[Recensione] “Quattro. Il risveglio” di Luca Farru

Copertina di Quattro. Il risveglio.

Preambolo necessario: ringrazio di cuore Luca Farru per avermi inviato una copia digitale di questo libro in cambio di una recensione onesta. Chi volesse fare richiesta di recensione può consultare questa pagina.

Buon inizio di settimana, cari lettori! State assorbendo il rientro dalle ferie o la malinconia da post-vacanza, come dicono oltreoceano? La lepisma ha trascorso una settimana a rinfrescarsi i polmoni e a mirar le stelle in quel dell’Appennino settentrionale e ora si ripresenta in gran forma – psicologicamente e letteralmente parlando, stante le numerose abbuffate d’ogni sorta – con una nuova recensione. Diamo un’occhiata ravvicinata a Quattro. Il risveglio, il debutto di Luca Farru nel filone della narrativa urban fantasy.

 

Quattro. Il risveglio.

Titolo: Quattro. Il risveglio
Autore: Luca Farru
Genere: urban fantasy
Editore: Youcanprint (autopubblicato)
Pagine: 334

Sinossi

Per cinquecento anni, il mondo sovrannaturale e quello degli esseri umani hanno vissuto in armonia. Il regno dei guardiani ha garantito stabilità e giustizia a tutte le sue fazioni, ma l’equilibrio sembra d’un tratto interrompersi e le paure legate al passato riemergono impetuose. Le forze oscure sono riuscite a scalfire il più potente incantesimo della storia del mondo magico, ed hanno come obiettivo ultimo quello di risvegliare il loro padrone, Serafyn, per riprendere il suo piano diabolico da dove è stato interrotto.

Rose, Sybil, Matt e Cody sono quattro sconosciuti apparentemente ordinari, vivono le loro esistenze spensierati in zone diverse del mondo e non hanno la minima idea di cosa sta per travolgerli. Scopriranno di essere legati indissolubilmente l’uno all’altra in modo inquietante, e di essere gli ingranaggi fondamentali di un terribile destino comune dove l’oscurità è protagonista. In questa intensa avventura, non potranno fidarsi di nessuno, a volte nemmeno di loro stessi, e lotteranno insieme per evitare che il mondo intero finisca nelle mani dei demoni. Il Risveglio racconta della prima parte del loro viaggio; li conosceremo, ci affezioneremo, incontreremo un sacco di altri personaggi interessanti ed arriveremo in men che non si dica all’ultima pagina, con un colpo di scena che ci lascerà senza parole. Cosa ne sarà del loro futuro?

Voto: 1/2

 

Quattro: la recensione

Cosa fareste se dall’oggi al domani vi ritrovaste un marchio sconosciuto tatuato sul corpo? Le alternative sono due: o ignorate o indagate. Dai loro rispettivi alloggi a Singapore, Milano, New York e Vancouver, i nostri quattro ragazzi Sybil, Rose, Matt e Cody vorrebbero che si concedesse loro il beneficio del dubbio, così come viene permesso a noi normali esseri umani, ma la verità è che l’istinto di sopravvivenza li ha già costretti a svegliarsi dai sogni a occhi aperti dei periodi ipotetici per prendere una decisione che condiziona per sempre le loro vite.

Quando le forze demoniache minacciano ancora una volta di prendere il sopravvento, infatti, in palio c’è il destino del mondo tutto e loro sono i prescelti per salvarlo… o condurlo a definitiva distruzione. Come i ghepardi acquattati fra le sterpaglie che aspettano solo che la gazzella ignara abbassi il collo per ruminare, i demoni covano nell’ombra in attesa dell’occasione propizia per attaccare. Se non vogliono cominciare a brucare l’erba dalla parte delle radici, i nostri ragazzi dovranno scattare con più prontezza dei loro inseguitori.

Ma perché è stata bandita questa caccia all’uomo?

 

La forzata immobilità di Serafyn deve finire

Con l’anima spezzata in quattro da un incantesimo che lo ha costretto in stato di quiescenza, Serafyn attende il momento della propria rinascita. Da secoli le forze demoniache a lui sottoposte hanno cercato una breccia nel sortilegio, e ora che l’hanno trovata si stanno ricompattando in vista di liberare il loro padrone. La chiave della cella? Quattro pezzi d’anima in quattro giovani ospiti inconsapevoli da rintracciare, braccare, sacrificare. Quattro personaggi che devono imparare a convivere con il mondo soprannaturale al quale ignorano di appartenere

 

“Dagli al personaggio!”

… disse Lepisma e brindò alla salute di Luca Farru. Che sforni dieci, cento, mille altri romanzi in cui ai protagonisti si riservino i peggiori scenari che fantasia possa concepire.

Sono seria.

La penna di Farru è spietata. Non tratta i propri figli con guanti di velluto, come se fossero delicati soprammobili in resina da spolverare con un pennello a setole morbide (ne so qualcosa), ma li salva dall’olio bollente della padella per buttarli nel nucleo incandescente della fucina di Nidavellir.

Non c’è, insomma, alcun deus ex machina che assicuri loro un lieto fine. Sybil, Rose, Matt e Cody devono fare fronte comune e cavarsela da soli, perché dall’autore non ricevono, com’è giusto che sia, mani salvifiche che facciano il lavoro sporco al loro posto. Dovranno sudare e soprattutto correre, correre come la lepre che affida la propria sopravvivenza ai muscoli delle sue zampe.

E scopriranno, malgrado il loro aspetto da ordinari esseri umani, di nascondere ben più di un aculeo sotto la pelle fragile…

 

Cattivi matricolati

Per ogni personaggio bastonato ci dev’essere, di riflesso, un personaggio che lo bastona (a meno che detto personaggio non soffra di autolesionismo, ma quella è un’altra storia).

I demoni di Quattro. Il risveglio non scherzano, né si sottraggono alle manifestazioni di violenza più abiette. Quello che promettono, mantengono fino in fondo.

La violenza, d’altronde, definisce i meccanismi di potere del loro stesso mondo: mentre la regina Melania governa i guardiani nel rispetto di tutte le creature, la strega Gaia, in via temporanea assurta al comando in seguito alla discesa nell’oblio di Serafyn, tiene unite a sé le folle del sottomondo demoniaco imponendosi con il terrore: chi anche solo commenta le sue strategie è un demone morto.

E va benissimo così! Fatti, non parole!

Senza esagerare, però…

 

Stile adrenalinico

Lo stile di Quattro. Il risveglio è di quelli da tenere il fiato sospeso senza soluzione di continuità. In pratica, è lo stile che, entro un certo limite, più si confà alla narrativa di genere fantasy.

Trovo, però, che un eccesso di azione a discapito di passaggi più riflessivi sia controproducente. Un’azione caratterizza i personaggi tanto quanto una riflessione. Non ci sono, in tutto il libro, momenti in cui i personaggi possano davvero tirare un sospiro di sollievo e concedersi un minuto per sedersi e stare a pensare. Il gran finale risulta indebolito perché il libro è un unico, continuo climax. Avete presente il detto “la calma prima della tempesta”? È il grado di contrasto fra il prima e il dopo, il cambio di rotta repentino, che determina l’impatto emotivo di un’azione: un fulmine a ciel sereno fa trasalire molto più di quanto non faccia un lungo temporale. Perfino dopo le burrasche più devastanti e le onde più anomale segue sempre una fase di bonaccia, perché il cielo possa ricaricarsi di nuova elettricità… e via che riparte il cerchio.

Anche i cuori dei nostri eroi galoppano come cavalli imbizzarriti.

 

Amori che decollano in verticale

Come lo Space Shuttle.

