[Recensione] “L’orologio di stelle. La falena d’argento” di Francesca Gibbons

copertina l'orologio di stelle

Incombenze varie (tra cui l’apertura di un altro sito web, Lingookies, un progetto impegnativo di cui forse parlerò in un prossimo articolo) mi hanno allontanata da questo blog per fin troppo tempo. Ora sono qui, ramazza in una mano e L’orologio di stelle nell’altra, per spazzare via la coltre di polvere che si è depositata su questo spazio.

Gli acari protesteranno per lo sfratto improvviso che gli ho riservato, ma spero che voi lettori apprezzerete questo insperato aggiornamento. Se avete figli in età scolare, soprattutto, confido che insieme all’uovo di Pasqua regalerete loro una copia del libro che andrò a recensire oggi, perché l’ameranno come hanno amato Spiderwick, Narnia e Harry Potter.

Di che cosa parla L’orologio di stelle, in vendita dal 25 marzo? Scopriamolo insieme.

Titolo: L’orologio di stelle
Autrice: Francesca Gibbons
Genere: fantastico
Editore: HarperCollins
Pagine: 350

Imogen potrebbe essere più carina con la sua sorellina Marie. E dovrebbe essere più gentile con il fidanzato della mamma. Soprattutto, non dovrebbe seguire una strana falena argentea dentro un albero… D’altronde, chi fa solo quello che gli viene detto? Di colpo, Imogen e Marie si ritrovano intrappolate in un mondo magico, un regno in cui nessuno si comporta come ci si aspetta e dove al calare della sera appaiono creature sinistre… Le due sorelle desiderano solo una cosa: tornare a casa. Ma per riuscirci, dovranno salvare il viziato Principe Miro e con lui un intero mondo in pericolo. Ad aiutarle, per fortuna, ci saranno un orso ballerino, una coraggiosa cacciatrice… e persino le stelle.


L’orologio di stelle: la recensione

Chi non ha mai litigato col proprio fratello o sorella alzi la mano. Ora abbassino la mano coloro che sono figli unici. I bugiardi che tengono ancora le mani in aria vengano cortesemente avanti per farsele bacchettare.

Imogen e Marie sono sorelle e, come vuole il copione, manifestano il reciproco affetto con zuffe, capricci e battibecchi. All’inizio del romanzo l’undicenne Imogen, prepotente regista di facciamo finta che, veste l’armatura lucente del cavaliere che infilza Marie, relegata alla parte di bavosa lumaca di mare. Guai a suggerire di invertire i ruoli: qualsiasi rimostranza termina in rissa e in una strigliata d’orecchi da parte della mamma.

Così, quando si imbatte, non proprio per caso, in un tronco d’albero che nasconde una porticina al suo interno, Imogen abbassa trepidante la maniglia e tenta qualche passo alla cieca verso quella che crede sarà un’avventura solitaria a cui solo lei, e non la petulante sorellina, è degna di partecipare.

Ma Marie, che l’ha finora tallonata dappresso come un ladro, molto innocentemente si chiude la porticina, e con lei tutto il nostro mondo, alle spalle. La porta, infatti, permette un solo senso d’apertura…


L’altro mondo dall’altro lato della porta

Imogen e Marie poggiano piede sul soffice tappeto di una foresta. In lontananza, tra gli sprazzi di orizzonte lasciati liberi dai tronchi degli alberi, si intravede un grappolo di luci, mentre degli infernali ululati sconquassano la quiete crepuscolare del sottobosco. Non c’è tempo per le bambine di rimpallarsi accuse: i ringhi crescono d’intensità allo stesso ritmo dei loro respiri. In questa foresta dall’altro lato della porta c’è una presenza inquietante che sta per emergere dalle tenebre. L’istinto di sopravvivenza vuole le ragazze in marcia per raggiungere quelle case oltre il bosco, e le vuole in marcia subito.

Sarà l’intervento provvidenziale di Miro, principe orfanello, ad aprir loro la porta di Castel Miroslav e a salvare di fatto la loro vita dagli artigli affilati degli skret.


Yaroslav, città regno dalla doppia faccia

Borgo pacifico di giorno, preda di mostri terribili la notte.

Gli skret danno l’assalto alla cittadella a ogni calare del sole. Uccidono chiunque abbia la malaugurata sorte di trovarsi sul loro cammino, senza discriminanti di età. Nessun abitante di Yaroslav ha mai capito a cosa mirino: non rubano niente, men che meno danneggiano. Leggende del passato narrano di una relazione pacifica tra esseri umani e skret: perché, allora, scavalcano ogni singola notte il muro di cinta della città e si riversano nelle strade di Yaroslav come una mandria impazzita?

Perché re Drakomor, zio di Miro, non bandisce una spedizione sulle montagne per estirpare questi esseri una volta per tutte? Perché le foglie della foresta stanno ingiallendo? Cosa cercano gli skret così affannosamente?


Stessi ingredienti, ma cambia la ricetta

All’appello son dunque presenti tutti i capisaldi del genere fantasy per ragazzi: un passaggio nascosto verso un mondo magico sull’orlo del disastro, esseri malvagi e corrotti che vorrebbero dargli l’ultima spintarella verso il baratro, bambini che compiono atti di eroismo nel tentare di salvarlo.

Grazie ad abili espedienti da parte dell’autrice, però, non si ha affatto l’impressione di aver mangiato della minestra riscaldata. Per una volta tanto, i veri cattivi indossano maschere sorridenti. Per una volta tanto, le linee temporali tra i mondi procedono in parallelo. Questi e altri risvolti discostano il romanzo dai canoni fantasy masticati e rimasticati.

Sebbene per il lettore più smaliziato alcune tendenze della trama possano risultare prevedibili, ne restano altre che invece rivoltano gli archetipi di genere come un calzino.


Morale esplicita, personaggi identificabili

L’orologio di stelle non nasconde i suoi propositi formativi: punta un dito ammonitore contro la cecità indotta dall’ingordigia e rileva una sottile critica nei riguardi di chi si lascia guidare dal pregiudizio e dai facili preconcetti come pretesto per tenere comportamenti scortesi. Insegna a non polarizzare la realtà in bianco e nero.

La Gibbons non si è risparmiata nello sviluppo caratteriale dei suoi personaggi, perché tutti i componenti di questo romanzo sono squisitamente umani e incompleti. A uno manca l’onestà, all’altro il coraggio di assumersi le proprie responsabilità. Al principe Miro manca l’esperienza dell’amicizia e forse un po’ di umiltà, a Imogen e Marie un’avventura in comune che le avvicini e spiani finalmente i loro attriti. L’autrice non si è accontentata nemmeno di lavorare al carattere di un solo personaggio: introduce il lettore a una rosa di anime viziate e nel corso di 350 pagine si impegna a svilupparle tutte.


Capitoli brevi, brevissimi

L’orologio di stelle vuole accostarsi ai lettori in età da scuola media. Il target di lettura gradirà i capitoli brevi e intensi (il totale ammonta a più di 100!) in un romanzo che con le sue 350 pagine è nettamente più lungo della lunghezza media dei libri riservati a questo pubblico. Contribuisce lo stile affilato e niente affatto prolisso a contenere il numero di parole di ogni capitolo. La penna della Gibbons, infatti, mantiene l’attenzione senza sforzo, non spreca inchiostro e sa esattamente quali vocaboli richiamare: perla rara, nella letteratura per ragazzi.

A me che son fuori target, però, questa brevità ha messo sete. Più che a capitoli veri e propri, li si può paragonare a pasticcini grandi quanto noccioline: li inghiotti in un boccone e a malapena cogli una punta di dolce. La trama insomma non progredisce, ma balza.


Worldbuilding appena sufficiente

De L’orologio di stelle lascia a desiderare un po’ anche la worldbuilding, difetto forse imputabile all’attention span di un criceto che caratterizza la fascia d’età a cui il libro si rivolge, per cui le descrizioni si limitano a poche e rozze pennellate di sfondo da affinare con la fantasia. È più di quanto comunque abbia delineato Kiran Millwood Hargrave nel suo libro La ragazza di stelle e inchiostro.

Ci sarà ancora spazio in abbondanza per rimpolpare la worldbuilding negli altri due libri che sono in programma, tuttavia, perché L’orologio di stelle è solo il primo volume di una trilogia. Le illustrazioni a cura di Chris Riddell che impreziosiscono le pagine sono f-a-v-o-l-o-s-e e rattoppano almeno un po’ i vuoti lasciati dalle parole.


Per concludere

Si chiude l’ultima pagina con un senso di compiutezza, ma ci sono troppe domande che attendono risposta. Ad esempio… cos’è quel bell’orologio tutto intagliato che a Castel Miroslav rintocca le ore a orari apparentemente casuali?

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Mezza stellina.

