Nei circoli letterari d’oltremanica e d’oltreoceano, La caduta dei re – Il coro dei draghi, romanzo high fantasy primo di una trilogia fluita dalla penna della debuttante Jenn Lyons, ha fatto molto commentare di sé. In Italia lo ha importato Fanucci con una traduzione la cui pubblicazione è prevista per la fine di febbraio, ma i suoi continui avvistamenti in cima alla mia bacheca di Goodreads hanno sfidato la mia tolleranza dell’attesa a tal punto da indurmi a buttare all’aria ogni residuo di pazienza e impadronirmi del libro in lingua originale.
L’hype cucito attorno a questo romanzo lo paragona per qualità alle opere di Brandon Sanderson (un autore che conosco solo di fama) e si sbilancia nel definirlo il degno erede – quando la loro stesura sarà ultimata, beninteso, cioè di questo andazzo mai – delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George Martin. Gli si loda lo stile, l’accurata complessità del sistema socio-economico di un mondo che non potrebbe essere più lontano dal nostro. Negli anni ho imparato a diffidare del marketing da fascettismo che azzarda accostamenti coi prosatori più qualificati (ero lì lì per definirli prolifici: un aggettivo forze calzante per Sanderson, ma certo non per Martin che The Winds of Winter non fa che posticiparlo), eppure mi ritrovo sempre a capitolare e farmi adescare da queste pratiche commerciali…
Ordunque, la recensione. Preparate il caffè: sarà lunga.
Titolo: La caduta dei re. Il coro dei draghi (1° di 3)
Autrice: Jenn Lyons
Genere: high fantasy/adult fantasy
Editore: Fanucci
Pagine: 608
Kihrin, l’apprendista di un bardo, è cresciuto ascoltando storie di gesta leggendarie. Costretto a rubare alla disperata ricerca di una via d’uscita dalla povertà dei bassifondi di Quur, una sera fa irruzione nella casa sbagliata: marchiato da un demone, da lì in avanti la sua vita non sarà più la stessa. La difficile situazione di Kihrin lo porta al cospetto dei reali, che lo rivendicano come il figlio perduto del loro principe immorale.
Ma lungi dal vivere il sogno, Kihrin è in balìa delle spietate ambizioni della sua nuova famiglia. Tuttavia, tentare la fuga dalla sua gabbia dorata non fa che peggiorare le cose. Kihrin è inorridito nel sapere che egli è al centro di un’antica profezia. E ogni fazione – dèi, demoni, draghi e maghi – lo rivendicano come propria pedina. Quelle vecchie storie che aveva ascoltato sin da piccolo, in cui l’eroe vince sempre, erano piene di menzogne. O forse no… Forse Kihrin non è un eroe, e il suo destino non è di salvare l’impero. Forse il disegno che il fato ha per lui è quello di distruggerlo.
La caduta dei re: la recensione
La caduta dei re – Il coro dei draghi è un bel romanzo, nel senso che lo si legge senza attrito e non si avverte il peso sia metaforico che letterale delle sue pagine. Non è però un romanzo facile, né da leggere né da recensire. È da poco prima di Natale 2019, infatti, che tento di imporre una parvenza di leggibilità agli appunti che ho scarabocchiato durante la sua lettura e di fendere la nebbia che mi si è comunque insediata in testa. Mi rendo conto di esprimere giudizi in apparenza contrapposti: prima mi pronuncio sulla piacevolezza della lettura, poi lamento le difficoltà incontrate durante la stessa.
Piacevole e difficile, d’altronde, non sono antonimi. Fino a che punto, però, la meraviglia del fantastico prevale sulla confusione che deriva da un intreccio caotico e scoordinato? Trovo stimoli nelle sfide letterarie (Casa di foglie è in cima alla lista delle prossime letture), ma non mi piace sforzarmi invano. Se un libro richiede un esercizio mentale di una certa portata, mi aspetto una ricompensa finale che mi ripaghi della fatica fatta per giungere alla sua conclusione.
La caduta dei re – Il coro dei draghi è volutamente intricato e non premia chi, pagina dopo pagina, cerca pazientemente di districarlo. È come tentare di spiccicare un chewing-gum da una ciocca di capelli: il più delle volte si finisce per gettare le braccia al cielo e andare a recuperare le forbici.
La caduta dei re è un libro a cipolla
Come le tradizionali bambole russe, La caduta dei re – Il coro dei draghi è un romanzo a strati.
Il primo strato ricorre all’espediente letterario del manoscritto: un ancora estraneo Thursivar D’Lorus redige, al termine degli eventi narrati, una cronaca dettagliata degli stessi attingendo alle testimonianze di due personaggi coinvolti in prima linea nelle vicende. Allegherà il manoscritto a una lettera indirizzata al proprio imperatore, perché sia anche lui messo al corrente di quanto accaduto. Il manoscritto, dunque, non è che il romanzo stesso.