La cinica che è in me tende a storcere un po’ la bocca quando si racconta di rapporti amorosi che divampano come una pozzanghera di benzina innaffiata da un getto d’alcool. Non sto negando l’esistenza di quelle cotte istantanee battezzate con un significativo “colpo di fulmine”, ma ritengo che un faccino piacente o una simpatia a pelle non siano ragioni sufficienti a instaurare rapporti profondi e potenzialmente duraturi come quelli presentati in Quattro. Il risveglio, per i quali basta un contatto visivo a scatenare la scintilla.

Ancora una volta, i personaggi – le loro interazioni – soffrono di una cifra stilistica che sacrifica qualsiasi pausa introspettiva per dare spazio a scene d’azione dove è bandito ogni pensiero. Sono, in definitiva, poco caratterizzati.

Ritengo, in ogni caso, che uno stile immediato e spartano sia sempre e comunque preferibile a un linguaggio prolisso e artificiale più orientato a infiocchettare che a raccontare.

 

Per concludere

Un promettente esordio dallo stile asciutto e conciso, con qualche magagna che non gli leva la piena sufficienza e con cattivi che sanno fare il loro mestiere. Un occhio di riguardo al target di lettura, perché non scenda al di sotto dell’età young adult: descrive atti brutali che potrebbero turbare lettori più giovani.

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La lepisma libraia

[Recensione] “The Testament of Loki” di Joanne Harris

The Testament of Loki (pubblicato in originale questo 17 maggio, titolo in italiano non ancora disponibile) prende il testimone de Il canto del ribelle, di cui trovate qui una recensione, e chiude la distanza che lo separa dal sequel Le parole segrete, pubblicato qualche anno fa. È, insomma, un sequel al prequel. E l’ho aspettato per mesi. Valsa è l’attesa? Leggete oltre per scoprirlo!

Titolo (inglese originale): The Testament of Loki
Autore: Joanne Harris
Genere: fantasy/young adult
Editore: Gollancz
Pagine: 320

Il Ragnarök è stato la Fine dei Mondi.
Asgard è caduta secoli or sono e gli antichi dèi sono stati sconfitti. Alcuni sono morti, altri sono stati affidati all’eterno tormento nel mondo dell’oltretomba. Fra di loro c’è Loki, l’ingannatore per antonomasia. Un dio che ha tradito ogni alleato e che ha comunque perso tutto, che è stato dimenticato con il passare del tempo. Nel mentre, il mondo degli umani ha volto l’attenzione verso altre fedi, nuovi idoli e nuove divinità…
Ora, però, la razza umana ha ripreso a sognare gli dèi norreni. Il fiume Sogno è a un tiro di schioppo dalla loro cupa prigione e Loki è il primo a fuggire verso questa nuova realtà.
Il primo, ma non l’unico. Altre e più oscure figure sono scappate insieme a lui, figure che mirano a distruggere tutto quello che lui desidera. Se vorrà reclamare ciò che è andato perduto, Loki avrà bisogno di alleati, di un piano e di un numero consistente di trucchetti…


The Testament of Loki: la recensione

Il Ragnarök ha raso al suolo quanto costruito dagli dèi in secoli di influenza. Nel purgatorio senza tempo dove tutti loro sono sprofondati, una bolla di non-esistenza sulla falsariga del limbo di Inception, Loki giace ancora una volta in catene insieme a un serpente – suo figlio Jormungandr, tanto per cambiare – e non può dire di averci fatto il callo. Così, nell’oscurità totale, trascorre il tempo – saranno giorni, mesi, secoli? – a sognare una luce in fondo al tunnel da cui ogni tanto si affacciano guizzi dei mondi esterni. Gli dèi norreni sono sopravvissuti, infatti, se non in carne e ossa, in concetti riportati in videogiochi e saggi letterari: La gente pensa, dunque gli dèi sono.

Quando Loki infine la intravede, questa luce più stabile delle altre, e la insegue, nulla gli dà da pensare che l’altro capo del varco possa risputarlo nello scenario renderizzato di un videogioco (Asgard™) e nella mente di una diciassettenne inglese dei giorni nostri


Violazione di domicilio biologico

Il quesito primo, nel venire a conoscenza, qualche mese fa, di questa nuova pubblicazione della Harris, è stato: che altro c’è da raccontare? Il canto del ribelle (che per me, disconoscendo la traduzione ufficiale, è e rimarrà sempre Il vangelo di Loki) ha calato il sipario sul Ragnarok, scavando nella miniera della mitologia norrena ed esaurendo la sua vena di materiale.

In The Testament of Loki, infatti, si abbandonano gli scenari eterei della città del cielo per scendere alla mondanità dell’adolescenza young-adult. Jumps, la nostra co-protagonista nonché ospite coatta della divinità summenzionata, conduce la tipica vita di una diciassettenne: casa, liceo, qualche attrito parentale e autostima sotto i piedi.

Loki si autoinvita nella sua coscienza alla vigilia di un esame di letteratura inglese e non pone tempo in mezzo per rivoltare la vita della ragazza come un calzino. Un completo restauro estetico qui, un prelievo di sangue alla carta di credito là… D’altronde, è il caos fatto persona: dove passa lui, l’uragano Katrina piega il ginocchio e alza bandiera bianca.


Il Libro delle Facce e l’inspiegabile ossessione per le decalcomanie

“Ah, questo è un cellulare. Che sono quelle finestrelle colorate? Uh, si chiamano… icone? E quello? Il libro delle Facce. Ehi, ho fame. Tu hai fame, cioè. Perché non andiamo a mangiare? Frigorifero. Oh, ma i pinguini sul tuo pigiama hanno un significato particolare? Mi continua a balenare in mente questa parola, frigorifero. Cos’è un frigorifero, me lo spieghi, Jumps? E perché nel tuo (nostro) catalogo mentale c’è questo teschio con ossa incrociate su ogni cosa etichettata come cibo?”

Diciamocelo, non è la più gradita delle presenze.

Secoli di sensazioni incorporee e alquanto sgradevoli lo hanno affamato al di là di qualsiasi possibilità di saziarsi. Già ne Il canto del ribelle abbiamo letto il suo punto di vista come quello di una persona affezionata ai piaceri della carne e dei sensi, e ora che il corpo di Jumps lo affaccia all’esplorazione di un nuovo ed entusiasmante mondo, il desidero di fare tutto e subito lo investe come l’impatto di una colata di cemento. Ma Jumps, la sua giovane ospite, non è esente da una rosa di problematiche personali e questo nuovo peso sul groppone rischia di spezzarle le caviglie…


Qua la zampa, Thor!

Loki pensa, dunque, di poter fare quello che gli pare. È sicuro di sedere al vagone di testa, di essere stato il primo, il più furbo, a rompere le catene del limbo. Ma non è così: da tempo non quantificabile, infatti, Odino ha già avuto modo di insediarsi fra le sinapsi di Evan, ragazzo coetaneo a Jumps a cui manca un occhio e forza nelle gambe (sembra proprio che Odino sia afflitto da una maledizione che gli impedisce di apprezzare il senso della vista in tre dimensioni). Anche Thor trova una sistemazione degna della sua caratura nella testa di un candido cagnolino. E a scuola, codazzi di adolescenti sbavanti seguono la scia di feromoni che Freya, la dea dell’amore di tempi andati, si diffonde alle spalle nel corpo di una delle ragazze più attraenti dell’istituto…

Insomma, vuole il caso che il nostro divino ingannatore sia atterrato in una cittadina ad alta densità di divinità norrene.

Raccolta di libri sulla mitologia norrena.
Alla lepisma piacciono i miti norreni. Si nota?

Un gatto che non è né morto né vivo

Quando Loki pensa di potersi dare alla pazza gioia assumendo (reclamando con la forza) il controllo del corpo di Jumps, Odino, incarnatosi in Evan, gli impartisce una lezioncina di fisica quantistica: occhio, dice, che noi in questo mondo siamo come il gatto di Schrödinger. Né morti né vivi, solo coinquilini abusivi di appartamenti che prima o poi saremo costretti a restituire per intero ai legittimi proprietari.