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[Recensione] “La luce degli abissi” di Frances Hardinge

Sempre mi riprometto di pubblicare le recensioni con un certo anticipo sulla data di pubblicazione del libro esaminato, e sempre faccio fiasco. La luce degli abissi di Frances Hardinge è uscito questa settimana in tutte le librerie, alla faccia di un certo anticipo.

Della Hardinge, l’anno scorso ho letto La voce delle ombre. Allora l’autrice mi aveva turbata con il romanzo surreale di una ragazza che si ritrova a condividere mente e corpo con l’anima di un orso. La luce degli abissi si presenta con una copertina fantasticamente sovraffollata, come già la era quella de La voce delle ombre, e ci trasporta nelle acque inquiete dell’arcipelago della Miriade, dimora di mitiche divinità.

Titolo: La luce degli abissi
Autore: Frances Hardinge
Genere: fantasy
Editore: Mondadori
Pagine: 456

Da sempre Hark e Jelt sanno che, appena sotto il mare, esiste l’Abissomare, l’antica dimora dei mostruosi dèi che a lungo terrorizzarono l’arcipelago della Miriade. Riti sacerdotali e sacrifici servirono per anni a placare l’ira delle divinità marine, fino al giorno del Cataclisma, quando in un’esplosione di follia si distrussero a vicenda. Le loro reliquie, che conservano un potere divino, sono molto ambite dai piccoli truffatori come Hark e Jelt, in fuga dalle leggi del governatore e dai contrabbandieri. Due amici inseparabili, almeno finché i fondali non restituiscono una reliquia diversa da tutte le altre: un globo pulsante, intriso di un potere straordinario e oscuro, che potrebbe distruggere non soltanto l’amicizia di Hark e Jelt, ma tutto il loro mondo.


La luce degli abissi: la recensione

Nell’arcipelago della Miriade, i baciati dal mare sono rispettati da tutti. Un barotrauma invalidante dopo un tuffo in acqua non è motivo di emarginazione ma di rispetto, perché la sordità che colpisce i marinai simboleggia coraggio e spirito di sopravvivenza nelle circostanze più avverse. Chi si immerge nelle acque dell’Abissomare rischia di non affiorarvi più: meglio allora tornare a galla in un mondo muto che sprofondare per sempre in un baratro di oscurità.

Nonostante i pericoli in agguato nelle sue acque, sono tanti gli isolani che scalpitano per immergersi nell’Abissomare e trafugarlo dei tesori che conserva. C’è chi svolge il mestiere con il permesso e la benedizione del governatore, perché una pesca abbondante si traduce in un florido commercio con il continente, e c’è chi, invece, come Hark e Jelt, va a caccia di tesori tuffandosi nascosto da un’insenatura dello strapiombo.

Le reliquie degli dèi sono lì, a portata di un sottomarino e di un equipaggio sufficientemente temerario per manovrarlo. I resti degli dèi che furono non aspettano altro che qualcuno li recuperi dal secondo fondale dell’oceano.


Scampoli di divinità sul fondo del mare

Gli dèi non sono sempre stati brandelli di arti, pinne e tentacoli sparpagliati per l’oceano. Fino a pochi decenni fa erano reali, erano mostruosi, erano cavità insaziabili che trascinavano intere navi giù negli abissi delle loro gole. Ognuno dominava sul proprio territorio senza mai sconfinare nella fetta d’oceano dell’altro.

Poi è sopraggiunta la catastrofe: gli dèi si sono riconosciuti rivali, si sono avventati l’uno contro l’altro, hanno agitato le onde e strappato carne coi denti in una lotta titanica dove nessuno è uscito vincitore. Ora, tutto ciò che rimane di loro viene ripescato dal fondo dell’Abissomare per essere usato come moneta nell’economia di sussistenza dell’arcipelago.

I giovani conoscono gli dèi solo in forma di storia del focolare, ma i vecchi ricordano. Il terrore che questi mostri incutevano sulla popolazione isolana sbiadiva in confronto alla loro maestosità. Quale maggior onore di essere scelti come tributi umani? Fra questi frammenti di gusci e denti scheggiati, i vecchi ritornano con la mente a un passato glorioso, velato di lacrime e nostalgia. Hark, invece, tirato su a miti e sventole, intravede un impulso sopito che attende con pazienza il proprio risveglio.


Meglio soli che mal accompagnati

Hark è un oratore provetto. Cresciuto prima del tempo per la sua condizione di orfano, a quattordici anni ha già maturato una lingua sciolta da vendere sabbia ai tuareg. Se anche però la favella lo ha salvato da più di una situazione spinosa, non sempre riesce a trarlo d’impaccio, specialmente quando a tendergli l’agguato è Jelt, il suo sedicente migliore amico.

Hark deve la vita a Jelt. Jelt, anche lui orfano, lo ha accolto come un fratello minore e lo ha educato alla vita di strada. Ora Hark deve pagare pegno. Adesso è Jelt che ha bisogno di Hark per un lavoretto facile facile, dove il rischio di morire sfracellati sugli scogli o annegati in mare è tanto vicino quanto un piede che perde la presa o una falla nella paratia di una sfera per immersioni. Jelt gioca la carta del “mi devi la vita” e procede a manipolare il fedele Hark come una figura di plastilina.

Hark, nato all’ombra di Jelt e più che volenteroso, in nome di un legame affettivo unilaterale e di un sentimento debitorio sbagliato, nell’accettare richieste via via sempre più impegnative, se non assurde, riuscirà a riconoscere l’amico per la persona manipolativa quale è e a mettere le distanze da una relazione tossica prima che quest’ultima lo divori per sempre.


Personaggio che si odia, caratterizzazione che si ama

Jelt mi infonde lo stesso sentimento positivo che mi trasmette re Jeoffrey: ad averlo davanti, lo prenderei a pugni.

Mi ha fatto storcere la bocca fin dalla sua prima apparizione. Jelt è una di quelle personalità malsane che, datoti un dito, pretendono poi da te braccio, spalla e perpetua accondiscendenza. Maschera gli obblighi da inviti, ti esorta con finte lusinghe, ti promette le stelle e poi, quando finisci invischiato nelle sabbie mobili che lui stesso ha piazzato sul tuo cammino, ti allunga il bastone per rifilarti una botta sulla testa.

Ho apprezzato davvero tanto, invece, l’evoluzione caratteriale di Hark. In fin troppi romanzi il protagonista si inserisce come persona già equilibrata o comunque senza particolari attributi caratteriali (il cosiddetto personaggio piatto), ma La luce degli abissi offre l’esempio di arco narrativo che ogni protagonista dovrebbe percorrere.

Cambiare non è facile: nel corso della storia Hark compirà scelte discutibili, inventerà giustificazioni e si logorerà dal senso di colpa. Jelt verserà sale sulla ferita ogni volta che ne avrà l’occasione. Alla fine, però, Hark raccoglierà il coraggio necessario a recidere il ramo malato dal suo albero di amicizie.

La luce degli abissi insegna che i veri mostri hanno pelle, denti, ossa e 46 cromosomi.


Worldbuilding ai massimi livelli

Io non so nuotare. Ci ho provato a più riprese, ma il solo pensare di tuffarmi in un metro e mezzo d’acqua mi fa sudare i palmi e annodare lo stomaco.  Odio non poter valutare la distanza tra superficie e fondo e odio allungare il piede per scoprire di non toccar terreno. Alle lezioni di nuoto, da bambina, per gli istruttori era un traguardo quando scollavo le mani dal bordo vasca.

Questa postilla serve a spiegare il respiro corto che ho mantenuto per buona parte del tempo trascorso a leggere il libro.

Il mondo de La voce degli abissi non potrebbe essere meglio delineato. È fantasy allo stato puro. C’è un continente lontano che viene solo menzionato a beneficio di una narrazione che si concentra sul microcosmo dell’arcipelago. Ove La caduta dei re di Jenn Lyons tenta di stupire con una worldbuilding di più ampio respiro e dalle mille e complicate sfaccettature fini solo a se stesse, l’ambientazione de La luce degli abissi è precisa, pulita e funzionale alla storia di cui fa da cornice.

Ai baciati dal mare va il riguardo di chi passa la vita sulla terraferma, e quale maggiore testimonianza di ammirazione se non la creazione di un linguaggio dei segni ad hoc per continuare a comunicare con loro?

Che dire poi dello sviluppo tecnologico degli abitanti delle isole? La loro economia sfrutta le risorse del mare, quindi è naturale che l’inventiva umana sia tesa ad aggiornare modelli di sottomarini e ideare metodi di navigazione subacquea sempre più sicuri.

Questo straparlare di oceani, arcipelaghi e favolose divinità può forse rievocare le acque trasparenti e il cielo azzurro del film Disney Vaiana, ma l’Abissomare è un territorio ostile che si nutre del terrore dei naviganti. È lo scenario perfetto per scatenare la nostra immaginazione. Viene automatico popolarlo di esseri raccapriccianti, rappresentazioni delle nostre peggiori paure. Le vestigia stesse degli dèi irradiano una misteriosa energia che si rivelerà tutt’altro che positiva.


