[Recensione] “Good Omens” di Neil Gaiman e Terry Pratchett

Sono caduta ad angelo in un’imboscata a opera della mia bacheca di Facebook. La serie Good Omens è sulla bocca, o meglio sulla tastiera, di tutti: come accedo al social network, i contatti mi propongono cascate di meme e fan art ispirati all’iconico duo. La curiosità ha avuto la meglio e ho finito anch’io per lasciarmi trascinare dalla corrente d’entusiasmo: non c’è niente di meglio di una serie che puoi macinare in un giorno (si compone di appena sei episodi) e che puoi sperimentare in altro formato come premio di consolazione per la sua brevità.

Perché Good Omens era, al principio, un libro benedetto dal Genio Divino.

Titolo: Good Omens (in precedenza “Buona Apocalisse a tutti!”)
Autori: Neil Gaiman e Terry Pratchett
Genere: fantasy/umoristico
Editore: Mondadori
Pagine: 381

Il mondo finirà sabato. Sabato prossimo. Subito prima di cena, secondo «Le belle e accurate profezie di Agnes Nutter, strega», l’unico libro di profezie assolutamente accurato al mondo, scritto nel 1655. Le armate del Bene e del Male si stanno ammassando e tutto sembra andare secondo il Piano Divino. Non fosse che un angelo un tantino pignolo e un demone che apprezza la bella vita non sono proprio entusiasti davanti alla prospettiva dell’Apocalisse… Ah, e pare anche che qualcuno si sia perso l’Anticristo. Metti insieme Terry Pratchett e Neil Gaiman… e si scatenerà l’inferno. In un modo fantastico. Già pubblicato da Mondadori con il titolo «Buona apocalisse a tutti!», «Good Omens» è ora una serie televisiva.


Good Omens: la recensione

Good Omens, aka La storia di come un equivoco salvò il mondo. Scritto a quattro mani da Neil Gaiman e Terry Pratchett (American Gods e la serie del Mondo Disco accendono qualche lampadina?), questo romanzo è pregno di quell’umorismo dell’assurdo che è valso alla Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams un posto nel mio cuore e in bella vista sulla mensola. Ordunque, umorismo inglese a parte, di che tratta?


L’umanità allora

Dei primi capitoli del Libro della Genesi abbiamo tutti sentito più o meno parlare: Eva, appena forgiata da una costola di Adamo, viene persuasa da un serpente a mangiare un frutto proibito dall’albero della conoscenza. Agli occhi di Dio, il morso alla mela si configura così grave da costare ai due umani l’estromissione perpetua dal giardino dell’Eden.

Good Omens si intrufola a questo punto della cronologia biblica: l’angelo Aziraphale, uno dei custodi delle porte del giardino, e il demone Crawly, il serpente tentatore di cui sopra, osservano l’umanità che muove i primi, stentati passi nel mondo mortale. Passati i convenevoli durante i quali i due fanno reciproca conoscenza, cominciano a chiedersi, nel libro come nella serie targata Prime: Non è stata una reazione un po’ esagerata, quella dei piani alti? Poi, proseguendo con le domande scomode: E se la faccenda della mela fosse stata la cosa giusta?.


L’umanità adesso

Avanti veloce di qualche secolo: l’uomo ha sopraffatto la natura, l’ha piegata al proprio volere, ha colonizzato l’intero pianeta Terra ed è riuscito a firmare coi suoi detriti anche la superficie della Luna. Aziraphale e Crawly, ora ribattezzato Crowley, si sono stabiliti fra i mortali, assorbendo le loro abitudini e nel contempo sondando il terreno in vista dell’Apocalisse predetta dalle Scritture.

Quando scatta il conto alla rovescia con la venuta in terra dell’Anticristo nella rosea e tozza figura di un neonato che verrà battezzato Adam da una coppia di ignari neogenitori, ad Aziraphale e Crowley casca metaforicamente il mondo addosso. Ma come?, si chiedono. L’Anticristo, proprio adesso?! La bella vita da aristocratici tra gli umani ha i giorni letteralmente contati: angelo e demone dovranno rientrare nelle rispettive fazioni per partecipare al più colossale scontro tra eserciti che l’universo abbia mai conosciuto.

Non c’è margine di opposizione, d’altronde. L’inferno ha già progettato tutto nei più infinitesimi dettagli, il piano per l’ascesa dell’Anticristo è a prova d’errore. Con la compiacenza dell’Ordine delle Chiacchierone di St. Beryl, suore cattoliche in via ufficiale, sataniste in via ufficiosa, il bimbo dovrà essere affidato alle cure di genitori attentamente selezionati e sarà dedito al Male sin dai primi vagiti nella culla. Il mondo finirà, che tutti gli oppositori lo vogliano o meno.