Ecco, allora, che Odino illustra il suo piano, non senza qualche opportuna omissione: insieme alla caduta del loro mondo si sono sgretolate anche le rune del potere di cui gli dèi erano detentori, ma una nuova profezia annuncia l’avvento di nuove rune. Queste nuove rune sono la chiave per la risurrezione completa degli dèi e della potenza di Asgard.

In sostanza: Posa quel gin tonic, Loki, ché mi serve il tuo aiuto. Le rune, però, sono artefatti magici potentissimi. Stuzzicano l’ambizione di molti, di Odino in primis. Di un’entità a lungo dimenticata, in secundis. E Loki è il sempiterno Caotico Neutrale che non si schiera da nessuna parte…


Loki, il narratore per eccellenza

The Testament of Loki ripropone gli stessi difetti de Il canto del ribelle: Joanne Harris preferisce la narrazione passiva, nella quale Loki/Jumps riporta i fatti in un tempo successivo al loro svolgimento e svela la rete di piani e macchinazioni quando siamo ormai in zona Cesarini.

Nelle giuste dosi, l’attesa della rivelazione è un espediente letterario da pollice in su se retto da uno stile coinvolgente, perché, come nei migliori romanzi gialli, alimenta la nostra curiosità e ci invoglia a voltare pagina. Se invece si tratta di tenere il lettore sulle spine, centellinando le spiegazioni da dargli al contagocce, per poi distribuirle con la parsimonia di Ebenezer Scrooge mentre noi stiamo qui sotto trepidanti, manco fossimo fan di Justin Bieber, col collo in aria e la bocca a pesce morto, che attendono lo sputo di infodump dal balcone… ecco, così diventa una fonte di frustrazione, perché ci sentiamo un po’ l’ultima ruota del carro.


Raccontare prima, spiegare dopo

Lo stile della Harris, insomma, si rivolge al lettore solo a cose compiute e gli parla per riassunti, al punto che i personaggi di sfondo sono poco più che sagome dai contorni sfocati. Disordini psicologici da far surriscaldare il cervello a fior fiori di specialisti si curano con la retorica da banco di Lucy van Pelt. Gli interessi amorosi sono resi tutti al raccontato, descritti come improvvisi colpi di fulmine che fanno deragliare il nostro protagonista fuori dai binari di caratterizzazione su cui siamo abituati vederlo scorrere. Sarà l’influenza dell’umanità di Jumps, sarà la condizione da mortale… questo Loki è disinibito e impulsivo, preda delle emozioni come non lo abbiamo mai visto, ed è un’emotività un pochino Out Of Character.

In ogni caso, la voce di Loki può esser salita di qualche ottava al di fuori, ma alle orecchie di noi lettori si ripresenta irriverente e grondante di ironia. Ho trovato appropriate le sue reazioni – affatto scioccate – nel prendere coscienza di stare abitando un corpo da doppio cromosoma Y, ed esilaranti le sue gaffe che paiono strizzare l’occhio all’ingenuità del Thor di Chris Hemsworth alle prese col mondo moderno. Ma questo è il Loki della mitologia norrena come Snorri lo ha tramandato e ci vuole molto più di un frigorifero per disorientarlo…

L’idea di partenza, in sintesi, è GENIALE ma sprecata. E non c’è nulla di più insoddisfacente della genialità sprecata!


Per concludere

È come una doppia porzione di gelato alla vaniglia: divori la prima metà come se non avessi mai mangiato, l’altra metà devi sforzarti di ingollarla meccanicamente perché non capisci più che sapore abbia e speri che finisca presto. Mezza stellina in più, per un totale di quattro, se l’ultima pagina non avesse messo il punto su un finale aperto dal retrogusto, spiace dirlo, di operazione commerciale.

Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.
Mezza stellina.

La lepisma libraia

[Recensione] “Braccati” e “Verso Jannar” di Eleonora Pescarolo

Copertina di Braccati di Eleonora Pescarolo.

Preambolo necessario: ringrazio di cuore la casa editrice Adiaphora Edizioni per avermi inviato una copia digitale di questi libri in cambio di una recensione onesta. Chi volesse fare richiesta di recensione può consultare questa pagina. La lepisma non morde (non troppo, almeno): fatevi avanti! 🙂
Quest’oggi vi porto tra le profondità glaciali del Deep Space con Braccati, un’opera di fantascienza nostrana in coppia con il racconto breve Verso Jannar. Vediamoli assieme!

 

Titolo: Braccati
Autore: Eleonora Pescarolo
Genere: fantasy/sci-fi
Editore: Adiaphora Edizioni
Pagine: 198
Serie: Cherry Fox, #1

Sinossi di Braccati

La Caccia alla Volpe è di nuovo aperta.
Dopo tre anni di apparente quiete e inosservato contrabbando, Ireen Devar fugge a bordo della Ruvak assieme al copilota Korrar Tammon, nel disperato tentativo di proteggere ciò che in mani nemiche potrebbe far risorgere la tirannia nella Galassia.
La Sirena di Jannar.
Il cristallo alieno da sempre al centro di miti e complotti.
Il passato, però, non dà loro tregua. Un tormentato passato di schiavitù e soprusi, di perdite e addii. Un passato da cui risorge la figura della Cacciatrice di Schiavi Calhar Redna, sadica e inarrestabile, e l’incubo dell’esplosione che ha dilaniato corpo e anima dell’astronave Ruvak.
Un passato di tradimenti, come quello architettato da Nardim, un tempo amico e ora spietato omicida votato al folle Culto di Gaanar.
La ragione di ogni cosa sembra risiedere nel DNA di una creatura ambigua, aliena e incredibilmente potente: un’adolescente di nome Nouv’al.
La Caccia alla Volpe è aperta e Ireen Devar dovrà tornare a combattere.

Voto:

Il racconto prequel

Verso Jannar,Titolo: Verso Jannar
Autore: Eleonora Pescarolo
Genere: fantasy/sci-fi
Editore: Adiaphora Edizioni
Pagine: 24
Serie: Cherry Fox, #0

Sinossi di Verso Jannar

I racconti speciali da collezione contengono momenti inediti della saga Cherry Fox, per scoprire antefatti sorprendenti sui personaggi della serie di romanzi attualmente in corso di pubblicazione.

 

Braccati: la recensione

Quali cambiamenti interesseranno la razza umana da qui al prossimo millennio? Getteremo finalmente luce sul mistero della massa invisibile dell’energia oscura? Entreremo in contatto con civiltà all’infuori del Sistema Solare? E che ne sarà del progresso sociale? Andrà di pari passo con quello tecnologico o, come nelle più fosche previsioni di Einstein, combatteremo una terza guerra mondiale a colpi di clave e lanci di sassi?

Nel suo romanzo Braccati, primo libro della serie Cherry Fox, Eleonora Pescarolo dimostra di avere le idee ben chiare sul futuro dell’umanità e su come si conquista il lettore dal Capitolo Uno alla parola Fine.

 

Schiavitù legalizzata

Nell’anno 1522 del Calendario Galattico, gli umani hanno da tempo abbandonato la presunzione di essere gli unici occupanti del cosmo e instaurato relazioni con le razze aliene con cui sono venuti a contatto. Tuttavia, lo sviluppo tecnologico e quello sociale viaggiano su valori inversamente proporzionali. Alla produzione di massa di navicelle per viaggi interstellari, infatti, si associa un clima sociopolitico in cui le stesse razze umanoidi della galassia sono diventate merce di scambio per pochi ricchi influenti. E gli umani puri, quelli il cui corredo genetico non si è mai incrociato con organismi compatibili, sono una mercanzia fra le più ambite.

È la nuova, endemica tratta degli schiavi.