Una storia per non cedere all’orrore

Ogni dio ha un rappresentante che ne diffonde il verbo. Quando non restano più divinità da adorare, ai sacerdoti degli dèi del mare tocca andare in pensione. Per espiare un piccolo reato, Hark si ritroverà suo malgrado a dover fare da balia a questi anziani portavoce.

Sarà qui, fra le mura di questa anticamera della morte, che i sacerdoti spalancheranno gli occhi di Hark sulla vera natura degli dèi. Hark capirà quanta influenza possa avere una storia sulla psiche delle persone: lui che finora ha sfruttato la buona favella per rabbonire una persona alla volta, capirà che una parola ancor meglio piazzata può arrivare a rassicurarne mille.

Sarà sempre qui che Hark capirà di dover salvare l’arcipelago dall’avidità umana e da un destino di morte certa.


Prima parte lenta, poi migliora di colpo

Se devo proprio muovere un’accusa, posso dire che la prima parte de La luce degli abissi è tremendamente lenta, così lenta che ero lì lì per etichettarlo come DNF.

Dopo che Hark si ritrova proprietà della dottoressa Vyne e viene condotto al santuario a prendersi cura dei sacerdoti in pensione (a estorcergli storie dei vecchi dèi, soprattutto), sembra che la Hardinge sia più interessata a definire i suoi personaggi che a far progredire la storia, perché l’azione si attarda e si farà aspettare per svariati capitoli a venire.

Quando però l’azione finalmente arriva, smettere di leggere è un’ardua impresa. L’abbrivo lento e forse deliberato permette di affezionarsi ai personaggi e di crearsi le coordinate del mondo dell’arcipelago.


Per concludere

Sottomarini steampunk, gargantueschi crostacei, covi da bucanieri e dilemmi etici. Cosa volere di più?

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[Recensione] “Falce” di Neal Shusterman

Avete presente quando fate tardi a un appuntamento perché un capitolo tira l’altro? Avrei dovuto pubblicare questa recensione già un paio di settimane fa, ma ho disatteso l’impegno preso. Se ora potete leggere queste righe, è perché stasera – 19 maggio, giorno di uscita di Falce in Italia – ho ritenuto di dovermi inchiodare alla scrivania e impormi di scrivere.

Mentre lo sguardo continua a slittare all’e-reader nei cui circuiti si nasconde The Toll, terzo e ultimo volume di questa trilogia utopica/distopica dal cui finale mi separa solo qualche decina di pagine, vediamo assieme il primo episodio…

Titolo: Falce (1° di 3)
Autore: Neal Shusterman
Genere: young adult/fantascienza
Editore: Mondadori
Pagine: 360

Un mondo senza fame, senza guerre, senza povertà, senza malattie. Un mondo senza morte. Un mondo in cui l’umanità è riuscita a sconfiggere i suoi incubi peggiori. A occuparsi di tutte le necessità della razza umana è il Thunderhead, un’immensa, onnisciente e onnipotente intelligenza artificiale. Il Thunderhead non sbaglia mai, e soprattutto non ha sentimenti, né rimorsi, né rimpianti.

Quello in cui vivono i due adolescenti Citra Terranova e Rowan Damisch è davvero un mondo perfetto. O così appare. Se nessuno muore più, infatti, tenere la pressione demografica sotto controllo diventa un vincolo ineluttabile. Anche l’efficienza del Thunderhead ha dei limiti e non può provvedere alle esigenze di una popolazione in continua crescita. Per questo ogni anno un certo numero di persone deve essere “spigolato”. In termini meno poetici: ucciso. Il delicato quanto cruciale incarico è affidato alle cosiddette falci, le uniche a poter decidere quali vite devono finire. Quando la Compagnia delle falci decide di reclutare nuovi membri, il Venerando Maestro Faraday sceglie come apprendisti proprio Citra e Rowan. Schietti, coraggiosi, onesti, i due ragazzi non ne vogliono sapere di diventare degli assassini. E questo fa di loro delle falci potenzialmente perfette.


Falce: la recensione

Vorrei che finissero la fame e le guerre nel mondo.

Ero una lepisma piccina piccina – e anche un po’ bugiarda – quando, nei compiti di lingua italiana, mi capitava di dover esprimere sulla pagina il massimo desiderio della mia giovane vita. Pensavo, forse a torto, che un Vorrei pizza tutte le sere o un Vorrei essere un’allenatrice di Pokémon non avrebbero riscosso la stessa approvazione da parte del corpo insegnante.

Nella mente brillante di Neal Shusterman, questo desiderio ingenuo si concretizza in un futuro non troppo lontano dal nostro presente. A una manciata di decenni da adesso, l’umanità esorcizzerà la fame, le guerre, la disuguaglianza e, con esse, la morte. Ove adesso c’è morte certa, in futuro ci sarà la promessa di una vita pressoché infinita. Ove adesso c’è il malgoverno del corruttibile politico arrivista, in futuro arriverà la perfezione della macchina: all’intelligenza artificiale del Thunderhead l’umanità si rivolgerà, come un bambino in preghiera a mani giunte, per sanare quanto di marcio sarà rimasto sul pianeta.

Imagine all the people living life in peace, cantava Lennon. Ed è quello che tutti faranno. Tutti… o quasi.


Una Falce contro il disequilibrio

Con il Thunderhead che da solo accudisce l’intero pianeta con una gestione a 360 gradi, all’umanità di Falce non resta che sedersi in panchina mentre il miracolo della creazione fa lo sporco lavoro al posto suo. Ormai assuefatto alla presenza rassicurante e benevola del Thunderhead che risponde alla più banale esigenza, l’uomo si riscopre neonato e dipende dal supercomputer in tutto e per tutto. O quasi tutto.

C’è un incomodo, infatti, a cui il Thunderhead non può far fronte da solo in un mondo dove chi nasce non muore mai: la sovrappopolazione. In seguito alla catastrofe che ha portato all’abbandono delle colonie sulla Luna e su Marte e spento ogni ulteriore interesse per la corsa allo Spazio, l’umanità è vincolata al suo luogo di nascita. Il Thunderhead è una macchina efficientissima, ma opera sempre e comunque nei limiti di materie prime che, pur rinnovabili, possono servire un numero finito di persone alla volta. Quel numero critico è ora prossimo al raggiungimento: bisogna trovare una soluzione per rallentare la crescita demografica, perché termini come stress ambientale e disequilibrio economico rimangano confinati fra le pagine buie dei libri di Storia.

Bisogna, insomma, che qualcuno si candidi per uccidere, o per maggior finezza spigolare, altri esseri umani. Adesso è il turno del Thunderhead di sedersi fuoricampo e lasciare che siano le falci, assassini legalizzati, a giocare la partita.


Largo a queste giovani falci…

Citra Terranova e Rowan Damisch frequentano la scuola superiore. Non si conoscono, non ancora. Lei è il punto di vista che ci introduce in media res nel romanzo, fra le mura di una casa e le braccia di una famiglia amorevole; lui, uno dei tanti in cerca di uno scopo in un mondo dove la noia scandisce interminabili ore.

Lasciate ogne speranza, voi ch’il libro aprirete: l’incipit in stile Famiglia del Mulino Bianco è presto oscurato da un’ombra inquietante che si staglia sulla porta di casa di Citra e ne suona il campanello.

Citra e Rowan vivono in un futuro dove l’immortalità non è più appannaggio esclusivo di supereroi da fumetto, ma come i giovani d’oggi è forte in loro quel senso di invincibilità che li porta a ritenersi immuni da qualsiasi disgrazia. Quando infatti le loro vite vengono appena sfiorate dal tocco freddo di una falce, senza essere tuttavia bersaglio diretto della sua lama, l’impatto lascia un cratere indelebile nella loro psiche.


Cercasi apprendisti senza esperienza

Ora… quando le circostanze lo richiedono, alle falci è dato permesso di prendere un apprendista sotto la propria egida. Diventare apprendisti di una falce garantisce immunità alla spigolatura per l’apprendista stesso e per la sua famiglia. Se l’apprendista viene confermato, l’immunità diventa a tempo indeterminato e coincide con la durata della vita della falce. Il suo lavoro è infatti per sempre: l’unica via per rassegnare le dimissioni è suicidarsi.

Torniamo a Citra e Rowan: Maestro Faraday li ha reclamati entrambi perché diventino i suoi apprendisti. Nessuno dei due può sottrarsi all’ordine mascherato da invito, nessuno dei due ambisce a un futuro da assassino. D’altronde, solo uno di loro sarò confermato e chi dei due vincerà dovrà spigolare l’altro.

Un lui, una lei… coetanei… pensate già di sapere come va a finire, no…?

No, che non lo sapete!


Ah, l’amour… ma anche no!

