[Recensione] “Il canto del ribelle” di Joanne Harris

Copertina de Il canto del ribelle.

Joanne Harris è famosa per essere l’autrice di Chocolat, ma è altrettanto conosciuta alle luci della ribalta grazie ai romanzi della serie Runemarks, di cui Il canto del ribelle, pubblicato per la prima volta nel 2014, è il prequel. A più di dieci anni di distanza dalla pubblicazione del primo volume, la serie è più fervida che mai. È in programma infatti l’uscita di un secondo prequel, dal titolo The Testament of Loki, per maggio 2018.

Titolo: Il canto del ribelle
Autore: Joanne Harris
Genere: fantasy/mitologico
Editore: Garzanti Libri
Pagine: 320

Per Loki, il dio delle fiamme, intelligente, affascinante, ingannatore, spiritoso, l’accoglienza ad Asgard non è delle migliori. Nella città dorata che s’innalza nel cielo in fondo al Ponte dell’Arcobaleno, dove vivono le donne e gli uomini che si sono proclamati dèi, tutti diffidano di lui, che ha nelle vene il sangue dei demoni. Malgrado la protezione di Odino, Loki ad Asgard continua a non essere amato: quello è il regno della perfezione, dell’ordine, della legge imposta. Entrare definitivamente nella schiera delle divinità più importanti, per lui, è impossibile: non solo gli viene impedito, è la sua stessa natura ribelle a impedirglielo. Ma arriva il momento della sua riscossa. Il mondo delle divinità è agli sgoccioli, una profezia ne ha proclamato la fine imminente. E Loki potrà mettere le sue capacità al servizio di Asgard e dei suoi abitanti. È lui che si adopera, con la sua astuzia, per trarre in salvo Thor e compagni. Ma gli dèi sono capricciosi, volubili e di certo non più leali di Loki. Adesso è giunta per lui l’ora di decidere da che parte stare, chi difendere e contro chi muovere battaglia. E di scoprire se i suoi poteri e la sua astuzia possono davvero salvarlo dalla fine che minaccia i Mondi e le creature, umane e divine, che li abitano. Joanne Harris ci porta nelle atmosfere piene di fascino della mitologia nordica: le divinità buone e cattive, i popoli in lotta tra loro, le forze oscure, le città fantastiche e le battaglie sanguinose. Protagonista assoluto è Loki…


Il canto del ribelle: la recensione

Che il ribelle in copertina si identifichi nella persona di Loki penso sia ormai conoscenza universale – perlomeno di chi approderà a questo post tramite una ricerca su Google, in dubbio se comprare o no il romanzo. Sono sufficienti le prime pagine per introdurre le altre pedine in gioco: fra la schiera dei personaggi del libro, si riconoscono le divinità più famose – Odino, Thor, Frigg, Heimdall, Sif – e si individuano, per chi questo libro rappresenta il primo accostamento al mito norreno, identità più oscure che faranno presto la loro entrata in scena. L’arena di scontro è Asgard, cittadella elitaria degli dèi al centro del cielo.

Parliamo ora del Loki griffato Harris. La sua è una voce che si incarica di riscrivere i miti nordici per come ci sono giunti ai giorni nostri. La versione classica della storia (glissando sui possibili ritocchi dati da letture cristianizzate) ha sempre riservato a Loki un posto di poco valore al tavolo delle divinità, descrivendolo come un piantagrane bilioso spinto al litigio per puro spirito di antagonismo. D’altro canto, fra un insulto e l’altro il mito gli riconosce anche momenti di perspicacia che sistematicamente finiscono per salvare la pellaccia di tutto il pantheon, e che tuttavia non possono affrancarlo dalla sua reputazione di persona sgradita e da un ineluttabile destino che, come viene più volte ripetuto nel mito attraverso la profezia della Veggente, – di cui si ritrova una parafrasi nel libro – incombe su tutti gli dèi come un cappio sul collo di un condannato al patibolo.

In tutto il corpus risalta chiara questa dicotomia di persona sgradita prima e genio provvidenziale poi, in un percorso fra valli e monti che conduce inesorabilmente verso il tramonto di tutto, la morte di tutti gli dèi. Il Loki di Harris riprende questo tema di alti e bassi e presenta il mito da un altro punto di vista: il suo. Motivo conduttore del libro è infatti la volontà di riscattarsi e informare i popoli senzienti di come siano andate davvero le cose, di come Loki, cioè, ingannatore degli ingannatori, sia stato in realtà ingannato a sua volta, e senza moventi – a detta sua – a giustificarne l’atto.