 

Chi sono i braccati

Ireen Devar e Korrar Tammon portano impresso, sulla schiena e nella mente, il prezzo di questa involuzione. Sono loro i braccati del titolo, due cani con pedigree scappati dal loro recinto. Di razza bashara lei e umana lui, sono, per i commercianti di schiavi, dei golosi lingotti ambulanti verso cui è naturale stornare gli sguardi. Liberatisi di propria iniziativa dal guinzaglio del padrone, da tre anni sopravvivono in clandestinità dedicandosi al contrabbando nei bassifondi degli spazioporti.

Ma il padrone vuole indietro la sua proprietà. Vuole un collo con cui riempire quei collari vuoti. Remoti sono i tempi in cui si affiggevano volantini sui tronchi d’albero per ricercare i fidi compagni scomparsi: ora si assoldano i Cacciatori di Schiavi. A loro il compito, con la carota o più spesso col bastone, di ricondurre il gregge smarrito dal suo pastore.

Dopo tre anni di relativa libertà, Ireen e Korrar incrociano la strada con una bambina, un’ibrida umana dai poteri inconcepibili. E insieme a lei resuscitano spettri di un passato che pensavano di essersi lasciati alle spalle. Ignari delle fauci spalancate verso cui si stanno lanciando a bordo della loro nave, Ireen e Korrar devono cercare di venire a capo del mistero che sembra collegare questa prodigiosa bambina alla leggendaria Sirena di Jannar.

 

Ireen, indipendente Ireen

Le condizioni della vita in schiavitù, Ireen, l’umanoide sulla fantastica copertina, proprio non le regge. La sua coscienza d’acciaio non tollera manipolazioni esterne, né approva che ci si metta a giocare con la sua Ruvak, la nave con cui solca il vuoto dell’iperspazio insieme al secondo in comando Korrar. Da nullatenente a proprietaria di un’intera navicella: è lei la regina incontrastata di questo territorio, e poco importa che sia stato assemblato da pezzi di ricambio di seconda mano. La Ruvak è sua, come suo è il diritto di vivere lontano dall’oppressione di un collare sul collo.

Ireen, insomma, si preannuncia, fin dalle prime righe in cui entra in azione, una donna con attributi ben caratterizzati. Preferisce soccorrere invece di essere soccorsa, impreca senza tanti complimenti, fronteggia gli imprevisti a testa alta e con la mano ferma a stringere il calcio di una pistola al plasma. Ma ha anche dei vizi: non rubatele le sigarette, se vi preme la vita. Lasciate che alle paternali sui danni del tabagismo ci pensi il più mite Korrar, deciso a ripulirsi l’agenda da un passato di scelte discutibili.

Bastano poche pagine, insomma, per affezionarsi a loro e tifare per la loro squadra.

 

Conflitto, introspezione e azione nelle giuste dosi

Calhar Redna, la Cacciatrice di Schiavi, non è una sprovveduta come Wile Coyote: è esperta nell’avvicinare la preda e portare a termine la commissione per il cliente/padrone. Soprattutto, è un tipo di nemico che ha le qualità, come anche Nardim, il suo sgradito partner di caccia, per dare filo da torcere ai nostri protagonisti. Altrettanto scaltra, meglio attrezzata e determinata a incassare il gruzzoletto di missione compiuta, la sua è una battuta di caccia dove le distanze si accorciano inesorabilmente. Ogni capitolo è introdotto da coordinate spaziali e temporali e con un rapido calcolo ci accorgiamo che braccanti e braccati sono sempre più prossimi allo scontro. E più vediamo Ireen cedere terreno, più vorremmo avvertirla di guardarsi le spalle, perché i persecutori sono ben più vicini di ciò che lascia intendere lo specchietto retrovisore.

Lo stile va sempre dritto al punto, cede dettagli al giusto ritmo per mezzo di flashback e introspezioni e non si perde in sottotrame secondarie che esulano dall’arco narrativo principale. Talvolta mostra, altre volte racconta, com’è giusto che sia, e gestisce sapientemente più punti di vista senza saltare come una pulce da un personaggio all’altro nell’arco dello stesso paragrafo.

L’incipit è di quelli in media res, che ti abbrancano per la collottola e ti trascinano fin da subito nel mezzo dell’azione. Poche tirate di fiato per i nostri protagonisti e tanta worldbuilding per noi lettori! Il finale aperto appaga l’appetito e al contempo si riserva di trattenere abbastanza informazioni da stimolare le ghiandole salivari in vista del futuro sequel.

 

Uno spiraglio su Verso Jannar

Identificato come libro #0 della serie, Verso Jannar è un breve racconto che si consuma appena prima che gli eventi di Braccati aprano le danze e che fa chiarezza su alcune questioni rimaste in sospeso alla fine di questo volume. Per la fitta presenza di riferimenti, consiglio di leggerlo dopo essere già entrati in confidenza con Ireen e Korrar nel libro #1.

 

Per concludere

Un inizio col botto. Per la salute delle mie cuticole già parecchio tormentate, spero uscirà presto il secondo volume.

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La lepisma libraia

[Recensione] “Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta” di Angelica Rubino

Copertina di Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta.

Primo preambolo: ringrazio di cuore Angelica Rubino, l’autrice di Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta, per avermi inviato una copia digitale di questo romanzo in cambio di una recensione onesta. Chi volesse fare richiesta di recensione può consultare questa pagina.

Secondo preambolo: spero abbiate trascorso delle buone feste e vi siate concessi una colossale scorpacciata di cioccolato, colomba e cannoncini. Che l’ago della bilancia sia con noi fino al prossimo Natale.

Terzo preambolo… stop ai preamboli, discutiamo del libro!

 

Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta.

Titolo: Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta
Autore: Angelica Rubino
Genere: fantasy per ragazzi
Editore: Apollo Edizioni
Pagine: 172

Britannia, anno 999. Il giovane Jeremy aspira a diventare un prestigiatore alla corte del re per sostentare la famiglia. Quando si presenta l’opportunità di accompagnare un cavaliere fino a Flourshing, centro nevralgico della monarchia, Jeremy si affretta a far fagotto e lascia il tranquillo villaggio natale di Adalama per inseguire nuovi orizzonti. Determinato a ottenere un ingaggio come giullare, Jeremy farà la conoscenza di molti personaggi e si ritroverà coinvolto in un’avventura imprevista che richiederà doti non comuni in un ragazzino della sua età. Re Deathproof, infatti, incarna i peggiori difetti dell’animo umano e cova intenti inquietanti: è alla ricerca del Melon, un manufatto celtico con proprietà in grado di conferire vita eterna. Quando allaccia un legame di amicizia con Kamila, la vera erede al trono ridotta in schiavitù dal re abusivo, lo spirito nobile di Jeremy non trova più requie: occorre ostacolare i piani di re Deathphoof a ogni costo.

Voto:

 

La recensione

Ambientato in una Britannia sospesa tra realtà e fantasia dove le fate si confondono tra la razza umana, Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta è un romanzo che condanna, con parole semplici e dirette, l’ingiustizia e la disuguaglianza sociale.

Il bienno 999-1000 è stato testimone della fervida immaginazione di stampo catastrofista della gente del Medioevo. Si temeva, infatti, che allo scoccare del secondo millennio una serie di calamità naturali avrebbe distrutto la Terra e annientato tutta la vita sulla sua superficie. In questo scenario dai toni apocalittici si muovono i nostri protagonisti: l’anziana nonna nonché fata in incognito Juliana, i due giovani fratelli Jeremy e Janeka, il cavaliere Sam, il tiranno re Deathproof, la gentile Kamila e la coccolatissima e viziatissima figlia del re, Cordelia (che fa rima con Crudelia De Mon – un nome, una garanzia).

Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta riesce a disporre sulla scacchiera delle pedine ben sagomate e subito classificabili per colore. In questo tavoliere quadrettato come nella vita vera, non manca la presenza di una zona grigia in cui schierare i personaggi ambigui e in bilico tra forze opposte.