Che avrei amato Falce era certo a partire dalla copertina squisitamente essenziale e spartana, che riflette lo stile in cui il romanzo è scritto. Devo dire che scorre molto bene e se anche il contenuto è denso di spunti di riflessione, la voce dell’autore rimane dietro le quinte senza soffocare il lettore con moralismi molesti. Shusterman lascia che siano i personaggi a parlare per lui.

La ricchezza di tematiche di carattere etico è un altro punto a favore del romanzo, perché leva ossigeno a quell’elemento che infesta molti altri libri destinati al pubblico young adult: l’amore che tinge di rosa ogni cosa (quel dendrocidio della serie After, per esempio, o in misura leggermente minore questo romanzo). E che, personalmente, mi fa andare in iperglicemia.

C’è amore, in Falce, come credo abbiate già intuìto, quel tipo d’amore che ignora ogni legge fisica e biologica e sboccia alla velocità della luce. Il colpo di fulmine, insomma. A poco valgono, come deterrente, le raccomandazioni di Maestro Faraday di tenere a bada i bollenti ormoni. Eppure, la relazione tra Citra e Rowan non buca mai la pagina. Non si para a mezzo centimetro dal naso del lettore per dirgli Guarda quanto ci amiamo! e, soprattutto, non diventa il perno attorno al quale ruota il romanzo.


Qualcuno fermi queste giovani falci

C’è fermento, infatti, tra i ranghi delle falci. Le falci più veterane, abituate a uno stile di vita di sobria contemplazione del loro ruolo, guardano di cattivo occhio le reclute recenti che nella sacralità della morte trovano invece l’occasione per gioire e godere del privilegio di usufruire della vita altrui. Non all’amore fra due adolescenti, ma all’etica è rivolta la bussola dell’intreccio.

Falce, e con esso anche i suoi seguiti, è la dimostrazione che si può scrivere letteratura adolescenziale decente quando l’amore viene ritratto non come diva che invade il palco e che mentre si fa i selfie si premura di tagliare tutti gli altri attori dall’inquadratura, ma come formidabile forza motrice che stimola e spinge i personaggi a compiere determinate scelte che hanno risonanza su scala mondiale. Falce dimostra che l’amore young adult può avere un ruolo complementare a una trama di ampio orizzonte. E il risultato è una storia di qualità come poche se ne scorgono nel genere.

Per questo io Shusterman lo ringrazio tantissimo.


Personaggi identificabili

Mentre Maestro Faraday conduce una vita spartana, quanto più lontana dai privilegi concessi alla sua posizione (materiali, soprattutto), c’è Maestro Goddard che, dall’altra parte della staccionata morale, pretende e arraffa come se tutto gli fosse dovuto. Non mancano personaggi che si muovono in una zona meno rigida, come Senocrate che alla sobrietà della propria condotta contrappone la voracità dell’appetito.

Mi ha affascinato il rigore di Maestro Faraday, ho avvertito l’urgenza di Citra e Rowan di volgere le carte a proprio favore. Ancora non ho ben chiara qual è l’emozione che provo nei confronti di Maestro Goddard, divisa tra il volergli levare gli incisivi con un pugno e l’ammirarne il maledetto carisma.

Madame Curie l’abbraccerei, non avessi tema di rimanere infilzata come una porchetta sarda. E Maestro Volta! Maestro Volta… penso a Maestro Volta e vado a rannicchiarmi nell’angolino a piangere sommessamente.


Worldbuilding solida e coerente

Non ho ravvisato buchi di trama o incoerenze nella worldbuilding. L’unica domanda che mi sia posta è stata ampiamente chiarita nel terzo volume, con un bel colpo di scena che conferma la qualità costante di tutta la trilogia.

Ho apprezzato in particolare il messaggio di fondo che il romanzo sembra voler veicolare: a prescindere dai nostri sforzi per avvicinarlo, l’Eden è sempre una spanna al di là del nostro braccio teso. L’umanità si è liberata dalla prospettiva di una vita a scadenza, ma nell’affrancarsi dalla morte ha perduto la scintilla della passione. La vita del futuro è scandita dall’incedere indolente di persone che non hanno più uno scopo se non quello di continuare a esistere a oltranza.


Ci troviamo davvero in un’utopia?

Non c’è più la corsa verso l’emozione, scomparsa è la sensazione di sprecare il presente. L’uomo del futuro guarda quasi con nostalgia a un passato da cui ha voluto a tutti i costi fuggire. Ed è grazie alla passione stessa dell’uomo mortale, alla sua visione di un futuro equo e migliore per tutti, se ora l’umanità si trova a rimpiangere l’età del passato. Insomma: chi è biondo vuole essere moro e viceversa.

Ho trovato azzeccata anche l’idea dell’uomo destinato a essere compromesso dalla brama di potere. Il lavoro delle falci è semplice: non devono che gestire la crescita della popolazione, perché a tutto il resto pensa il Thunderhead onnisciente e incorruttibile. Eppure… eppure, anche tra i più integerrimi, c’è chi prima o poi annusa il profumo dell’oro e si fa venire l’acquolina in bocca. Tocca all’uomo stesso, allora, rimettersi in piedi dopo essere caduto in ginocchio, perché il Thunderhead è irremovibile: la morte è affare degli uomini e degli uomini soltanto.


Per concludere

Nell’appellarsi alla ricerca del palpito d’amore del giovane lettore e all’attrazione che inevitabilmente riscuote un argomento tabù come la morte, Neal Shusterman ha confezionato il romanzo perfetto per il pubblico adolescente, senza per questo alienarsi i lettori più anziani.

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[Recensione] “La caduta dei re. Il coro dei draghi” di Jenn Lyons

Nei circoli letterari d’oltremanica e d’oltreoceano, La caduta dei re – Il coro dei draghi, romanzo high fantasy primo di una trilogia fluita dalla penna della debuttante Jenn Lyons, ha fatto molto commentare di sé. In Italia lo ha importato Fanucci con una traduzione la cui pubblicazione è prevista per la fine di febbraio, ma i suoi continui avvistamenti in cima alla mia bacheca di Goodreads hanno sfidato la mia tolleranza dell’attesa a tal punto da indurmi a buttare all’aria ogni residuo di pazienza e impadronirmi del libro in lingua originale.

L’hype cucito attorno a questo romanzo lo paragona per qualità alle opere di Brandon Sanderson (un autore che conosco solo di fama) e si sbilancia nel definirlo il degno erede – quando la loro stesura sarà ultimata, beninteso, cioè di questo andazzo mai – delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George Martin. Gli si loda lo stile, l’accurata complessità del sistema socio-economico di un mondo che non potrebbe essere più lontano dal nostro. Negli anni ho imparato a diffidare del marketing da fascettismo che azzarda accostamenti coi prosatori più qualificati (ero lì lì per definirli prolifici: un aggettivo forze calzante per Sanderson, ma certo non per Martin che The Winds of Winter non fa che posticiparlo), eppure mi ritrovo sempre a capitolare e farmi adescare da queste pratiche commerciali…

Ordunque, la recensione. Preparate il caffè: sarà lunga.

Titolo: La caduta dei re. Il coro dei draghi (1° di 3)
Autrice: Jenn Lyons
Genere: high fantasy/adult fantasy
Editore: Fanucci
Pagine: 608

Kihrin, l’apprendista di un bardo, è cresciuto ascoltando storie di gesta leggendarie. Costretto a rubare alla disperata ricerca di una via d’uscita dalla povertà dei bassifondi di Quur, una sera fa irruzione nella casa sbagliata: marchiato da un demone, da lì in avanti la sua vita non sarà più la stessa. La difficile situazione di Kihrin lo porta al cospetto dei reali, che lo rivendicano come il figlio perduto del loro principe immorale.

Ma lungi dal vivere il sogno, Kihrin è in balìa delle spietate ambizioni della sua nuova famiglia. Tuttavia, tentare la fuga dalla sua gabbia dorata non fa che peggiorare le cose. Kihrin è inorridito nel sapere che egli è al centro di un’antica profezia. E ogni fazione – dèi, demoni, draghi e maghi – lo rivendicano come propria pedina. Quelle vecchie storie che aveva ascoltato sin da piccolo, in cui l’eroe vince sempre, erano piene di menzogne. O forse no… Forse Kihrin non è un eroe, e il suo destino non è di salvare l’impero. Forse il disegno che il fato ha per lui è quello di distruggerlo.


La caduta dei re: la recensione

La caduta dei re – Il coro dei draghi è un bel romanzo, nel senso che lo si legge senza attrito e non si avverte il peso sia metaforico che letterale delle sue pagine. Non è però un romanzo facile, né da leggere né da recensire. È da poco prima di Natale 2019, infatti, che tento di imporre una parvenza di leggibilità agli appunti che ho scarabocchiato durante la sua lettura e di fendere la nebbia che mi si è comunque insediata in testa. Mi rendo conto di esprimere giudizi in apparenza contrapposti: prima mi pronuncio sulla piacevolezza della lettura, poi lamento le difficoltà incontrate durante la stessa.