Ma com’è che si dice? L’errore, come la vita, trova sempre un modo…


Azi e Crowley, sistema binario e inseparabile di Good Omens

Prendo in prestito le parole di Albert Einstein e riformulo: è più facile spezzare un atomo della loro relazione.

Aziraphale e Crowley, si sarà capito, vogliono continuare a vivere serenamente sulla Terra. L’esistenza angelica nel mondo di sopra e quella demoniaca nel mondo di sotto sono troppo standardizzate, strutturate e monotone perché ne provino nostalgia. Gli esponenti dei loro partiti direbbero che si sono lasciati contaminare: vivendo fra gli umani ne hanno acquisito i vizi, i pregi, gli usi. L’esperienza li ha rimodellati a loro immagine e somiglianza. Aziraphale trova la realizzazione di sé collezionando libri rari, Crowley si tinge il pollice di verde e tappezza il suo appartamento di lusso con piante rigogliose. La Bibbia non è propriamente zeppa di angeli librai e demoni giardinieri… Aziraphale non è la quintessenza della bontà tanto quanto Crowley non è quella della malvagità. Ci si chiede: cos’è il bene, cos’è il male?

Entrambi, in una manifestazione di puro bromance, apprezzano una risata davanti a un tavolo apparecchiato per due al Ritz. La lunga permanenza sulla Terra li ha umanizzati, insomma, ma questo processo non li ha privati delle loro responsabilità in quanto esseri soprannaturali: volenti o nolenti, devono rispondere alla chiamata alle armi.

Al ruggire delle moto dei cavalieri dell’Apocalisse, i membri di inferno e paradiso lustrano le spade e alzano gli scudi. Sono pronti, sono agguerriti, sono impazienti di terminare un’attesa che dura da migliaia di anni. L’Apocalisse s’ha da compiere e non importa se la Terra si trova sul fondo del mortaio. La funzione della Terra nella grande scacchiera divina, d’altronde, è quella, appunto, di fare da scacchiera ai due eserciti che si scontreranno. Se poi la polvere si depositerà su un orizzonte di macerie e gusci anneriti dal fuoco, amen.

Ecco giungere, allora, la blasfema proposta. Siamo un angelo e un demone, cane e gatto, bianco e nero. Ma vogliamo la stessa, identica cosa. Deponiamo la finta ostilità (perché non c’è mai stata ostilità fra di noi, ammettilo, amico) e coalizziamoci per ostacolare i piani dei nostri superiori.

Una coalizione inaudita in tutto il regno dei cieli e in tutti i gironi dell’inferno! Per ostacolare i piani dei loro superiori, tuttavia, Aziraphale e Crowley devono prima localizzare l’Anticristo. Impresa spudoratamente semplice nella teoria, non altrettanto nella pratica… e tutto a causa di quel benedettissimo, maledettissimo equivoco.


“Quella checca del sud”, il nerd mancato e la moderna strega

Da soli, Aziraphale “checca del sud” e lo strisciante Crowley compongono un binomio di cui il romanzo non può fare a meno. E se il romanzo a loro sommasse un giovanotto un po’ imberbe e impacciato, uno squinternato cacciatore di streghe, una medium della domenica e l’ultima discendente di una lunga genealogia di fattucchiere? E se in questa schiera già traboccante di personaggi ce ne fossero altri, più giovani, splendidamente caratterizzati, che vanno in giro chiamandosi Them? Loro: Pepper, Brian e Wensley, inconsapevoli amici per la pelle del giovane Anticristo.

Da qui deriva il sottotitolo del romanzo, Le Belle e Accurate Profezie di Agnes Nutter, Strega. Un libro dentro a un libro, un libro di profezie così puntuali e azzeccate da essere stato stampato in un numero risicato di copie (a nessuno piace che gli si predica la data di morte, e piace ancora meno dietro pagamento). Quando una di queste stampe capita fra le mani di Aziraphale, l’angelo prima la riverisce, poi la passa al setaccio con la lente d’ingrandimento. E s’accorge che gli ultimi capitoli prima della fine del libro riguardano proprio l’Apocalisse imminente… come se dopo non ci fosse più nulla da profetizzare.


Anticristo tra predisposizione ed educazione

Aziraphale e Crowley non sono i protagonisti principali, per quanto possa sembrare strano stante ciò che si è scritto finora. Se nella serie di Amazon li troviamo sempre sul palco, questi due nel romanzo ricoprono il ruolo di “siparietto comico irresistibile”. Quello che voglio dire è che non sono funzionali alla trama, perché l’Anticristo avrebbe fatto comunque quello che alla fine ha scelto di fare.