Spellato il primo strato, il secondo livello, quello appunto del manoscritto, è freddo e umido come le mura di una prigione: il sedicenne Kihrin, in catene, e Talon, demone mutaforma dalla parte aperta dell’inferriata, si lanciano occhiate in tralice. Talon, assassina provetta, gode nel collezionare le esperienze di vita delle proprie vittime e incalza Kihrin a condividere le sue, finché conserva il fiato per farlo. A tal proposito gli allunga una speciale pietra magica in grado di registrare la voce umana. Non senza riluttanza, Kihrin si arrende e acconsente a narrare, o tentare di farlo, ma lo fa a sua condizione, cioè a patto di cominciare dalla seconda metà di quel foglio protocollo scritto fitto che è la storia delle scelte culminate nella sua incarcerazione.
Continuiamo a sbucciare. Talon (il cui nome significa “artiglio”, termine che prospetta tante cose positive) è convinta, d’altro canto, che le pagine vadano lette, come insegnano anche a scuola, ambiente a Kihrin sconosciuto, a partire dal rigo numero uno. Se Kihrin preferisce glissare e partire da metà pagina, poco male, perché Talon non ignora proprio tutto tutto della sua storia. Anzi, ignora proprio poco. La sua carriera di assassina è già costellata di cadaveri di cui ha assorbito la memoria, cadaveri che da vivi Kihrin lo hanno conosciuto in prima persona: le basterà attingere a queste per ricostruire, o tentare di farlo, la vita di Kihrin relativa alla prima metà del foglio. E questo sarà il terzo strato della narrazione.
Kihrin e Talon si alterneranno nel raccontare, capitolo dopo capitolo, i due tronconi in cui è divisa la storia che li ha condotti fino a lì. Convergeranno, infine, in quella che è la cornice principale del romanzo: il manoscritto di Thursivar.
All’inizio vedevo in quest’alternanza un aspetto positivo, ma poi, con l’avanzare delle pagine, l’interesse si è guastato ed è subentrato il fastidio: la Lyons deve nutrire un amore profondo per i cliffhanger, così viscerale da non poter concepire un finale di capitolo che non ne faccia uso. Capite dove sta il problema? Si ha appena il tempo di sintonizzarsi con un dato punto cronologico dell’intreccio prima di schiantarsi contro il cliffhanger che segna la fine del capitolo e il passaggio a un altro punto cronologico della storia. Se volete leggere la trama nel giusto ordine, dovrete prima leggere tutti i capitoli pari e poi tutti i capitoli dispari (o il contrario).
I finali a effetto si traducono in un’efficace strategia per affiliarsi il lettore, ma allo stesso tempo introducono vane speranze. A che pro ribaltare l’ordine cronologico della storia come un calzino, se non si naviga in vista di un’epica epifania che farà convergere tutti questi affluenti in un flusso unico di parole che scorrerà indisturbato fino alla degna conclusione?
Sì, le due timeline si fonderanno a circa metà del volume. No, non ci sarà alcuna grande rivelazione a giustificare la loro previa divisione.
Il depistaggio del narratore inaffidabile
Thursivar, colui che si suppone essere il narratore onnisciente, non è un narratore affidabile. È troppo invischiato nelle vicende, per dirne una, e tramite note a piè di pagina sfoggia un umorismo fin troppo intelligente perché si possa credere che sia così sprovveduto da dire sempre e solo la candida verità. Ingoiamo queste note in calce come gustose caramelle piazzate strategicamente fra le pagine del libro, ma in realtà non apportano altro contributo alla trama se non quello di strappare un sorriso e frammentare una lettura che richiederebbe invece attenzione costante e ininterrotta. Della serie: potete saltarle a piè pari.
Kihrin non è un narratore affidabile. Ignora le sue vere origini, ignora di vivere in un mondo di gente reincarnata che ha conservato le memorie delle vite precedenti (be there in a minute). Cresciuto nei sobborghi di città e catapultato di malavoglia fra i frizzi e i lazzi della nobiltà che lo accoglie a braccia spalancate come un figlio a lungo perduto, risalta nel lusso come un occhio pesto sul viso di un albino.
Il concetto di reincarnazione, poi, è persistente in tutto il romanzo. Nessuno è chi dice di essere: chi dapprima si presenta come Caio può smettere la maschera e introdursi come nonno di Pinco e padre di Plinio. Plinio, a sua volta, si leverà il cappello di fronte a Sempronio, precedentemente conosciuto come Pinco. Nessuno è chi dice di essere e chi è morto non lo è davvero.
La densità dei personaggi reincarnati è direttamente proporzionale al numero delle pagine macinate, per cui più si va avanti e più la storia richiede di stare al passo con lei. Immaginate di essere dei giocolieri mentre lanciano palline per aria: ve la giostrate senza difficoltà con due palline, con quattro non mancate mai un colpo, con sei cominciate ad avvertire una certa tensione nella coordinazione occhio-mano e con dieci… con dieci restate a mani vuote mentre attorno a voi rimbalzano palline da tutte le parti. La caduta dei re ve ne mette in mano una e, tempo della fine, ve ne ritrovate fra le braccia una dozzina.
Urthaniel, la caduta dei re
Non manca la presenza degli elementi più caratteristici del genere, vale a dire i rettiloni sputafuoco e armi battezzate con nomi arcani. Un’arma, in particolare: La caduta dei re, Urthaniel, che presta il nome al titolo.