Piacevole e difficile, d’altronde, non sono antonimi. Fino a che punto, però, la meraviglia del fantastico prevale sulla confusione che deriva da un intreccio caotico e scoordinato? Trovo stimoli nelle sfide letterarie (Casa di foglie è in cima alla lista delle prossime letture), ma non mi piace sforzarmi invano. Se un libro richiede un esercizio mentale di una certa portata, mi aspetto una ricompensa finale che mi ripaghi della fatica fatta per giungere alla sua conclusione.

La caduta dei re – Il coro dei draghi è volutamente intricato e non premia chi, pagina dopo pagina, cerca pazientemente di districarlo. È come tentare di spiccicare un chewing-gum da una ciocca di capelli: il più delle volte si finisce per gettare le braccia al cielo e andare a recuperare le forbici.


La caduta dei re è un libro a cipolla

Come le tradizionali bambole russe, La caduta dei re – Il coro dei draghi è un romanzo a strati.

Il primo strato ricorre all’espediente letterario del manoscritto: un ancora estraneo Thursivar D’Lorus redige, al termine degli eventi narrati, una cronaca dettagliata degli stessi attingendo alle testimonianze di due personaggi coinvolti in prima linea nelle vicende. Allegherà il manoscritto a una lettera indirizzata al proprio imperatore, perché sia anche lui messo al corrente di quanto accaduto. Il manoscritto, dunque, non è che il romanzo stesso.

Spellato il primo strato, il secondo livello, quello appunto del manoscritto, è freddo e umido come le mura di una prigione: il sedicenne Kihrin, in catene, e Talon, demone mutaforma dalla parte aperta dell’inferriata, si lanciano occhiate in tralice. Talon, assassina provetta, gode nel collezionare le esperienze di vita delle proprie vittime e incalza Kihrin a condividere le sue, finché conserva il fiato per farlo. A tal proposito gli allunga una speciale pietra magica in grado di registrare la voce umana. Non senza riluttanza, Kihrin si arrende e acconsente a narrare, o tentare di farlo, ma lo fa a sua condizione, cioè a patto di cominciare dalla seconda metà di quel foglio protocollo scritto fitto che è la storia delle scelte culminate nella sua incarcerazione.

Continuiamo a sbucciare. Talon (il cui nome significa “artiglio”, termine che prospetta tante cose positive) è convinta, d’altro canto, che le pagine vadano lette, come insegnano anche a scuola, ambiente a Kihrin sconosciuto, a partire dal rigo numero uno. Se Kihrin preferisce glissare e partire da metà pagina, poco male, perché Talon non ignora proprio tutto tutto della sua storia. Anzi, ignora proprio poco. La sua carriera di assassina è già costellata di cadaveri di cui ha assorbito la memoria, cadaveri che da vivi Kihrin lo hanno conosciuto in prima persona: le basterà attingere a queste per ricostruire, o tentare di farlo, la vita di Kihrin relativa alla prima metà del foglio. E questo sarà il terzo strato della narrazione.

Kihrin e Talon si alterneranno nel raccontare, capitolo dopo capitolo, i due tronconi in cui è divisa la storia che li ha condotti fino a lìConvergeranno, infine, in quella che è la cornice principale del romanzo: il manoscritto di Thursivar.

All’inizio vedevo in quest’alternanza un aspetto positivo, ma poi, con l’avanzare delle pagine, l’interesse si è guastato ed è subentrato il fastidio: la Lyons deve nutrire un amore profondo per i cliffhanger, così viscerale da non poter concepire un finale di capitolo che non ne faccia uso. Capite dove sta il problema? Si ha appena il tempo di sintonizzarsi con un dato punto cronologico dell’intreccio prima di schiantarsi contro il cliffhanger che segna la fine del capitolo e il passaggio a un altro punto cronologico della storia. Se volete leggere la trama nel giusto ordine, dovrete prima leggere tutti i capitoli pari e poi tutti i capitoli dispari (o il contrario).

I finali a effetto si traducono in un’efficace strategia per affiliarsi il lettore, ma allo stesso tempo introducono vane speranze. A che pro ribaltare l’ordine cronologico della storia come un calzino, se non si naviga in vista di un’epica epifania che farà convergere tutti questi affluenti in un flusso unico di parole che scorrerà indisturbato fino alla degna conclusione?

Sì, le due timeline si fonderanno a circa metà del volume. No, non ci sarà alcuna grande rivelazione a giustificare la loro previa divisione.


Il depistaggio del narratore inaffidabile

Thursivar, colui che si suppone essere il narratore onnisciente, non è un narratore affidabile. È troppo invischiato nelle vicende, per dirne una, e tramite note a piè di pagina sfoggia un umorismo fin troppo intelligente perché si possa credere che sia così sprovveduto da dire sempre e solo la candida verità. Ingoiamo queste note in calce come gustose caramelle piazzate strategicamente fra le pagine del libro, ma in realtà non apportano altro contributo alla trama se non quello di strappare un sorriso e frammentare una lettura che richiederebbe invece attenzione costante e ininterrotta. Della serie: potete saltarle a piè pari.

Kihrin non è un narratore affidabile. Ignora le sue vere origini, ignora di vivere in un mondo di gente reincarnata che ha conservato le memorie delle vite precedenti (be there in a minute). Cresciuto nei sobborghi di città e catapultato di malavoglia fra i frizzi e i lazzi della nobiltà che lo accoglie a braccia spalancate come un figlio a lungo perduto, risalta nel lusso come un occhio pesto sul viso di un albino.

Il concetto di reincarnazione, poi, è persistente in tutto il romanzo. Nessuno è chi dice di essere: chi dapprima si presenta come Caio può smettere la maschera e introdursi come nonno di Pinco e padre di Plinio. Plinio, a sua volta, si leverà il cappello di fronte a Sempronio, precedentemente conosciuto come Pinco. Nessuno è chi dice di essere e chi è morto non lo è davvero.

La densità dei personaggi reincarnati è direttamente proporzionale al numero delle pagine macinate, per cui più si va avanti e più la storia richiede di stare al passo con lei. Immaginate di essere dei giocolieri mentre lanciano palline per aria: ve la giostrate senza difficoltà con due palline, con quattro non mancate mai un colpo, con sei cominciate ad avvertire una certa tensione nella coordinazione occhio-mano e con dieci… con dieci restate a mani vuote mentre attorno a voi rimbalzano palline da tutte le parti. La caduta dei re ve ne mette in mano una e, tempo della fine, ve ne ritrovate fra le braccia una dozzina.

La trama de La caduta del re è più ingarbugliata di un filo per scoubidou.
La trama de La caduta del re è più ingarbugliata di un filo per scoubidou.

Urthaniel, la caduta dei re

Non manca la presenza degli elementi più caratteristici del genere, vale a dire i rettiloni sputafuoco e armi battezzate con nomi arcani. Un’arma, in particolare: La caduta dei re, Urthaniel, che presta il nome al titolo.

L’universo della Lyons abbonda poi di artefatti magici. Se anche posso dire di aver apprezzato la varietà degli stessi, però, ho trovato la loro descrizione ancora una volta vaga e imprecisa, con macchinose regole d’uso che sembrano confezionate apposta per fare scena e complicare ulteriormente la worldbuilding del romanzo.

Alle componenti del fantasy casto, puro ed eroico à la Tolkien si affiancano i temi classici e ben più prosaici del filone dark fantasy: magia arcana, assassinii, sesso (in questo campo, Kihrin, senza scadere nella volgarità esplicita, è un autentico coniglio Duracell), draghi egoisti e un repertorio di battutacce e allusioni piccanti.


Lo scettro al più bruto di tutti: la worldbuilding realistica di Quur

Quur è un impero. L’imperatore non si vede calare lo scettro del comando dall’alto, né eredita i privilegi da un diretto consanguineo. Lo scettro se lo deve guadagnare con la forza bruta o con l’astuzia. Praticamente sempre, col sangue.

Quando il posto da imperatore è vacante, infatti, i contendenti che desiderano candidarsi per la posizione devono presentarsi in arena e qui sbaragliare tutti gli altri pretendenti al posto. L’ultimo a rimanere in piedi su un cumulo di cadaveri e organi spappolati si vedrà porre lo scettro del potere fra le mani.

Capito? Non il più istruito, non il più avveduto, ma quello che ti apre il cranio con un colpo secco dell’ascia. Non dobbiamo stupirci, quindi, se il regno di Quur è un castello di carte pronto a crollare su se stesso. Mentre i demoni dell’oltretomba spingono sulle porte della capitale con l’intenzione di farne un parcheggio, prolifera in tutto il continente una fiorente tratta degli schiavi. I poveri si arrabattano come meglio possono, le famiglie della nobiltà complottano e pianificano per rimpinguarsi le tasche già rigurgitanti di denari e allo stesso tempo rafforzare la propria influenza e dominio sull’economia dell’impero.