È la forma più pura di libero arbitrio. Il romanzo stesso è un omaggio al libero arbitrio.

Per assolvere al compito affidatogli dalla nascita, si suppone che Adam Young, giovane Anticristo, debba incarnare il Male supremo. C’è un problema, però: in una rosa di personaggi dalle caratterizzazioni estreme, quasi caricaturali, Adam spicca per la sua normalità. L’Anticristo che cresce come un normalissimo ragazzo di periferia? Non si può sentire, eppure… La considerazione che se ne trae ancora una volta è che l’ambiente circostante plasma il carattere più della genetica.

Niente e nessuno è prestabilito. Un angelo non è intrinsecamente buono nella stessa maniera in cui un demone o l’Anticristo non sono intrinsecamente cattivi. Aziraphale e Crowley scelgono di disertare, mentre Adam Young… be’, lo scoprirete leggendo. Si può scegliere di non scegliere. Siamo tutti il prodotto di influenze esterne solo in minima parte perturbate dal nostro corredo genetico.


Good Omens va oltre lo humour

Good Omens è una storia ricca di simbolismi: l’animo ecologista fronteggia la nuova corona del Cavaliere dell’Inquinamento destinato a dominare sul nostro pianeta; la bilancia diventa il nuovo vessillo di Carestia. Mentre scrivo, c’è chi sta ingurgitando il terzo doppio Cheese Burger e c’è chi nei sobborghi di Manila sta rifriggendo il pagpag dell’altra sera. Poco fa girava su Facebook una foto del National Geographic ritraente una cicogna intrappolata in un sacchetto di plastica trasparente.

Attraverso l’uso della terza persona onnisciente, Pratchett e Gaiman ci affidano una storia dove a decretare la vittoria sarà l’unione che fa la forza, il gruppo che resta compatto, l’amicizia che tiene i ranghi serrati. A voi la linea e il piacere di leggere questo libro.


Per concludere

Se avete amato Douglas Adams, Good Omens è un acquisto da farsi a scatola chiusa.

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La lepisma libraia

[Recensione] “L’uomo che metteva in ordine il mondo” di Fredrik Backman

L’attesa ingolosisce e prepara le papille gustative. Talvolta è un bene tenere un libro in lista d’attesa per qualche settimana, o addirittura mesi, perché la lettura sia più gratificante. Ebbene, L’uomo che metteva in ordine il mondo è rimasto a vegetare per mesi in sala d’attesa prima di sentirsi chiamare dall’infermiera e distendersi sul tavolo operatorio. Allora è stato sezionato pagina per pagina, personaggio per personaggio: questa recensione costituisce il (favorevolissimo) referto.

Titolo: L’uomo che metteva in ordine il mondo
Autore: Fredrik Backman
Genere: narrativa/humor
Editore: Mondadori
Pagine: 321

Ove ha 59 anni. Guida una Saab. La gente lo chiama “un vicino amaro come una medicina” e in effetti lui ce l’ha un po’ con tutti nel quartiere: con chi parcheggia l’auto fuori dagli spazi appositi, con chi sbaglia a fare la differenziata, con la tizia che gira con i tacchi alti e un ridicolo cagnolino al guinzaglio, con il gatto spelacchiato che continua a fare la pipì davanti a casa sua. Ogni mattina alle 6.30 Ove si alza e, dopo aver controllato che i termosifoni non stiano sprecando calore, va a fare la sua ispezione poliziesca nel quartiere. Ogni giorno si assicura che le regole siano rispettate.

Eppure qualcosa nella sua vita sembra sfuggire all’ordine, non trovare il posto giusto. Il senso del mondo finisce per perdersi in una caotica imprevedibilità. Così Ove decide di farla finita. Ha preparato tutto nei minimi dettagli: ha chiuso l’acqua e la luce, ha pagato le bollette, ha sistemato lo sgabello… Ma… Ma anche in Svezia accadono gli imprevisti che mandano a monte i piani. In questo caso è l’arrivo di una nuova famiglia di vicini che piomba accanto a Ove e subito fa esplodere tutta la sua vita regolata. Tra cassette della posta divelte in retromarce maldestre, bambine che suonano il campanello offrendo piatti di couscous appena fatti, ragazzini che inopportunamente decidono di affezionarsi a lui, Ove deve riconsiderare tutti i suoi progetti. E forse questa vita imperfetta, caotica, ingiusta potrebbe iniziare a sembrargli non così male…


L’uomo che metteva in ordine il mondo: la recensione

Io vorrei averlo, un vicino come Ove. Vorrei confinare con un vecchio un po’ misantropo e bisbetico che tenesse a bada gli scapestrati dalle tasche bucate che insozzano il quartiere di cartacce e mozziconi, che addestrasse i cani a spasso e soprattutto i loro insolventi padroni a non lasciare tracce del loro passaggio sui marciapiedi, pronte per essere calpestate e maledette, o, peggio ancora, macchie colanti sui muretti di confine a mo’ di rivendicazione di proprietà.