L’universo della Lyons abbonda poi di artefatti magici. Se anche posso dire di aver apprezzato la varietà degli stessi, però, ho trovato la loro descrizione ancora una volta vaga e imprecisa, con macchinose regole d’uso che sembrano confezionate apposta per fare scena e complicare ulteriormente la worldbuilding del romanzo.
Alle componenti del fantasy casto, puro ed eroico à la Tolkien si affiancano i temi classici e ben più prosaici del filone dark fantasy: magia arcana, assassinii, sesso (in questo campo, Kihrin, senza scadere nella volgarità esplicita, è un autentico coniglio Duracell), draghi egoisti e un repertorio di battutacce e allusioni piccanti.
Lo scettro al più bruto di tutti: la worldbuilding realistica di Quur
Quur è un impero. L’imperatore non si vede calare lo scettro del comando dall’alto, né eredita i privilegi da un diretto consanguineo. Lo scettro se lo deve guadagnare con la forza bruta o con l’astuzia. Praticamente sempre, col sangue.
Quando il posto da imperatore è vacante, infatti, i contendenti che desiderano candidarsi per la posizione devono presentarsi in arena e qui sbaragliare tutti gli altri pretendenti al posto. L’ultimo a rimanere in piedi su un cumulo di cadaveri e organi spappolati si vedrà porre lo scettro del potere fra le mani.
Capito? Non il più istruito, non il più avveduto, ma quello che ti apre il cranio con un colpo secco dell’ascia. Non dobbiamo stupirci, quindi, se il regno di Quur è un castello di carte pronto a crollare su se stesso. Mentre i demoni dell’oltretomba spingono sulle porte della capitale con l’intenzione di farne un parcheggio, prolifera in tutto il continente una fiorente tratta degli schiavi. I poveri si arrabattano come meglio possono, le famiglie della nobiltà complottano e pianificano per rimpinguarsi le tasche già rigurgitanti di denari e allo stesso tempo rafforzare la propria influenza e dominio sull’economia dell’impero.
La schiavitù è così endemica che Kirhin stesso si ritrova messo all’asta, con le caviglie e i piedi tormentati dalle piaghe. E mentre attende che il banditore lo venda al miglior offerente, possiamo tracciare similitudini tra la schiavitù propriamente detta, di chi è costretto ai lavori forzati pena una raffica di frustate, e la prigionia vellutata di un novello principe ritrovato nel cassonetto dell’immondizia: Kihrin anela alla libertà, poco importano i doveri di protocollo imposti dal suo ritrovato status aristocratico.
Lo stile della Lyons, descrittivo ma non troppo e con punte di qualità sorprendenti per essere opera di un’autrice debuttante, dipinge un impero tutt’altro che fatato. Ma d’altronde cosa vi aspettate da un governatore che viene eletto perché unico superstite di un bagno di sangue?
Kihrin, aka Gary Stu, aka la caduta dei cliché
Poco male, la trama impacciata sarà compensata da un cast di personaggi a tutto tondo. Kihrin è un Gary Stu fatto e finito. Spuntiamo le peculiarità che identificano questo tipo di personaggio stereotipato…
Vive di stenti e scopre all’improvviso di essere importante, molto importante. Check.
È assurdamente bello. Check.
L’autrice non fa che enfatizzare il suo essere assurdamente bello. Check.
Va a letto con qualsiasi essere vivente anatomicamente compatibile. Check.
Tutti (o quasi) lo considerano bello come un Adone e gli fanno la corte. Check.
Esce indenne da situazioni di pericolo altamente mortali. Check.
Da schermidore inesperto a spadaccino provetto nell’arco di una notte. Check.
È oggetto di una profezia per salvare il mondo. Check.
Si lamenta costantemente di essere una nullità incapace, ma eccelle in qualsiasi attività si applichi per almeno un secondo. Check.
Manca, in ultima analisi, quel senso di minaccia e quella incertezza che ti portano a macinare una pagina dopo l’altra per sapere come finisce la storia. Kihrin ha letteralmente la dea bendata dalla sua parte. Kihrin è immune a qualsiasi pericolo e a qualsivoglia fatica, quindi perché continuare con la lettura se sappiamo già come andrà a finire?
Buona la worldbuilding, dunque, ma La caduta dei re avrebbe beneficiato di una caratterizzazione del protagonista meno stereotipata. Sono presenti dei personaggi secondari che fanno giusto una comparsata e sono comunque meglio caratterizzati di lui.
Per concludere
La caduta dei re è un libro viscoso, denso a tal punto da rimanere intrappolati nel suo complesso albero genealogico di nomi e reincarnazioni. Potrebbe piacervi se apprezzate gli intrecci originali e arzigogolati. Potrebbe risultarvi indigesto se invece, come me, siete più tradizionalisti e preferite optare per l’ordine convenzionale di inizio, svolgimento e fine.
Cercate un fantasy cappa e spada, davvero originale e ben strutturato? Date un’occhiata a I guerrieri di Wyld.
La lepisma libraia