La schiavitù è così endemica che Kirhin stesso si ritrova messo all’asta, con le caviglie e i piedi tormentati dalle piaghe. E mentre attende che il banditore lo venda al miglior offerente, possiamo tracciare similitudini tra la schiavitù propriamente detta, di chi è costretto ai lavori forzati pena una raffica di frustate, e la prigionia vellutata di un novello principe ritrovato nel cassonetto dell’immondizia: Kihrin anela alla libertà, poco importano i doveri di protocollo imposti dal suo ritrovato status aristocratico.

Lo stile della Lyons, descrittivo ma non troppo e con punte di qualità sorprendenti per essere opera di un’autrice debuttante, dipinge un impero tutt’altro che fatato. Ma d’altronde cosa vi aspettate da un governatore che viene eletto perché unico superstite di un bagno di sangue?


Kihrin, aka Gary Stu, aka la caduta dei cliché

Poco male, la trama impacciata sarà compensata da un cast di personaggi a tutto tondo. Kihrin è un Gary Stu fatto e finito. Spuntiamo le peculiarità che identificano questo tipo di personaggio stereotipato…

Vive di stenti e scopre all’improvviso di essere importante, molto importante. Check.
È assurdamente bello. Check.
L’autrice non fa che enfatizzare il suo essere assurdamente bello. Check.
Va a letto con qualsiasi essere vivente anatomicamente compatibile. Check.
Tutti (o quasi) lo considerano bello come un Adone e gli fanno la corte. Check.
Esce indenne da situazioni di pericolo altamente mortali. Check.
Da schermidore inesperto a spadaccino provetto nell’arco di una notte. Check.
È oggetto di una profezia per salvare il mondo. Check.
Si lamenta costantemente di essere una nullità incapace, ma eccelle in qualsiasi attività si applichi per almeno un secondo. Check.

Manca, in ultima analisi, quel senso di minaccia e quella incertezza che ti portano a macinare una pagina dopo l’altra per sapere come finisce la storia. Kihrin ha letteralmente la dea bendata dalla sua parte. Kihrin è immune a qualsiasi pericolo e a qualsivoglia fatica, quindi perché continuare con la lettura se sappiamo già come andrà a finire?

Buona la worldbuilding, dunque, ma La caduta dei re avrebbe beneficiato di una caratterizzazione del protagonista meno stereotipata. Sono presenti dei personaggi secondari che fanno giusto una comparsata e sono comunque meglio caratterizzati di lui.


Per concludere

La caduta dei re è un libro viscoso, denso a tal punto da rimanere intrappolati nel suo complesso albero genealogico di nomi e reincarnazioni. Potrebbe piacervi se apprezzate gli intrecci originali e arzigogolati. Potrebbe risultarvi indigesto se invece, come me, siete più tradizionalisti e preferite optare per l’ordine convenzionale di inizio, svolgimento e fine.

Cercate un fantasy cappa e spada, davvero originale e ben strutturato? Date un’occhiata a I guerrieri di Wyld.

Stellina per recensioni.
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[Recensione] “L’Istituto” di Stephen King

Non è la prima volta che King mostra interesse per le ipotetiche quanto catastrofiche potenzialità della telecinesi. Vedasi Carrie, romanzo agli esordi della sua onorata carriera. Adesso, con L’Istituto, King si è liberato dell’aridità creativa che ha contraddistinto le sue recenti pubblicazioni consegnando ai lettori una storia soprannaturale che in dirittura d’arrivo stuzzica l’ago della nostra bussola morale.

Di cosa parla?

Titolo: L’istituto
Autore: Stephen King
Genere: thriller/fantascienza
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine: 576

È notte fonda a Minneapolis, quando un misterioso gruppo di persone si introduce in casa di Luke Ellis, uccide i suoi genitori e lo porta via in un SUV nero. Bastano due minuti, sprofondati nel silenzio irreale di una tranquilla strada di periferia, per sconvolgere la vita di Luke, per sempre. Quando si sveglia, il ragazzo si trova in una camera del tutto simile alla sua, ma senza finestre, nel famigerato Istituto dove sono rinchiusi altri bambini come lui. Dietro porte tutte uguali, lungo corridoi illuminati da luci spettrali, si trovano piccoli geni con poteri speciali – telepatia, telecinesi.

Appena arrivati, sono destinati alla Prima Casa, dove Luke trova infatti i compagni Kalisha, Nick, George, Iris e Avery Dixon, che ha solo dieci anni. Poi, qualcuno finisce nella Seconda Casa. «È come il motel di un film dell’orrore», dice Kalisha. «Chi prende una stanza non ne esce più.» Sono le regole della feroce signora Sigsby, direttrice dell’Istituto, convinta di poter estrarre i loro doni: con qualunque mezzo, a qualunque costo. Chi non si adegua subisce punizioni implacabili. E così, uno alla volta, i compagni di Luke spariscono, mentre lui cerca disperatamente una via d’uscita. Solo che nessuno, finora, è mai riuscito a evadere dall’Istituto


L’istituto: la recensione

Il plot de L’Istituto ruota attorno alla giovane figura di Luke Ellis, che appena dodicenne è in grado di risolvere equazioni matematiche da A-levels e che si vede già conteso come futura matricola tra due università della Ivy League. Fin qui, nulla di strano. Solo in questi giorni c’è l’ingegnoso Laurent Simons che a soli nove anni fa notizia per essere prossimo al primato di laureato più giovane della storia.

No, la genialità di Luke Ellis non è che un attributo come un altro, una qualità aggiunta al dono vero e proprio che gli è stato concesso alla nascita. Perché se anche la materia grigia abbonda, non è il suo elevatissimo QI a cui mira la misteriosa organizzazione criminale a capo dell’Istituto che presta il titolo al romanzo. Luke, infatti, per quanto il diretto interessato possa sottovalutare le sue facoltà mentali, è un promettente e appetibile telecineta.


Ti mando all’Istituto di King is the new Ti mando in collegio?

Ricordate quando, all’ennesimo compito a casa eseguito di malavoglia, vi piovevano addosso, nell’ordine, minacce di interdizione alla visione di cartoni animati, sequestro delle cartucce del Game Boy, spedizioni in collegio con tanto di tono di voce che s’alzava di un’ottava? Nel mio caso, le prime due intimidazioni si concretizzavano anche abbastanza spesso. L’impossibilità di piallare la Lega con Pikachu a livello 100 si rivelava, almeno in via temporanea, una cura efficace alla mia pigrizia scolastica.

Ma la prospettiva del collegio? Alla generazione di Hogwarts, idee del genere fanno un baffo e possono solo scatenare la fantasia con lunghe sessioni di sogni a occhi aperti. Mai una volta che abbia battuto ciglio, insomma, sapendo che la minaccia sarebbe caduta puntualmente nel vuoto. Se fra di voi si nascondono tutt’ora genitori che questo Ti mando in collegio! lo hanno sulla rampa di lancio a beneficio dei figli lavativi a scuola, invito i suddetti a trovare alternative meno anacronistiche e davvero deterrenti, del tipo… Ti mando all’Istituto di King! Solo così crescerete futuri laureati a Harvard. E adesso vi spiego perché.


Non tutto è oro ciò che luccica

La mensa dell’Istituto sforna sfiziosi manicaretti a colazione, pranzo e cena. Le stanze dei giovani, talentuosi ospiti sono progettate per replicare il comfort e l’atmosfera delle loro camerette di casa fin dal mobilio e dagli oggetti, identici, con cui vengono arredate. Non ci sono lezioni da seguire, libri su cui studiare: i residenti possono scegliere se bighellonare nei corridoi, magari conversando con l’anziana inserviente, o giocare all’aperto sull’erba e godersi la luce del sole. Poi, se si comportano bene in quel poco, pochissimo, che viene loro richiesto di fare, possono guadagnare dei gettoni con cui navigare in internet o comprarsi degli snack ipercalorici o delle sigarette (sì, sigarette!) alle apposite macchinette.

(E questo è King, non Collodi: nessun bambino dell’Istituto si risveglia al mattino con sulla testa un paio d’orecchie da ciuco.)

Niente male, non vi pare? Ai genitori dei cari ospiti il soggiorno all’Istituto non costa una lira. Pensate: meno di un centesimo di euro! L’immatricolazione, d’altronde, è un processo assolutamente automatico che scavalca – strazia, maciulla – qualsiasi patria podestà: il bambino viene prelevato nottetempo da SUV dai vetri oscurati contro la volontà di tutta la famiglia (in gergo, “rapito”), condotto all’Istituto nell’incoscienza indotta dai farmaci, schedato, esaminato. Sottoposto, come una cavia da laboratorio prima che fosse introdotto il divieto alla vivisezione, a orribili esperimenti e prove di resistenza per risvegliarne il potenziale psichico e spremerlo dalle sue meningi.

L’Istituto non è una scuola. L’Istituto è un incubo e Luke si risveglia al suo interno.