Ove, purtroppo, vive in un anonimo quartiere residenziale di un’anonima cittadina della Svezia e ha ben altri progetti da mettere a punto. Deve pensare a come appendere quel maledetto gancio sul soffitto, per dirne una, e dove comprare una corda che tenga fede alle promesse decantate sull’etichetta.


Quando il dolore distrugge e indurisce

Ove è un maniaco del controllo. È uno spirito pratico e onesto come pochi (a detta sua e, forse, con un pizzico di verità) ne sono rimasti al mondo: non evade le tasse, non passa col rosso, non tradisce la moglie allungando occhi e mani su esotiche bellezze: l’etica, ancora prima della libertà. Ove è il bambino che, cresciuto nella povertà materiale, riceve dal padre un’educazione dal valore inestimabile.

E Ove è, soprattutto, un uomo indurito dall’ingiustizia della vita.


Bianco e nero, ying e yang

Sono sei mesi che è morta. E Ove gira ancora per casa due volte al giorno per tastare i radiatori e controllare che lei non abbia alzato il riscaldamento di nascosto.

Si dice che gli opposti si attraggano. Nulla di più vero, almeno stando all’uomo che mette in ordine il mondo. Lei irradia felicità, lui sprizza acido da ogni poro; lei regge una tracolla di libri, lui la cassetta degli attrezzi. Lei spalanca le ali tarpate degli emarginati perché possano imparare a volare, lui affonda gli avambracci nella morchia di un motore perché possa tornare a rombare. Lei negli abbietti vede il potenziale, lui delle foto segnaletiche.

Lei era, lui è, e di quest’essere al presente Ove è semplicemente stufo.


Quella è la porta, uomo che metti in ordine il mondo

Non capisce la gente che dice di non vedere l’ora di andare in pensione. Come si può desiderare per una vita intera di essere superflui?

Dopo quarant’anni a ricoprire un ruolo nella stessa azienda, Ove si vede offrire la pillola indorata del benservito con un licenziamento mascherato da pensione anticipata. C’è da rimodernare l’armadio, si giustificano i piani alti. È ora di sfilare dalle grucce i baby boomer e far subentrare le nuove generazioni. Di rottamare i cerchioni ormai usurati e ordinare pezzi di ricambio lucidati. È tempo, insomma, che l’obsoleto addetto ai lavori restituisca l’elmetto da ingegnere e osservi la vita dei cantieri dalla prospettiva passiva di un attempato umarell.

Sentendosi inerme e anche un po’ tradito, Ove è costretto a inghiottire il boccone di bile, perché ribellarsi è come voler abbracciare il vento. Per digrignare i denti ci sarà tempo in abbondanza nella solitaria eternità che lo distanzia dalla tomba. Senza più un ruolo nella società, senza più mensole che debbano essere aggiustate, senza più una moglie da vezzeggiare… qual è il senso della vita, si chiede Ove?

Un’intera società in cui nessuno sa più fare retromarcia con un rimorchio, e vengono a dirgli che lui non serve più?

Quando ti sbattono la porta alle spalle, pensa Ove, non ha senso attendere l’ipotermia seduti sullo zerbino. Tanto vale andare incontro alla signora con la falce e valicare il confine con la dignità di un uomo che ha perso tutto tranne il proprio diritto al suicidio.

L’uomo che metteva in ordine il mondo è la storia di una serie di tentativi di suicidio l’uno più spassoso e struggente dell’altro.


Non si può più morire in santa pace

Ove odia gli imprevisti per partito preso, e li odia ancora di più quando bussano alla porta con l’urgenza e l’esuberanza di una nuova vicina di casa. Parvaneh e relativa famiglia irromperanno nel suo salotto con la forza travolgente di una slavina e con la stessa facilità, in un alternarsi di lacrime e risate, smonteranno qualsiasi suo tentativo di ricongiungimento coniugale post mortem.

Perché, ancora prima di un posto nella società, Ove è in cerca di qualcuno che possa far breccia nella sua scorza indurita dal dolore e dal senso di tradimento, qualcuno che non arretri di fronte ai suoi ringhi da animale maltrattato. È come un diamante crepato: indistruttibile e impenetrabile salvo che per una stretta feritoia. Difficile, ma non impossibile, raggiungerne il cuore di ghiaccio che attende solo il disgelo di un tocco caldo per poter tornare a irradiare calore. A pochi – fra questi, uno spelacchiato gatto randagio – è dato il privilegio di sgusciare attraverso questa fessura.