La voce del protagonista è dissacrante, dal tono sarcastico, e l’ho trovata, generalmente parlando, coerente con la personalità ambigua e sprezzante del Loki mitologico. Le due entità non si rispecchiano appieno per motivi che spiegherò a breve, ma al pari dei lati di una moneta condividono un nucleo fatto della stessa sostanza. Come il suo parente stretto, infatti, il Loki di Joanne Harris usa la lingua come un machete per ammaliare, abbindolare, seminare zizzania, per cavarsi fuori dai guai verso i quali sembra esercitare una forte attrazione magnetica: dove aggiusta una falla ne fa esplodere altre cento, al pari di uno scalognato Paolino Paperino alle prese con le tubature del lavabo.

A distinguerlo dalla sua controparte mitologica è la ricerca di una giustificazione alle sue malefatte. Come Paperino dà la colpa alla iella, così questo Loki trova, nella sua natura ribelle di demone nato dal Caos, un alibi alla sua apparente impossibilità di guadagnarsi uno sguardo amichevole fra i vicini di casa. Diversamente da come racconta il mito, sarebbe in pratica la sua estrazione ciò che gli impedisce di instaurare rapporti di amicizia, un retaggio di sangue cattivo che gli vale, fra le tante cose, un tesissimo comitato di benvenuto fra i ranghi di Asgard, una lunga, aperta ostilità e una sensazione di “diverso”, di antipatia a pelle che mai lo abbandona del tutto.
Questa è la sua storia, e da buon protagonista tira l’acqua al proprio mulino.


Lo stile

Il Canto del Ribelle è il primo romanzo che ho letto di Joanne Harris, perciò non ho metri di giudizio per decidere se testimoni un suo miglioramento o peggioramento stilistico: lascio a voi l’arduo giudizio. Posso dirvi, però, cosa ne penso dello stile usato in questo libro.

Harris adotta una scrittura contemporanea, frizzante, semplice ma non elementare e scandita da un giusto equilibrio tra frasi brevi e lunghe (un rapporto così bilanciato che me l’avrei parecchio a male se non lo prendessero in considerazione come esempio da imitare e glorificare nei manuali di scrittura creativa). Per incontrare il vocabolario e la fretta del consumatore moderno, il suo stile ha dovuto prendere necessariamente le distanze da quel conglomerato di kenningar e metafore di cui l’Edda di Snorri e l’Edda poetica si fanno portatrici (più dettagli: Wiki), ed è riuscito nel tentativo: Loki parla al lettore attraverso una prima persona onnisciente in pieno gergo del terzo millennio.

È una scelta, questa, che potrebbe far alzare un sopracciglio a chi, come me, ha visto nei miti e nelle saghe norreni quel meraviglioso connubio fra epicità, leggibilità e ricchezza linguistica che tanto ha viziato anche i lettori più affezionati di Tolkien (vedasi Il Silmarillion, o racconti eroici annessi). Ci si può chiedere se uno stile moderno sia adeguato per perpetuare idee e leggende in voga, anno più anno meno, attorno al periodo in cui Carlo Magno si vide apporre la corona sul capo. Tale scelta narrativa trova in realtà un movente nella narrazione degli eventi a posteriori: questo Loki è un narratore sopravvissuto al Ragnarök e i ricordi cui attinge per diffondere il proprio vangelo sono ormai vecchi di secoli. In quest’ottica, è facile vedere nella sua scrittura il naturale adattamento all’evoluzione di una lingua.

Per quanto concerne la tanto chiacchierata teoria dello show, don’t tell, mi tocca digrignare un po’ i denti – è il mio istinto latente di fan che mi porta a farlo – e ammetto di aver voltato pagina più volte, ma solo per vedere fin dove si prolungasse la muraglia cinese di testo e quante righe mi separassero ancora dal sollievo di un lungo discorso diretto, o di una descrizione tangibile. È proprio la mancanza di azioni a essere una costante del libro: perfino laddove la lunghezza del testo non avrebbe sofferto della scelta di un discorso diretto (il mostrare una scena ingombra nettamente di più del raccontarla), Joanne Harris preferisce, alle volte, imboccare la scorciatoia e sfruttare Loki come portavoce della battuta.