In mezzo a telepati e telecineti

Messo al corrente del traffico di bambini fra le mura dell’Istituto, Luke deve elaborare un piano di fuga. Non avrà che qualche settimana per abbozzare la scaletta: tanto dura la permanenza in quella che viene definita Prima Casa dell’Istituto. Oltre quel traguardo ci sono solo la Seconda Casa e il silenzio tetro dei bambini che ne varcano la soglia senza più tornare indietro. Ma come scappare, come eludere la stretta sorveglianza? La sua telecinesi basta appena a smuovere dei cartoni di pizza!

Perfino i deserti più impervi nascondono delle oasi di gioia. Disorientato e atterrito com’è, Luke si sente quasi a casa grazie alle sue nuove amicizie. Fra le tanti vittime della stessa sorte, Kalisha, Nicky, Avery e George. Grazie ai poteri paranormali che condivide con questi ragazzi, Luke stringerà con loro uno stretto rapporto come mai ne ha coltivati durante la vita in libertà (si dibatte spesso sulla relazione inversamente proporzionale fra intelligenza logica e intelligenza emotiva, per cui al progredire della prima cala la seconda e viceversa… e Luke, come King dà occasione di mostrare, è tutt’altro che lento di sinapsi).

Le relazioni più profonde e significative nascono dalla comunanza nelle avversità, e la lotta impari cede parte del vantaggio alla speranza quando i deboli fanno fronte compatto contro un nemico comune…


L’amichevole degenera in finale da campionato mondiale

Con più di una riverenza alla serie Netlix Stranger Things, L’Istituto pretende di essere letto d’un fiato e promette una lettura coinvolgente, adrenalinica e angosciosa al tempo stesso. È facile, troppo facile voler bene a Luke, schierarsi dalla sua parte, dalla parte della giustizia. Stringere i denti quando si trova a sbattere su una porta chiusa, gongolare di piacere e sfregarsi le mani quando, al contrario, le porte in faccia le sbatte lui. È facile, e anche assai assurdo, avvertire l’orgoglio e la compassione che salgono a ondate dallo stomaco per il coraggio e lo spirito di ribellione con cui questi ragazzini affrontano difficoltà che ridurrebbero a gelatina le gambe di un adulto.

L’incipit del romanzo, diciamo le prime 50 pagine, è insolitamente pacifico e infonde un senso di calma che sotto la penna di King preannuncia fulmini da tempesta tropicale. Conosciamo Tim Jamieson, appena giunto, in cerca di una nuova esistenza, nella sonnacchiosa cittadina di DuPray (come Cabot Cove dimora di Jessica Fletcher, non la troverete sull’atlante). Lo abbandoniamo dopo alcuni capitoli in favore del punto di vista di Luke, che diventa predominante per tutto il resto del romanzo. Tim Jamieson è dunque un personaggio che si trova a lottare per una nicchia di trama, ma non sottovalutate il suo apporto. Nella botte piccola…

Da questo punto in poi della narrazione è come viaggiare in sesta costante e inchiodare – o trattenere il fiato – davanti agli ostacoli imprevisti. Come in qualsiasi partecipazione emotiva che si rispetti, si degenera facilmente in incitamenti da cori da stadio. Dai, Luke, dai che ce la fai. Complice uno stile in splendida forma, L’Istituto ti cattura (in senso metaforico) e ti costringe a non mollarlo più fino alla parola fine.


Fatta la spremuta, via l’arancia nel bidone dell’umido

Dietro alla facciata dell’Istituto c’è una popolazione di camici: dottori, medici specialisti, infermieri, tecnici di laboratorio, comuni impiegati, inservienti. Qual è la ragione dietro a un simile dispiego di forze? Perché tutto questo arruolamento di personale, questa cura maniacale per il dettaglio?

Che fine ultimo perseguono i test condotti nella Prima Casa, oltre a quello primo di potenziare i poteri paranormali dei ragazzi? Soprattutto, cosa succede fra le pareti inespugnabili della Seconda Casa? Che cos’è quel ronzio che si sente a tratti fuoriuscire da essa, cosa significa vedere i puntini?

Oh, quanto vorrei dirvelo, perché niente rende più felice il lit-blogger della condivisione dell’entusiasmo per un libro. Ma il lit-blogger avveduto sa che niente rende più inferocito il lettore di uno spoiler a tradimento, perciò non avrete altro bocconcino da me a parte la figura appena abbozzata di un alquanto ordinario Mr. Smith, come a milioni saranno registrati all’anagrafe statunitense, che sulle battute conclusive del romanzo solletica la nostra integrità con un quesito da far vacillare le ginocchia.


Quel nodo in fondo allo stomaco

L’Istituto è un romanzo realistico ed è il suo realismo a mettere paura. Non servono clown con chiostre di denti aguzzi per sentir camminare le formiche lungo la schiena: basta la realtà, il lato peggiore della razza umana cosiddetta intelligente. La buona letteratura è anche quella che pone al lettore domande scomode: è proprio il finale del romanzo, dolceamaro, a toglierci il tappeto da sotto i piedi rivoltando le nostre convinzioni come un calzino.

Ci impone di mettere in dubbio la nostra presunzione di essere sempre e inequivocabilmente seduti dalla parte dei giusti, dei retti, di quelli che hanno ragione perché “buoni”. Ci prende il viso tra le mani e ci costringe a guardare la nostra nemesi negli occhi, a chiederci se anche lei non abbia ragione da vendere. Siamo noi ad avere la verità in tasca o il punto di vista dell’altro può essere altrettanto valido? A spaventare non sono tanto gli esperimenti e le punizioni corporali cui vengono sottoposti questi giovani imberbi, quanto il ragionamento che sta dietro al sistema dell’Istituto. È già stato fatto, è già stato messo in pratica.

Fat Man fu sganciato sui cieli di Nagasaki per prevenire un conflitto che avrebbe messo in ginocchio un intero Paese. Ne abbatti dieci per preservarne mille. Da decenni, se non secoli, l’uomo sacrifica il diritto del singolo per il bene supremo di tutti. Così l’essere umano gioca a dadi come un dio: per vincere la partita, è costretto a selezionare dei pedoni da immolare. Che a rimetterci siano bambini poco importa, perché prima sarà un crimine e farà scalpore, seminerà indignazione, ma si ridurrà a sussurro e verrà infine declassato, depenalizzato e riconosciuto come un atto lecito e giustificato, un atto dovuto nel grande schema delle cose.

Alla fine i dubbi vengono anche ai più integerrimi fra di noi, e questo… questo sì che mette paura.


Per concludere

Dopo qualche uscita poco ispirata, King si risolleva con un romanzo che mostra ancora una volta come l’uomo sia il peggior nemico di se stesso.

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[Recensione] “Good Omens” di Neil Gaiman e Terry Pratchett

Sono caduta ad angelo in un’imboscata a opera della mia bacheca di Facebook. La serie Good Omens è sulla bocca, o meglio sulla tastiera, di tutti: come accedo al social network, i contatti mi propongono cascate di meme e fan art ispirati all’iconico duo. La curiosità ha avuto la meglio e ho finito anch’io per lasciarmi trascinare dalla corrente d’entusiasmo: non c’è niente di meglio di una serie che puoi macinare in un giorno (si compone di appena sei episodi) e che puoi sperimentare in altro formato come premio di consolazione per la sua brevità.

Perché Good Omens era, al principio, un libro benedetto dal Genio Divino.

Titolo: Good Omens (in precedenza “Buona Apocalisse a tutti!”)
Autori: Neil Gaiman e Terry Pratchett
Genere: fantasy/umoristico
Editore: Mondadori
Pagine: 381

Il mondo finirà sabato. Sabato prossimo. Subito prima di cena, secondo «Le belle e accurate profezie di Agnes Nutter, strega», l’unico libro di profezie assolutamente accurato al mondo, scritto nel 1655. Le armate del Bene e del Male si stanno ammassando e tutto sembra andare secondo il Piano Divino. Non fosse che un angelo un tantino pignolo e un demone che apprezza la bella vita non sono proprio entusiasti davanti alla prospettiva dell’Apocalisse… Ah, e pare anche che qualcuno si sia perso l’Anticristo. Metti insieme Terry Pratchett e Neil Gaiman… e si scatenerà l’inferno. In un modo fantastico. Già pubblicato da Mondadori con il titolo «Buona apocalisse a tutti!», «Good Omens» è ora una serie televisiva.


Good Omens: la recensione

Good Omens, aka La storia di come un equivoco salvò il mondo. Scritto a quattro mani da Neil Gaiman e Terry Pratchett (American Gods e la serie del Mondo Disco accendono qualche lampadina?), questo romanzo è pregno di quell’umorismo dell’assurdo che è valso alla Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams un posto nel mio cuore e in bella vista sulla mensola. Ordunque, umorismo inglese a parte, di che tratta?