L’uomo che metteva in ordine il mondo è un romanzo sul valore del sacrificio, della comunità e della comunanza nelle avversità della vita. Gli atolli solitari vanno presto alla deriva: bisogna costruire ponti per agganciare le isole minori, non sfoderare i cannoni alla prima, pallida avvisaglia di invasione delle acque territoriali. Dal titolo di un saggio di Thomas Merton, nessun uomo è un’isola. Nessuna esistenza sarà mai priva di un senso, nessun uomo di uno scopo.


Per concludere

Un romanzo che insegna ad amare se stessi e gli altri.

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La lepisma libraia

[Recensione] “Stretto” di Nicola Skert

Copertina di Stretto.

Preambolo necessario: ringrazio di cuore Nicola Skert per avermi inviato una copia digitale di Stretto in cambio di una recensione onesta. Chi volesse fare richiesta di recensione può consultare questa pagina (salvarsela nei segnalibri, più che altro, perché le recensioni degli esordienti sono momentaneamente sospese causa leggi universali che impongono alle mie giornate un monte di ventiquattro ore non espandibile).

E poi vorrei ringraziare l’autore per un’altra ragione: per avermi trasmesso un brutto caso di dislocazione della mandibola insieme a una crisi di crampi al diaframma. Mentre lo specialista scribacchia la parcella che solo lui sa decifrare e che spedirò al diretto interessato per risarcimento dei danni fisici, torniamo alle Cose Serie (se ci siamo mai stati): la recensione di Stretto. Ordunque, vediamo che meraviglie si celano oltre la soglia di questo aggettivo maschile singolare.

Titolo: Stretto
Autore: Nicola Skert
Genere: humor
Editore: autopubblicato Amazon
Pagine: 196

Un feto di nome Bert prende incredibilmente coscienza di sé. Appena in tempo, perché presto intuisce che il mondo là fuori non sta girando per il verso giusto. Litigi e tensioni scagliano il papà lontano da casa e la madre reagisce maltrattando sé e la creatura che porta in grembo. Bert fugge dall’utero e finisce casualmente in una scarpa del padre dalla quale nessuno riesce più a estrarlo. E’ l’inizio surreale di una vita stravagante, dettata dall’imprinting intrauterino di fuga da tutto ciò che sente “stretto”. Finché un evento apparentemente banale lo metterà di fronte a un destino davvero imprevisto. Una divertita riflessione sul mito della fuga. E del diventare adulti.


Stretto: la recensione

Definire Stretto un libro che narra di qualcosa è una descrizione riduttiva. È un romanzo di formazione, una risata che tira l’altra, una sottile occasione di denuncia. E Bert, il nostro protagonista, è uno sciame sismico di bambino in cerca di una zolla di mondo sopra la quale assestarsi.

I sismografi di Bert si eccitano fin dalle calde, umide rotondità del ventre materno: l’aspirante neonato, che il “termine” di gestazione lo intravede ancora e solo come un cerchio abbagliante in fondo al tunnel, decide che ne ha abbastanza. Vuole accelerare i tempi, lui, perché le morbide pareti del sacco amniotico cominciano a premergli sui gomiti e sul testino. Ci sta stretto, ecco.


Bert è tutti noi

Al culmine di un parto casereccio che sfida tutte le leggi approvate dell’anatomia umana, senza per questo perdere in godibilità, anzi, Bert ha giusto il tempo di collaudare il suo paio di polmoni nuovo fiammante prima di catapultarsi dentro a una delle scarpe di papà, e lì crescere come un Loto d’oro in passiva attesa finché dalle pieghe di un camice bianco sorride lo scintillio di un paio di forbici. Allora le strumentazioni vanno in tilt, il sismogramma sfora dal tracciato e Bert, in piena magnitudo di nove virgola ventordici, si libera ancora una volta di ciò che gli va stretto.

Ma questo è solo il primo round delle sue (dis)avventure. Il bambino prematuro si farà un ometto prima, un giovane esemplare di adulto poi. Nella sua continua ricerca di uno spazio aperto, di una dimensione di realtà che non lo opprima di mente e di corpo, di una soluzione al laccio emostatico che gli stritola la vita, Bert evaderà perfino dai confini del continente. A lui e alla sua indole da latitante, volenti o nolenti, ci si affeziona presto, e al ritmo del suo respiro viene anche naturale sincronizzarsi. Il suo viaggio iniziatico è anche un po’ il nostro.

D’altronde, è l’archetipo dell’imperfetto essere umano: non siamo tutti in cerca di un atollo personale nel mare ribollente del mondo?


