla parte dei giusti, dei retti, di quelli che hanno ragione perché “buoni”. Ci prende il viso tra le mani e ci costringe a guardare la nostra nemesi negli occhi, a chiederci se anche lei non abbia ragione da vendere. Siamo noi ad avere la verità in tasca o il punto di vista dell’altro può essere altrettanto valido? A spaventare non sono tanto gli esperimenti e le punizioni corporali cui vengono sottoposti questi giovani imberbi, quanto il ragionamento che sta dietro al sistema dell’Istituto. È già stato fatto, è già stato messo in pratica.
Fat Man fu sganciato sui cieli di Nagasaki per prevenire un conflitto che avrebbe messo in ginocchio un intero Paese. Ne abbatti dieci per preservarne mille. Da decenni, se non secoli, l’uomo sacrifica il diritto del singolo per il bene supremo di tutti. Così l’essere umano gioca a dadi come un dio: per vincere la partita, è costretto a selezionare dei pedoni da immolare. Che a rimetterci siano bambini poco importa, perché prima sarà un crimine e farà scalpore, seminerà indignazione, ma si ridurrà a sussurro e verrà infine declassato, depenalizzato e riconosciuto come un atto lecito e giustificato, un atto dovuto nel grande schema delle cose.
Alla fine i dubbi vengono anche ai più integerrimi fra di noi, e questo… questo sì che mette paura.
Per concludere
Dopo qualche uscita poco ispirata, King si risolleva con un romanzo che mostra ancora una volta come l’uomo sia il peggior nemico di se stesso.
La lepisma libraia