L’umanità allora

Dei primi capitoli del Libro della Genesi abbiamo tutti sentito più o meno parlare: Eva, appena forgiata da una costola di Adamo, viene persuasa da un serpente a mangiare un frutto proibito dall’albero della conoscenza. Agli occhi di Dio, il morso alla mela si configura così grave da costare ai due umani l’estromissione perpetua dal giardino dell’Eden.

Good Omens si intrufola a questo punto della cronologia biblica: l’angelo Aziraphale, uno dei custodi delle porte del giardino, e il demone Crawly, il serpente tentatore di cui sopra, osservano l’umanità che muove i primi, stentati passi nel mondo mortale. Passati i convenevoli durante i quali i due fanno reciproca conoscenza, cominciano a chiedersi, nel libro come nella serie targata Prime: Non è stata una reazione un po’ esagerata, quella dei piani alti? Poi, proseguendo con le domande scomode: E se la faccenda della mela fosse stata la cosa giusta?.


L’umanità adesso

Avanti veloce di qualche secolo: l’uomo ha sopraffatto la natura, l’ha piegata al proprio volere, ha colonizzato l’intero pianeta Terra ed è riuscito a firmare coi suoi detriti anche la superficie della Luna. Aziraphale e Crawly, ora ribattezzato Crowley, si sono stabiliti fra i mortali, assorbendo le loro abitudini e nel contempo sondando il terreno in vista dell’Apocalisse predetta dalle Scritture.

Quando scatta il conto alla rovescia con la venuta in terra dell’Anticristo nella rosea e tozza figura di un neonato che verrà battezzato Adam da una coppia di ignari neogenitori, ad Aziraphale e Crowley casca metaforicamente il mondo addosso. Ma come?, si chiedono. L’Anticristo, proprio adesso?! La bella vita da aristocratici tra gli umani ha i giorni letteralmente contati: angelo e demone dovranno rientrare nelle rispettive fazioni per partecipare al più colossale scontro tra eserciti che l’universo abbia mai conosciuto.

Non c’è margine di opposizione, d’altronde. L’inferno ha già progettato tutto nei più infinitesimi dettagli, il piano per l’ascesa dell’Anticristo è a prova d’errore. Con la compiacenza dell’Ordine delle Chiacchierone di St. Beryl, suore cattoliche in via ufficiale, sataniste in via ufficiosa, il bimbo dovrà essere affidato alle cure di genitori attentamente selezionati e sarà dedito al Male sin dai primi vagiti nella culla. Il mondo finirà, che tutti gli oppositori lo vogliano o meno.

Ma com’è che si dice? L’errore, come la vita, trova sempre un modo…


Azi e Crowley, sistema binario e inseparabile di Good Omens

Prendo in prestito le parole di Albert Einstein e riformulo: è più facile spezzare un atomo della loro relazione.

Aziraphale e Crowley, si sarà capito, vogliono continuare a vivere serenamente sulla Terra. L’esistenza angelica nel mondo di sopra e quella demoniaca nel mondo di sotto sono troppo standardizzate, strutturate e monotone perché ne provino nostalgia. Gli esponenti dei loro partiti direbbero che si sono lasciati contaminare: vivendo fra gli umani ne hanno acquisito i vizi, i pregi, gli usi. L’esperienza li ha rimodellati a loro immagine e somiglianza. Aziraphale trova la realizzazione di sé collezionando libri rari, Crowley si tinge il pollice di verde e tappezza il suo appartamento di lusso con piante rigogliose. La Bibbia non è propriamente zeppa di angeli librai e demoni giardinieri… Aziraphale non è la quintessenza della bontà tanto quanto Crowley non è quella della malvagità. Ci si chiede: cos’è il bene, cos’è il male?

Entrambi, in una manifestazione di puro bromance, apprezzano una risata davanti a un tavolo apparecchiato per due al Ritz. La lunga permanenza sulla Terra li ha umanizzati, insomma, ma questo processo non li ha privati delle loro responsabilità in quanto esseri soprannaturali: volenti o nolenti, devono rispondere alla chiamata alle armi.

Al ruggire delle moto dei cavalieri dell’Apocalisse, i membri di inferno e paradiso lustrano le spade e alzano gli scudi. Sono pronti, sono agguerriti, sono impazienti di terminare un’attesa che dura da migliaia di anni. L’Apocalisse s’ha da compiere e non importa se la Terra si trova sul fondo del mortaio. La funzione della Terra nella grande scacchiera divina, d’altronde, è quella, appunto, di fare da scacchiera ai due eserciti che si scontreranno. Se poi la polvere si depositerà su un orizzonte di macerie e gusci anneriti dal fuoco, amen.

Ecco giungere, allora, la blasfema proposta. Siamo un angelo e un demone, cane e gatto, bianco e nero. Ma vogliamo la stessa, identica cosa. Deponiamo la finta ostilità (perché non c’è mai stata ostilità fra di noi, ammettilo, amico) e coalizziamoci per ostacolare i piani dei nostri superiori.

Una coalizione inaudita in tutto il regno dei cieli e in tutti i gironi dell’inferno! Per ostacolare i piani dei loro superiori, tuttavia, Aziraphale e Crowley devono prima localizzare l’Anticristo. Impresa spudoratamente semplice nella teoria, non altrettanto nella pratica… e tutto a causa di quel benedettissimo, maledettissimo equivoco.


“Quella checca del sud”, il nerd mancato e la moderna strega

Da soli, Aziraphale “checca del sud” e lo strisciante Crowley compongono un binomio di cui il romanzo non può fare a meno. E se il romanzo a loro sommasse un giovanotto un po’ imberbe e impacciato, uno squinternato cacciatore di streghe, una medium della domenica e l’ultima discendente di una lunga genealogia di fattucchiere? E se in questa schiera già traboccante di personaggi ce ne fossero altri, più giovani, splendidamente caratterizzati, che vanno in giro chiamandosi Them? Loro: Pepper, Brian e Wensley, inconsapevoli amici per la pelle del giovane Anticristo.

Da qui deriva il sottotitolo del romanzo, Le Belle e Accurate Profezie di Agnes Nutter, Strega. Un libro dentro a un libro, un libro di profezie così puntuali e azzeccate da essere stato stampato in un numero risicato di copie (a nessuno piace che gli si predica la data di morte, e piace ancora meno dietro pagamento). Quando una di queste stampe capita fra le mani di Aziraphale, l’angelo prima la riverisce, poi la passa al setaccio con la lente d’ingrandimento. E s’accorge che gli ultimi capitoli prima della fine del libro riguardano proprio l’Apocalisse imminente… come se dopo non ci fosse più nulla da profetizzare.


Anticristo tra predisposizione ed educazione

Aziraphale e Crowley non sono i protagonisti principali, per quanto possa sembrare strano stante ciò che si è scritto finora. Se nella serie di Amazon li troviamo sempre sul palco, questi due nel romanzo ricoprono il ruolo di “siparietto comico irresistibile”. Quello che voglio dire è che non sono funzionali alla trama, perché l’Anticristo avrebbe fatto comunque quello che alla fine ha scelto di fare.

È la forma più pura di libero arbitrio. Il romanzo stesso è un omaggio al libero arbitrio.

Per assolvere al compito affidatogli dalla nascita, si suppone che Adam Young, giovane Anticristo, debba incarnare il Male supremo. C’è un problema, però: in una rosa di personaggi dalle caratterizzazioni estreme, quasi caricaturali, Adam spicca per la sua normalità. L’Anticristo che cresce come un normalissimo ragazzo di periferia? Non si può sentire, eppure… La considerazione che se ne trae ancora una volta è che l’ambiente circostante plasma il carattere più della genetica.

Niente e nessuno è prestabilito. Un angelo non è intrinsecamente buono nella stessa maniera in cui un demone o l’Anticristo non sono intrinsecamente cattivi. Aziraphale e Crowley scelgono di disertare, mentre Adam Young… be’, lo scoprirete leggendo. Si può scegliere di non scegliere. Siamo tutti il prodotto di influenze esterne solo in minima parte perturbate dal nostro corredo genetico.


Good Omens va oltre lo humour

Good Omens è una storia ricca di simbolismi: l’animo ecologista fronteggia la nuova corona del Cavaliere dell’Inquinamento destinato a dominare sul nostro pianeta; la bilancia diventa il nuovo vessillo di Carestia. Mentre scrivo, c’è chi sta ingurgitando il terzo doppio Cheese Burger e c’è chi nei sobborghi di Manila sta rifriggendo il pagpag dell’altra sera. Poco fa girava su Facebook una foto del National Geographic ritraente una cicogna intrappolata in un sacchetto di plastica trasparente.

Attraverso l’uso della terza persona onnisciente, Pratchett e Gaiman ci affidano una storia dove a decretare la vittoria sarà l’unione che fa la forza, il gruppo che resta compatto, l’amicizia che tiene i ranghi serrati. A voi la linea e il piacere di leggere questo libro.


Per concludere

Se avete amato Douglas Adams, Good Omens è un acquisto da farsi a scatola chiusa.

Stellina per recensioni.
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La lepisma libraia