Un assurdo che denuncia

Come quello del miglior Benni, l’umorismo di Stretto si avvale dell’assurdo per indurre al buonumore e nel frattempo smuovere la coscienza.

Non è l’assurdo scomodo e fine a se stesso di chi si sforza fino al prolasso rettale di far ridere con farneticazioni di aria fritta, ma l’ironia intelligente, acuta e squisitamente essenziale delle migliori caricature, quella dello scrittore che ha occhi per inquadrare da lontano un angolo di realtà, lo cattura in un rettangolo di dita e ne deforma e ne esagera i tratti perché tutti i lettori possano viaggiare oltre le pagine di cellulosa e toccare i personaggi con mano, percepirne le emozioni e gli umani difetti. La più efficace denuncia sociale è quella che in superficie non nasce come tale. Quella, insomma, che non si prende sul serio.

L’assurdo di Stretto è un ossimoro. È più realistico della stessa realtà e per questo mi levo il cappello.


Per concludere

Spensierato ma serio, assurdo ma intelligente, originale fin dall’artwork di copertina. Ce ne fossero, di scrittori così attenti. Mission impossible per un possibile sequel: la fuga di Bert dal Sistema Solare.

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La lepisma libraia

[Recensione] “Una vita da libraio” di Shaun Bythell

Copertina de Una vita da libraio.

Qual è il destino dei nostri libri quando noi non ci saremo più? Una vita da libraio di Shaun Bythell risponde in parte a questo quesito del nostro post-mortem. Qualche giorno fa vi avevo anticipato l’uscita di questo romanzo autobiografico made in Scozia con parole che lasciavano sperare in un giudizio positivo, e ora rifaccio capolino sul blog per segnalare che sì, questo romanzo s’ha da leggere!

Titolo: Una vita da libraio
Autore: Shaun Bythell
Genere: autobiografico/humor
Editore: Einaudi
Pagine: 384

Si può avere una vita avventurosa anche seduti su uno sgabello. Una storia incantevole per chi crede che un libro sia per sempre.

«Stavo uscendo dalla cucina con la mia tazza di tè quando un tizio in giacca da lavoro e pantaloni di poliestere una spanna piú corti del normale mi è rovinato addosso e me l’ha quasi fatta cadere. – È mai morto nessuno qui? – mi ha chiesto poi. – Nessuno ci ha ancora lasciato le penne cadendo da una scaletta? – Non ancora, – gli ho risposto, – ma speravo proprio che oggi fosse il gran giorno».

Un paesino di provincia sulla costa scozzese e una deliziosa libreria dell’usato. Centomila volumi spalmati su oltre un chilometro e mezzo di scaffali, in un susseguirsi di stanze e stanze zeppe di erudizione, sogni e avventure. Un paradiso per gli amanti dei libri? Be’, più o meno… Dal cliente che entra per complimentarsi dell’esposizione in vetrina, senza accorgersi che le pentole servono a raccogliere la perdita d’acqua dal tetto, alla vecchietta che chiama periodicamente chiedendo i titoli piú assurdi, alle mille, tenere vicende di quanti decidono di disfarsi dei libri di una vita. The Book Shop, la libreria che Shaun Bythell contro ogni buonsenso ha deciso di prendere in gestione, è diventata un crocevia di storie e il cuore di Wigtown, villaggio scozzese di poche anime. Con puntuta ironia, Shaun racconta i battibecchi quotidiani con la sua unica impiegata perennemente in tuta da sci, e le battaglie, tutte perse, contro Amazon. La sua è l’esistenza dolce e amara di un libraio che non intende mollare. Con l’anticipo dell’edizione italiana, Shaun sta finalmente ricostruendo il tetto della sua libreria.


Una vita da libraio: la recensione

Wigtown, paesino scozzese che conta meno di mille abitanti, si è guadagnato il titolo di “città del libro” per la sua concentrazione di librerie sul territorio. È proprio una di queste librerie, The Book Shop, che è stata rilevata dal nostro ginger Shaun Bythell nel 2001, quando il feroce monopolio di Amazon non era che uno sbuffo di vapore profumato in lontananza.

Shaun è un libraio che traffica nel mercato di seconda mano. Dopo un decennio trascorso a lanciare anatemi ai clienti insolenti e ai volti più anonimi del colosso dalla A alla Z, decide, in una data totalmente arbitraria quale il 5 febbraio, di tenere un diario delle (dis)avventure che aggiungono il sale alle sue giornate lavorative.

Una vita da libraio viene così alla luce in una tipica giornata invernale in libreria: fredda, uggiosa e scandita da una sparuta clientela. Si verrà subito a sapere, infatti, che gestire un negozio di questo tipo è sì un lavoro incantevole, ma cela anche dei lati bui. All’indefessa ricerca di nuovo materiale con cui riempire i buchi negli scaffali si alternano periodi di digiuno forzato del totale giornaliero di cassa che talvolta non supera le 10 sterline.