Una menzione particolare va ai membri del popolo celtico. È confortante sapere che ci sia ancora qualcuno che non attribuisce la paternità di Halloween agli americani. Angelica Rubino integra le tradizioni celtiche conosciute con altre, come la leggenda del Melon, concepite di proprio pugno. Visto come simbolo di prosperità e immortalità, il melo era davvero un albero sacro nella loro cultura. Può darsi che l’assonanza sia una coincidenza, ma a me piace pensare che queste allusioni siano frutto di ricerche.

 

Tanta cultura celtica, troppe feste

La trama tende un po’ a deviare per le strade secondarie di eventi accessori quali feste di compleanno e di Halloween. Se anche ho apprezzato molto il lavoro di studio sulle tradizioni celtiche, non è a Ognissanti che è intitolato il romanzo. A tratti pare che i nostri eroi siano più impegnati a imbellettarsi e sistemarsi i canini posticci che a sventare i piani di quel despota di re Deathproof.

L’impressione, insomma, è che il romanzo manchi di struttura e che i capitoli siano stati scritti d’istinto senza l’ausilio di una scaletta a prevenire deragliamenti di intreccio.

Le situazioni conflittuali non vengono sfruttate a dovere. Nei primi capitoli assistiamo a un dialogo tra Jeremy e sua madre: lui ha le formiche ai piedi dal desiderio di partire per la corte del re, lei avanza un inutile tentativo di metterlo in guardia dall’abitudine del sovrano di decapitare i giullari che non incontrano i suoi gusti artistici. Ma Jeremy è irremovibile e pronto a scommetterci il collo.

Qual è stata la mia reazione immediata? Mi sono sfregata le mani in previsione di vedermi somministrare una massiccia dose di conflitto: ce la farà Jeremy a farsi assumere o perderà letteralmente la testa? Accidenti, che posta in gioco, ora voglio proprio vedere come si tira fuori dal ginepraio! A dispetto delle mie rosee aspettative, tutto questo potenziale si è dissipato in poche righe:

Ecco, adesso era il suo turno.
“Ce la puoi fare, Jer” pensò fra sé aspettando che il re lo chiamasse dinanzi a lui per farlo esibire. Quando accadde, sentì un vento gelido attraversare il suo corpo ed entrargli nel sangue.
«Hai bisogno di qualcosa maghetto?» rise Deathproof.
A lui quel riso non piacque e si sentì imbarazzato.
«Sì, mi servirebbe un mazzo di carte» rispose.
[…]
Jeremy prese due carte e le mostrò al pubblico, dopo di che invitò Cordelia a inserirle nel mazzo in posizioni diverse e distanti fra loro. Lei lo fece. A quel punto lui disse di essere in grado di ritrovare le due carte semplicemente lanciando il mazzo in aria e…ci riuscì. Cordelia applaudì divertita e Deathproof si alzò in piedi per rendere omaggio l’artista. Daron tirò fuori dal baule il costume da giullare.

Fin.

Il protagonista che ha vita difficile ci calamita al libro, mentre un romanzo privo di contrasti è la quintessenza della noia. Parola d’ordine: conflitto. In un vecchio manuale di scrittura (il cui titolo sta attualmente giocando a nascondino nell’archivio dati della mia memoria…) si consigliava di seguire il detto “dalla padella nella brace”. Elevare i pericoli al quadrato invece di estrarne la radice, non lesinare cattiverie ai danni dei personaggi. Facciamoli tribolare per ottenere il loro lieto fine! Cosa sarebbe successo se Jeremy avesse indovinato solo una delle due carte?

In ogni caso, la storia di fondo è ricca di spunti di riflessione. Possiamo interpretare l’abisso di benessere tra il popolino e il re, tra chi sta alla base e chi alla sommità della piramide sociale, come un riflesso delle moderne classi di chi governa e chi lavora, dell’uno che frega e del milione che viene fregato. Ne servirebbero, di Jeremy! Nonostante il romanzo intrecci elementi del filone fantasy, quali le fate, appunto, ad altri che affondano radici nella Storia del nostro mondo, la tematica che affronta è più attuale che mai: sul trono che spetterebbe all’animo virtuoso siede, molto più spesso, il corrotto fino al midollo che puntualmente è disposto a vendersi l’anima al diavolo pur di piantarci il sedere vita natural durante (e oltre).

 

Ma siamo davvero in Britannia?

Ci sono, purtroppo, alcuni particolari che stonano.

Nella Britannia di Jeremy, all’imbrunire del 999, esistono gli zainetti e i panciotti. Ci troviamo in un universo parallelo che ci ha preceduto di cinque secoli nell’invenzione dei panciotti? Non viene specificato.

Manca il supporto di una mappa, anche appena abbozzata. Le distanze si misurano in generiche settimane di viaggio, non in chilometri. Non si sa dove siano le immaginifiche Adalama e Flourshing (o Flourishing, entrambe le grafie sono utilizzate) rispetto a Londinium e il Tamesis, gli unici toponimi geograficamente collocabili.

Sono mancanze da strapparsi i capelli? Certo che no, ma sono sintomatiche di una scarsa cura nei dettagli. La riuscita di un romanzo fantasy dipende da questi dettagli a prescindere dal target di lettura: non è che se un romanzo è per ragazzi allora posso costruire un regno “campato per aria”.

Messo da parte il fascino della cultura celtica, rimane insomma il quadro di una worldbuilding dipinta con pennellate rozze, in una disarmonia di colori da imputare, forse, più all’uso sbadato dei termini di cui sopra che a contaminazioni anacronistiche.

 

A(f)fianco, “c’è l’avevi” e virgole birichine

È giunto il momento di commentare il tallone d’Achille del romanzo: lo stile. Sarà un viaggio irto di spine. Vi chiedo il permesso di sottrarvi qualche altro minuto del vostro tempo e di leggere i paragrafi seguenti fino alla fine, dove troverete… no, la priorità alla recensione vera e propria. Non sbirciate con fulminei scorrimenti di rotellina del mouse, ché la lepisma vi guarda.

Dunque… c’è da dire che, tolta qualche intrusione di punto di vista (quello che viene definito PDV “ballerino”), la penna di Angelica Rubino si lascia leggere con scioltezza. Non si inceppa, né si esibisce in ghirigori barocchi. Questi (ottimi) punti a favore non compensano, però, i suoi gravi difetti.

Gravi, sì, perché lo scrittore è l’ultima persona da cui potrei aspettarmi imprecisioni linguistiche. Se sui refusi sono disposta a soprassedere perché non esiste un vaccino contro le distrazioni, non posso – e non sarebbe corretto ai fini di una valutazione sincera – ignorare i numerosi errori di ortografia e il posizionamento arbitrario delle virgole.

Daron e Corr, erano affianco a lui e russavano, coprendo i suoi già flebili passi.

«E’ già, d’altro canto […]» disse lei facendo l’occhiolino.

«Auguri!» risposero in coro i ragazzi «non c’è l’avevi detto!»

«Figlio mio, tu sai bene che Deathproof decapita chiunque faccia esibizioni a lui, non gradite!».

[…] si sollevò su una gamba sola e li guardò come chi osserva un’animale per la prima volta.

 

Precisione, precisione e ancora precisione

La qualità dello stile è incostante: raramente descrive bene, spesso non descrive affatto, troppe volte si adagia sugli allori e ricicla le stesse espressioni linguistiche. Ancora peggio, questo stile racconta quando dovrebbe mostrare.

Persevererò nella predicazione della tecnica dello show, don’t tell finché avrò fiato: le scene cardine di un romanzo vanno mostrate, non raccontate. Sono troppo importanti per essere liquidate in una manciata di parole.