Si può obiettare che, essendo Il Canto del Ribelle configurato come un racconto, cioè un riassunto, l’atto di raccontare anziché mostrare è inevitabile. D’altronde, le saghe norrene che mi piacciono tanto costituiscono, penso, i massimi esempi di raccontato reperibili fra i confini della Terra e oltre. Eppure non riesco a togliermi dalla testa l’idea che avrei apprezzato di più il romanzo se la bilancia fra i due meccanismi narrativi fosse stata meglio calibrata, perché un conto è leggersi una saga da cinquanta pagine, un altro un libro da sei volte tanto.
Ma non arrovellatevi troppo nel dubbio: il ritmo scanzonato decantato nel primo paragrafo, autentica àncora di salvataggio, è di quelli che fanno odiare l’arrivo all’ultima pagina.


La narrazione

Bisogna ammettere che Harris ha svolto un accurato lavoro di riordino e siliconaggio. La trama ricalca fedelmente le vicende frammentarie del mito, ma l’intreccio de Il Canto del Ribelle è lineare e segue senza interruzioni un tracciato che sorge all’arrivo di Loki nel “mondo fisico” e tramonta con la fatale conclusione del Ragnarök. In tutto questo, Harris è stata cauta e ha preferito l’aggiungere al modificare: si è affidata all’immaginazione personale per riempire i vuoti fra un capitolo e l’altro e ha lasciato quasi invariato il resto. La modifica più ardita, credo, è quella che vede Loki come un demone fatto e finito anziché un gigante – è una visione un po’ cristianizzata del mito quella che cerca in Loki la rappresentazione del demone cristiano. Mi sfugge la considerazione che ha portato al cambiamento da jötunn a demone, ma non è un dettaglio per cui strapparsi i capelli.

Apriamo ora una parentesi sul mondo nordico e sul suo clima. Non ho, purtroppo, ritrovato quell’atmosfera antica che si respira invece fra le pagine dell’Edda o delle saghe norrene. Complice, forse, anche il mancato sostegno di un registro “eroico”, la Asgard dipinta da Loki scarseggia, insomma, di sostanza. Il narratore ha incanalato la sua attenzione verso i propri pensieri, le proprie sensazioni ed emozioni, nonché i propri pareri – nient’affatto lusinghieri – sulle divinità che lo circondano, offrendo al lettore molti streams of consciousness e ben pochi mattoni con cui costruirsi la realtà asgardiana fatta di sfarzo, oro, eserciti, crudezza; si nominano i nove mondi, ma non vengono fornite le coordinate con cui orientarsi fra di essi. Viene, in poche parole, lasciato troppo spazio a uno sviluppo interiore della vicenda a discapito – e qui mi ricollego alla tematica affrontata nello scorso paragrafo – di descrizioni concrete. Non interpretatelo come un parere lapidario: sono presenti descrizioni. Solo, troppo poche.

E qui arriviamo a un’altra piccola nota di demerito. S’è detto che la psiche delle divinità occupa il posto a capotavola nella narrazione, ma gli dèi rimangono monodimensionali. All’infuori del protagonista e di Odino, che mi sembrano essere personaggi a tutto tondo, gli altri paiono soccombere allo stereotipo e fossilizzarsi su una sola dimensione caratteriale che riflette la precisa natura di cui il dio è personificatore (come fra gli dèi romani o greci, c’è il dio della guerra, della poesia, della bellezza, della fertilità…). Così Thor è scazzoso per cinquantanove secondi al minuto, e via dicendo. Lo spazio di manovra era tanto e si sarebbe potuto fare di più.


Per concludere

Insomma, questo libro è meritorio di uno buco sullo scaffale? Rispondo con una frase equivoca: dipende da due variabili. La prima, se voi conoscete i miti norreni a menadito; la seconda, se voi siete fan dell’autrice o del protagonista condito in ogni salsa.

La scelta di Harris di mantenere il mito invariato, nel mio caso, è stata sia lodevole sia controproducente. Ho apprezzato la sua fedeltà al mito originale, ma è stata proprio la possibilità di un confronto fra le versioni, credo, a levarmi il gusto della lettura. La conoscenza pregressa dell’Edda e delle sue storie equivale a spoilerarsi il finale prima ancora di aprire il volume! Si tira avanti con le pagine, certo, ma capite che non ci sono più gli estremi per un effetto sorpresa perché chi è appassionato di mitologia norrena conosce già inizio, svolgimento e fine della storia.

A essere sincera, però, ho gradito molto l’abilità con cui Harris ha colmato i vuoti e impilato le carte in bell’ordine. Grazie al suo stile si sorride e si ride, anche. Alla luce di quanto detto, mi sento di dire che un posticino nella libreria glielo si trova facilmente. Se poi siete fan di Loki, tanto meglio.

Stellina per recensioni.
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