Non tutto è oro quel che brilla…

Se già la gente è restia a investire tempo e denaro nella lettura dei libri più recenti e inflazionati, lo sarà ancora meno nell’acquisto di merce di seconda mano, a prescindere dalle sue condizioni e dalla sua rarità. Anzi, non si tratta di reticenza ma di vera e propria mancanza di pudore: fra una pagina e l’altra Shaun riporta incontri ravvicinati del terzo tipo in cui potenziali clienti pretendono sconti su libri già scontati, vanificano gli sforzi organizzativi del personale seminando libri a casaccio nel locale, cancellano e sostituiscono i prezzi scritti a matita sulle etichette e si presentano al bancone con tutta la superbia di chi crede che il libraio sia un fessacchiotto sonnacchioso affetto da amnesia che gli venderà un volume del 1800 rilegato in cuoio alla modica cifra di una sterlina e mezzo.

Ma Shaun è ormai impermeabile a queste dimostrazioni di inciviltà e reagisce alle provocazioni come un vero gentiluomo: con risposte al vetriolo e un umorismo irresistibile. Della stessa natura è Nicky, la sua eccentrica assistente in pianta stabile, che nasconde sempre delle sorpresine culinarie sotto la manica (specialmente di venerdì, giorno in cui si palesa in negozio con succulenti manicaretti da lei scovati in supersconto al discount) e delle frecciate argute sotto la lingua.

Questa, una delle tante conversazioni marziane fra Shaun e una non-cliente:

Woman: ‘I was in your shop during the book festival and found a book about old ruined gardens of Scotland in your new books section. Could you tell me what the title is?’
Me: ‘No, I am afraid not. I know the book you’re after and would be happy to sell you a copy, though.’
Woman: ‘Why won’t you tell me the title?’
Me: ‘Because as soon as I do you’ll just go and buy it on Amazon.’
Woman: ‘No, I’ll send my mother round to pick it up from you.’
Me: ‘Oh good, in that case can I take your credit card details and your mother’s name? I’ll put it to one side once you’ve paid for it.’
At this point she hung up.


… è platino!

A dispetto della maleducazione e della cinghia da tirare, però, Shaun non demorde. Niente, per lui, è secondo alla scarica di adrenalina che suscita il ritrovamento fortuito di un volume raro fra migliaia di contenitori di carta straccia. Il negozio è infatti solo metà del suo lavoro: col suo furgoncino scorrazza di paese in paese rispondendo agli appelli di persone che, per un motivo o per l’altro (lutto in famiglia, mancanza di spazio, trasloco, necessità di denaro…), si rivolgono al suo servizio per sgombrare quintali e quintali di libri. Le collezioni di cui bisogna disfarsi sono le più disparate: si va da libri conservati come reliquie a raccolte seppellite da diversi strati di peli di gatto, da repertori di teologia, difficilmente vendibili, a cataste di volumi sui treni e i sistemi ferroviari. Sorprendentemente, la compravendita di questi ultimi è una delle più floride e remunerative per il negozio.

Grazie al carattere autobiografico del romanzo, per noi lettori si sprecano i riferimenti al mondo reale, come le recensioni del negozio su TripAdvisor. Non mancano, inoltre, chicche quali il sito web della libreria, la pagina Facebook e il canale di YouTube dell’autore.


La condanna ad Amazon

Da innocua strisciolina di fumo a nuvolone pestilenziale. Da umile concorrente a gargantuesco mietitore che falcia tutti i piccoli commercianti sul suo cammino e contribuisce alla loro estinzione.

Dire che tra Shaun e Amazon non scorre buon sangue è un eufemismo: Shaun odia Amazon. Lo odia perché può permettersi di giocare al ribasso, lo odia perché la vendita di libri al dettaglio non sbanca il lunario e i guadagni vanno integrati con le vendite via internet. Shaun odia così tanto l’azienda di Bezos da aver affisso in negozio, a mo’ di oggetto coreografico, un Kindle che lui stesso si è concesso il lusso di trapassare con un proiettile. Con lo stesso orgoglio di un cacciatore che imbalsama un cervo e ne appende il palco di corna sopra la porta del rifugio alpino, Shaun esibisce in bella vista, nel regno dove lui governa sovrano, il simbolo del suo Nemico Giurato: la concorrenza sleale di Amazon.