In quel momento Cordelia lanciò un urlo. Non di rabbia, stavolta, ma di dolore.
La diciassettenne abbassò le braccia e lanciò anche lei un grido. Quello che vide la spaventò enormemente: la cugina era stata colpita alle spalle da una freccia.

Raccontando, riassumendo, si privano i colpi di scena del giusto impatto.

Vorrei vedere Cordelia digrignare i denti, storcere la bocca, tremare nel tendere una mano verso l’asta piantata nella schiena. È attraverso le azioni concrete, e non le descrizioni astratte, che si caratterizzano i personaggi. Imboccare il lettore con la pappa pronta dicendo che tal personaggio si spaventa enormemente, invece di descrivere la paura come, che so, una sensazione di gelo nelle ossa o di un cuore che tenta di sfondare la cassa toracica, non sollecita alcun interesse né coinvolge il lettore emotivamente.

Questo è mostrare:

I loro volti erano ingialliti, pieni di pustole, i denti cariati, le ossa quasi fuoriuscivano dalla carne magrissima. Le case erano distrutte, dalle fontane usciva solo acqua sporca.

Questo no:

Il cavallo si trasformò diventando improvvisamente enorme.

Raccontare equivale ad annacquare una bottiglia di Barolo. Per scrivere bene, bisogna sforzarsi di essere precisi. Ma non sempre vale questa regola…

Annuì poi con la testa.

Questa precisazione è superflua perché si annuisce solo con la testa.

E il libro è tutto così.

 

Dulcis in fundo

Sapete qual è il colmo? Che nella prefazione al romanzo qualcuno di cui non voglio fare il nome abbia avuto la faccia di bronzo di lodarne lo stile. Questa, signori, non è professionalità. È una presa in giro nei confronti dell’autrice che nonostante la giovanissima età e i limiti dettati dall’inesperienza si è messa in gioco e con dedizione ha portato a termine un’impresa di cui c’è solo di che andare orgogliosi. Lo stile è immaturo? Sì. Sono presenti errori di grammatica? Cavolo, sì. Allora è un obbligo morale farglieli notare perché ne diventi cosciente e corregga il tiro in vista di lavori futuri. Mentire non è costruttivo.

 

Per concludere

Un’animale. C’è l’avevi. Daron e Corr, erano affianco a lui. Annuì con la testa. […] decapita chiunque faccia esibizioni a lui, non gradite.

Al rappresentante di Apollo Edizioni che si spertica in complimenti sullo stile (“Ogni parola, ogni punto e perfino ogni virgola è meditata e giustapposta […]” ) vorrei chiedere se il libro l’ha quantomeno sfogliato o se l’ha usato per assestare la gamba del tavolo.

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[Recensione] “La ragazza di stelle e inchiostro” di Kiran Millwood Hargrave

Copertina de La ragazza di stelle e inchiostro.

Un’isola in decadimento, una giovane eroina e un demone di fuoco risalente a un antico mito sono gli ingredienti de La ragazza di stelle e inchiostro, fantasy per ragazzi che fra meno di dieci giorni, il 20 febbraio a essere precisi, farà il suo ingresso nelle nostre librerie. Al termine di una lettura del romanzo in lingua originale, mi rifaccio ora viva fra le pagine di questo blog per condividere la mia esperienza di lettrice. Sotto con la recensione!

Titolo: La ragazza di stelle e inchiostro
Autore: Kiran Millwood Hargrave
Genere: fantasy per ragazzi
Editore: Mondadori
Pagine: 211

Cosa c’è oltre la foresta? Chi abita i Territori Dimenticati? Isabella, figlia del cartografo che ha mappato la misteriosa isola di Joya fin dove lo spietato governatore Adori permette di esplorarla, sogna di poter disegnare su una cartina la risposta a queste domande. Così quando Lupe, la sua migliore amica nonché figlia del governatore, sparisce proprio in quei territori, è Isabella a guidare la spedizione di ricerca. Le mappe di famiglia la guidano attraverso villaggi deserti, nere foreste e fiumi prosciugati, e le stelle che suo padre le ha insegnato a osservare la accompagnano dall’alto. Ma il vero pericolo del suo viaggio appare presto chiaro: nelle viscere bollenti della terra Yote, un demone di fuoco, si sta risvegliando…


La ragazza di stelle e inchiostro: la recensione

Per essere rivolto a un pubblico di giovani lettori, La ragazza di stelle e inchiostro è un libro cupo: non è parco di violenze assortite, come nelle migliori fiabe dei fratelli Grimm, né risparmia la vista di dettagli raccapriccianti. La poesia, insomma, si esaurisce nel rettangolo di copertina adorno di libellule e farfalle. Nota di demerito? No. Semplicemente, vorrei sottolineare la disonestà della sinossi ufficiale, ricalcata dall’originale inglese, perché omette accuratamente qualsiasi allusione all’atmosfera a tinte fosche che tiene in ostaggio il lettore dalla prima all’ultima pagina.

Siamo a Gromera, un grappolo di case appollaiate nella zona sud-est dell’isola di Joya. È l’alba di un nuovo anno scolastico quando una donna del villaggio dà notizia della scomparsa della figlia Cata. Fra gli abitanti si scatena il panico e il governatore Adori, già dedito a opprimere la popolazione di Gromera impedendo a tutti di valicare i confini del paesino, pena l’arresto, impone dei rigidi coprifuoco. Quando le squadre di ricerca riferiscono del macabro ritrovamento del corpo della giovane, tutti gli indizi convergono verso la pista dell’omicidio. Il governatore, dispensatore di giustizia, ha intenzione di lavarsene le mani e levare le tende dall’isola insieme a tutta la sua famiglia, prima che l’assassino, a piede libero e latitante nei Territori Dimenticati al di là dei confini del villaggio, torni a reclamare altre vittime innocenti. Ma Lupe, sua figlia, ha ben altri progetti.

Hargrave affida a Isabella, la figlia del cartografo di Gromera, il compito di narrare le vicende in prima persona. Quando lei e Lupe si congedano al termine di un’accesa discussione, nella quale Isabella taccia l’altra ragazzina di essere menefreghista e codarda alla pari del padre, Lupe si allontana dalla relativa sicurezza del villaggio col proposito di braccare il colpevole dell’assassinio di Cata, e confutare così le accuse dell’amica. Isabella, rosa dai sensi di colpa, farà in modo di unirsi alla spedizione di ricerca bandita dal governatore. In quanto esperta di cartografia, arte trasmessale dal padre, è l’unica che può guidare gli scagnozzi del despota nei territori sconosciuti oltre i confini di Gromera. E chissà, forse potrà addirittura capovolgere la situazione a proprio vantaggio e mappare quelle regioni dell’isola che da anni stuzzicano la sua curiosità di esploratrice.


L’importanza dei miti

La ragazza di stelle e inchiostro è, prima di tutto, una storia sul valore dei miti. Tanti sono i fili rossi che possiamo tracciare con Oceania, film della Disney del 2016. Per Isabella i miti hanno poco a che spartire con le storie: entrambi si tramandano a voce attorno a un focolare, ma i miti non sono il frutto della fantasia di un individuo. Nelle sue parole…

A myth is something that happened so long ago people like to pretend it’s not real, even when it is.

Per l’occasione, Hargrave saccheggia il folklore del popolo dei Guanci, che si presumono essere i primi uomini ad aver colonizzato le isole Canarie, per presentarci una storia sull’importanza della fede, del coraggio, dell’amicizia e dello spirito di sacrificio. È dalla fede nei miti che Isabella, scontratasi con lo scetticismo degli amici che commettono l’errore di non discriminare le storie dai miti, trarrà il coraggio e la forza necessari per trascinarsi avanti quando tutto sembrerà perduto. Sarà la sua fede a decretare il destino dell’isola di Joya, minacciata dal risveglio di un demone antico che i più diffidenti pensavano fosse vincolato al mondo immaginario della tradizione orale.


Worldbuilding raffazzonata

Ogni fantasy che si rispetti, però, dovrebbe proporre una worldbuilding plausibile, con scelte giustificabili. La worldbuilding de La ragazza di stelle e inchiostro lascia intravedere tante idee interessanti, purtroppo sottosviluppate e disposte alla carlona, come scampoli di vari vestiti cuciti insieme in una coperta patchwork.

I personaggi hanno nomi spagnoleggianti (la moglie del governatore viene interpellata con un esplicito “Señora Adori”) e si citano continenti e Paesi dai toponimi piuttosto familiari (Amrica, Ægypt, Afrik), ma non si riesce a dare una collocazione cronologicamente precisa degli eventi del libro all’interno della nostra Storia, se del nostro mondo in effetti si tratta. Come si dovrebbe interpretare la diversa grafia di Amrica ed Ægypt? Siamo in uno scenario post-apocalittico in cui lo sviluppo tecnologico della razza umana è regredito all’età del ferro? Oppure dobbiamo inserire la storia in un contesto primitivo? Insomma, alcuni elementi sembrano introdotti alla cieca, senza una logica: perché un Ægypt dal sapore nordico a sfavore di un più coerente Egipto?

Viene naturale immaginare l’isola di Joya come l’ottava isola maggiore delle Canarie, ma è davvero così?


Stile vago e passivo

Lo stile scorre bene, ma è troppo vago. A ventiquattr’ore dal traguardo della parola fine, ricordo poco o nulla della geografia di Joya. Si percepisce la penuria di descrizioni: le informazioni concesse dal testo sono scarse e impediscono di crearsi un’immagine nitida della topografia dell’isola, un problema abbastanza ironico in un libro che dovrebbe essere un inno alla cartografia.

Il libro, infatti, è corredato di mappe a supporto del lettore che mettono a fuoco le aree dell’isola che la nostra compagnia di avventurieri si ritrova man mano ad attraversare. Esteticamente gradevoli, ma di poca, se non nessuna, utilità pratica dati i tratti essenziali con cui sono tracciate.

Lo stile tocca fondi di debolezza soprattutto nei capitoli ad alta dinamicità, dove metà delle azioni è resa al passivo. Alcune sono inoltre realisticamente improbabili.

My elbows and knees were pinned down, nails gouging into my neck. I tried to roll, to get free, but my assailant held on. Pain sang across my scalp as my head was pressed into the nubs of teeth beneath me.

My name was shouted from somewhere behind me – not Gabo’s name, but my own – and in the next moment the creature was barrelled off as Pablo threw it aside.

A smell like burning ships filled my head, then my hands were being wrenched behind me.

Ormai anche i sassi nel letto del Po sanno recitare a memoria la manfrina del “mostrare, non raccontare; tempo attivo, non passivo”, valida per il genere fantasy in particolar modo. Che la storia abbia bambini e ragazzi dai 10 ai 14 anni come destinatari finali non solleva l’autrice dallo sforzo di produrre buona letteratura. Non ho indagato sulla sua bibliografia perché la mia speranza è che ci troviamo di fronte a un esordio stilisticamente acerbo.


Per concludere

La ragazza di stelle e inchiostro esordisce con delle buone idee, ma non le sviluppa abbastanza e le espone con uno stile dilettantistico. È comunque una piacevole lettura che regala qualche emozione.

Stellina per recensioni.
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[Recensione] “I guerrieri di Wyld. L’orda delle tenebre” di Nicholas Eames

Copertina de I guerrieri di Wyld. L'orda delle tenebre.

Amanti del fantasy e nerd incalliti a rapporto!

Più di 500 pagine di succose avventure che strizzano l’occhio agli RPG degli anni Novanta vi aspettano in libreria questo 8 febbraio (spero quindi perdonerete le citazioni in lingua originale). Se avete bruciato pomeriggi a brandire mazze chiodate contro orchetti e viverne, a collezionare tutto un armamentario di spadoni e cotte di maglia leggendarie e dai nomi arcani, a distribuire minuziosamente punti abilità ai vostri avatar, se per voi titoli quali Dungeons & DragonsMight and Magic, WarcraftIcewind Dale e Sacred suscitano un senso dolceamaro di nostalgia, allora dovreste sentirvi moralmente obbligati a leggere il romanzo d’esordio del talentuosissimo Nicholas Eames.

 

Titolo: I guerrieri di Wyld. L’orda delle tenebre
Autore: Nicholas Eames
Genere: fantasy/umoristico
Editore: Nord
Pagine: 550

Il pacifico regno di Castia è stato invaso dall’orda di HeartWyld, un devastante esercito di orchi e mostri. Un tempo, Clay Cooper sarebbe stato in prima fila per combatterlo: lui e la sua banda di mercenari erano guerrieri straordinari e le loro imprese sono leggendarie. Ormai però sono passati vent’anni e i giorni di gloria sono finiti. La Castia è lontana e Clay deve pensare a proteggere la sua famiglia. Ma tutto cambia quando alla sua porta bussa Gabe, il loro vecchio comandante: la figlia è scappata di casa per unirsi alla resistenza castiana e Gabe deve salvarla. Anche perché l’unico modo per raggiungere la Castia è superare il Wyld, un luogo selvaggio e pericoloso, infestato da più orrori di quanti si possano immaginare. E Clay è costretto a rendersi conto della minaccia che incombe su di loro: senza rinforzi, la Castia è condannata e sarà solo questione di tempo prima che l’orda continui la sua marcia di morte. Ma nessuno è in grado di affrontare il Wyld. Tranne loro, gli unici ad averlo attraversato ed essere sopravvissuti per raccontarlo. Clay e Gabe non hanno dubbi: devono rimettere insieme la banda. Insieme, potrebbero diventare l’ultima speranza per l’intera stirpe degli uomini…

Voto:

 

La recensione

Sacred, un RPG per computer uscito nel 2004, ha fatto la mia adolescenza. Col tempo ho un po’ abbandonato l’ossessione per i giochi di ruolo, e quando tre anni fa, spinta da chissà quale ricordo, ho provato a installarlo sul desktop, non mi sono strappata i capelli nel rendermi conto della completa, assurda incompatibilità del gioco con la mia versione di Windows 7.

Devo puntare un dito accusatore verso I guerrieri di Wyld se ora mi ritrovo a fremere davanti al computer con la coscienza divisa in due inconciliabili fazioni: quella che “ora che hai Windows 10, magari il gioco funziona, perché non provi a reinstallarlo?” e quella de “hai di meglio da fare che accoppare goblin e portare il tuo mago guerriero di ghiaccio con set di Blackstaff a livello 200”.

Sì, I guerrieri di Wyld fa questo effetto. Non è un epic fantasy da prendere sul serio: è un tributo, in forma parodistica, ai cultori del genere fantasy e ai giochi di ruolo che si ispirano a questo filone, e come questi giochi è intriso di azione. Così tanti sono i combattimenti degni di nota – tutti, praticamente – che sembra quasi di essere protagonisti di un videogioco ed è difficile scegliere un vincitore.

 

I componenti di Saga

Clay: un padre, un marito, un uomo di poche pretese i cui propositi di un’esistenza serena e lontana dalle luci della ribalta dei tempi d’oro della banda vengono sbrindellati dall’improvvisa comparsa di Gabriel sui gradini di casa. La notorietà del passato non ha scalfito la sua umiltà. I suoi occhi sono il punto di vista da cui è narrata la vicenda ed è un protagonista con cui viene naturale empatizzare: quando decide di imbarcarsi in quella che ha tutta l’aria di essere una missione suicida, le sue paure sono tutt’altro che infondate. Imbraccia Blackheart, uno scudo unico nel suo genere – non lo sottovalutate: se vi dà il benvenuto sui denti, son dolori.

Moog: imparerete ad adorare le bizzarrie del suo personaggio. Mai a corto di trucchi nel suo cappello, Moog è uno stregone che ha dedicato parte dei suoi studi per distillare un equivalente del nostro Viagra, dal nome “allitterazionante” di Magic Moog’s Magnificent Phallic Phylactery, grazie al quale si è rimpinguato le tasche nei lunghi anni seguiti allo smantellamento della banda. Il suo mantra? There’s a way. It’s risky, though.

Gabriel, per gli amici Gabe: nonostante gli acciacchi incipienti della mezza età, non ha problemi ad affettare i nemici con turbini di fendenti della sua spada, Vellichor, che brandisce con precisione svizzera. Da anni accarezza l’idea di rifondare la squadra di mercenari in un continuo susseguirsi di buchi nell’acqua, ma quando è in gioco la vita di sua figlia Rose, l’amore di padre gli infonde la determinazione necessaria a perseguire il suo intento fino alla fine.

Matrick: ladro di professione convertito a regnante. Se gli agi di un’esistenza condotta in panciolle fra cuscini di piume, tavole imbandite e bicchieri di vino gli hanno conferito una circonferenza un po’ tondeggiante lungo la vita, il peso eccessivo sulle gambe non lo rende meno letale quando dai muscoli della mascella si tratta di scendere a quelli delle braccia: Roxy e Grace, i pugnali gemelli che mulina con destrezza da danzatore, fanno di lui un combattente da cui è meglio tenersi alla larga.

Ganelon: un gigante d’uomo, stimato da tutti per le sue sbalorditive abilità di combattimento con Syrinx, la sua ascia. Il “guerriero” propriamente detto, una dinamo a riserva di carburante infinita. L’ultimo a dover essere reclutato, il membro il cui rifiuto significa la morte certa dell’impresa.

Sono personaggi talmente vividi da farsi persone. Hanno desideri, affetti, difetti. Mai come in questo caso sono validi i detti l’unione fa la forza e tutti per uno, uno per tutti: Gabriel non ha alcuna possibilità di portare a termine la missione da solo, ma quando Clay risponde al suo SOS come soltanto un migliore amico può fare, e mano a mano che i fili solitari di questi cinque amici si ricuciono nella formazione originaria, niente e nessuno può più districarli. Dopo quasi vent’anni trascorsi ognuno nel proprio isolamento, i mercenari sono pronti a un ultimo gesto eroico prima che la vecchiaia inclemente li privi del tutto della loro passione di avventurieri.

E se il gentil sesso non trova un posto in questa schiera dalle ginocchia vagamente cigolanti, non commettete l’errore di pensare che I guerrieri di Wyld non faccia scendere in campo presenze femminili di tutto rispetto. Allo squinternato quintetto, infatti, fa da contorno una pletora di personaggi l’uno più indimenticabile dell’altro. Le personalità secondarie, spesso e purtroppo relegate al ruolo di spalla o di piantina ornamentale, trovano qui finalmente giustizia.

 

Lo stile

Eames sorprende fin dalle prime righe per la sua abilità scrittoria e gestione della narrazione. Non si ravvisano periodi morti, sbavature di punti di vista né rallentamenti, il ritmo è serrato e le descrizioni degli scontri sono di una qualità che perfino autori più affermati, che davanti alla scrivania hanno piantato radici vecchie di anni, stentano a raggiungere: Clay registra il mondo di Grandual coi suoi occhi e ce lo consegna senza sconti né riassunti, in tutta la sua ricchezza di dettagli concreti.

La costruzione del mondo, in inglese worldbuilding, pilastro portante dei romanzi fantasy, è anche lei di ottimo livello: la gente di Grandual professa una religione politeista, il trambusto delle città giunge ai nostri sensi come se lo stessimo vivendo e respirando in prima persona; il mondo pullula di creature dai nomi immaginifici, fra le quali si annovera la razza dei druin (si attende la traduzione in lingua italiana), che colpisce per essere un curioso miscuglio tra fisionomia umana e soffici orecchie da coniglio.

A questa razza appartiene l’Evil Lord di turno, LastLeaf (“UltimaFoglia”), capitano dell’orda delle tenebre menzionata nella sinossi. Lungi dall’essere il concentrato di stereotipi cui il termine Evil Lord allude, LastLeaf si rivela un personaggio con una propria personalità e una giustificazione plausibile alla smania di seminare un bel po’ di Disperazione & Carestia in quel di Castia. Non deridete le sue orecchie, potrebbe risentirsene.

Una nota di merito va senz’altro all’umorismo e alle similitudini nient’affatto scontate:

Matty’s voice had found a tone that balanced on the blade’s edge between pleading and placating. Clay imagined it was what a talking dog might sound like while explaining to its master why it had shit all over the rug.

[…]

The booker’s toothy grin withered like a cock in cold water.

 

Schitarrate e scazzottate per tutti i gusti

Dal momento in cui il cerchio della banda si chiude con l’annessione dell’ultimo componente fino alla parola fine, si assiste a un crescendo di azione e adrenalina che esplode, alla stregua di fuochi d’artificio, nello scontro che verrà consacrato negli annali e che decreterà il successo o meno dell’impresa (salvare Rose dall’assedio che tiene in scacco la città di Castia) e il destino del continente di Grandual stesso. Gli ultimi capitoli serbano scazzottate a non finire. E quando la polvere finalmente si posa a terra a indicare la conclusione del conflitto, l’istinto è quello di sfogliare le pagine a ritroso per rivivere, sulla nostra pelle d’oca di lettori assorbiti dal libro fino all’ultimo neurone, l’euforia della battaglia finale. Non mancano, in questo tripudio di assoli, interludi più profondi e riflessivi, addirittura toccanti.

Se il clima suona rockettaro, è perché lo è: sul sito di Nicholas Eames trovate, oltre a una galleria di concept art e a una mappa del mondo dal sapore piuttosto tolkieniano (osservate un minuto di silenzio reverenziale per il lavoro certosino dietro a ogni singolo albero di HeartWyld, prego), la colonna sonora che ha ispirato l’autore nella stesura di ogni capitolo. Lo stesso autore, nei contenuti extra in coda al libro, parla del filo rosso che collega Saga a una band rockettara:

[…] the weapons I assigned to each of the main characters were due to their assigned role in a metaphorical rock band—the most obvious being Matrick wielding a pair of “drumstick” knives and Ganelon using an axe, which is, of course, slang for “guitar.” Clay was envisioned as the guy on bass whose name everyone forgets but without whom the song just doesn’t feel right.

Matrick è il batterista, Ganelon il chirarrista e a Clay è assegnato il ruolo spesso trascurato, ma fondamentale, del basso. Gabriel? È il frontman, naturalmente.

 

Il romanzo è autoconclusivo

Avete letto bene: sebbene sia il primo volume di una serie (il secondo si intitola Bloody Rose [“Rose la Sanguinaria”] ed è atteso nelle librerie inglesi il 24 aprile 2018), ogni libro si concentra su una determinata banda di mercenari ed è quindi una storia a sé stante.

 

Per concludere… Viverna? Drago?

I guerrieri di Wyld è un fantastico romanzo.

E la conoscete la differenza tra viverna e drago? No? Lasciate che vi spieghi, allora…

LastLeaf monta una viverna e Clay, in una delle sue rimuginazioni, si premura di rendere nota la differenza fra questi rettiloni sputafuoco. I draghi hanno quattro zampe, nelle viverne le zampe anteriori sono fuse allo scheletro delle ali. Smaug non è un drago, è una viverna! (E neanche tu puoi fregiarti della nomenclatura di drago, o ruggente Drogon.) Ogni volta che qualcuno dice che drago o viverna sono la stessa cosa, da qualche parte c’è un fedelissimo del fantasy che soffre di un attacco di cuore. Grazie, Eames.

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