Ripetitivo ma trascinante

L’unica critica che mi sento di muovere punta il dito contro l’eccessiva lunghezza del romanzo: Nicky che timbra il cartellino in ritardo di un quarto d’ora, le condizioni meteorologiche del cielo sopra Wigtown, gli ospiti del negozio, le toccate e fuga per una pinta al pub… è con questo ritmo che Shaun si barcamena giorno dopo giorno, un viver quotidiano che viene talvolta interrotto da ristrutturazioni, gatti randagi che si intrufolano in casa, passeggiate in natura e weekend trascorsi ad attendere un salmone all’amo.

A circa 3/4 del percorso, insomma, ho trovato il romanzo un po’ ripetitivo. Ciò non toglie che l’epilogo porti con sé un senso di completezza: varchiamo l’ingresso di The Book Shop il 5 febbraio e ci congediamo il 4 febbraio dell’anno successivo. Per 365 giorni viviamo al fianco di Shaun. Abbiamo modo di fare la conoscenza dei suoi amici, del suo gatto, della sua casa. Assorbiamo il suo modo di pensare e l’etica del suo lavoro. Impariamo a stimare le sue iniziative volte a far fronte all’avanzata imperante del commercio digitale. Arriva un punto in cui noi stessi ci sentiamo come a casa nostra, in questa intima atmosfera di scaffali fino al soffitto, e nonostante le doverose potature tiriamo la maniglia verso di noi con più di un tentennamento. Magari qualcuno di voi che leggerà il romanzo si sentirà, come è capitato a me, colto dal desiderio improvviso di stringere la mano di Shaun in prima persona.

Punta di diamante della cronaca di un anno sarà il festival del libro che si tiene a Wigtown nell’ultima settimana di settembre. Allora la libreria si tinge a festa, il dedalo di corridoi si popola di visitatori e la cassa straborda di banconote. L’ultimo alito di vita prima del lungo letargo invernale. Poi, a seguire, di nuovo il disgelo. Vale la pena, per Shaun? Eccome. Questo è il ciclo della sua vita, e da lettrice che non disdegna i libri di seconda mano non posso che augurargli cento di questi anni.


Per concludere

Un acquisto imprescindibile per chi si considera lettore forte o amante dei libri di seconda mano.

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Mezza stellina.

La lepisma libraia

[Recensione] “I guerrieri di Wyld. L’orda delle tenebre” di Nicholas Eames

Copertina de I guerrieri di Wyld. L'orda delle tenebre.

Amanti del fantasy e nerd incalliti a rapporto!

Più di 500 pagine di succose avventure che strizzano l’occhio agli RPG degli anni Novanta vi aspettano in libreria questo 8 febbraio (spero quindi perdonerete le citazioni in lingua originale). Se avete bruciato pomeriggi a brandire mazze chiodate contro orchetti e viverne, a collezionare tutto un armamentario di spadoni e cotte di maglia leggendarie e dai nomi arcani, a distribuire minuziosamente punti abilità ai vostri avatar, se per voi titoli quali Dungeons & DragonsMight and Magic, WarcraftIcewind Dale e Sacred suscitano un senso dolceamaro di nostalgia, allora dovreste sentirvi moralmente obbligati a leggere il romanzo d’esordio del talentuosissimo Nicholas Eames.

 

Titolo: I guerrieri di Wyld. L’orda delle tenebre
Autore: Nicholas Eames
Genere: fantasy/umoristico
Editore: Nord
Pagine: 550

Il pacifico regno di Castia è stato invaso dall’orda di HeartWyld, un devastante esercito di orchi e mostri. Un tempo, Clay Cooper sarebbe stato in prima fila per combatterlo: lui e la sua banda di mercenari erano guerrieri straordinari e le loro imprese sono leggendarie. Ormai però sono passati vent’anni e i giorni di gloria sono finiti. La Castia è lontana e Clay deve pensare a proteggere la sua famiglia. Ma tutto cambia quando alla sua porta bussa Gabe, il loro vecchio comandante: la figlia è scappata di casa per unirsi alla resistenza castiana e Gabe deve salvarla. Anche perché l’unico modo per raggiungere la Castia è superare il Wyld, un luogo selvaggio e pericoloso, infestato da più orrori di quanti si possano immaginare. E Clay è costretto a rendersi conto della minaccia che incombe su di loro: senza rinforzi, la Castia è condannata e sarà solo questione di tempo prima che l’orda continui la sua marcia di morte. Ma nessuno è in grado di affrontare il Wyld. Tranne loro, gli unici ad averlo attraversato ed essere sopravvissuti per raccontarlo. Clay e Gabe non hanno dubbi: devono rimettere insieme la banda. Insieme, potrebbero diventare l’ultima speranza per l’intera stirpe degli uomini…

Voto:

 

La recensione

Sacred, un RPG per computer uscito nel 2004, ha fatto la mia adolescenza. Col tempo ho un po’ abbandonato l’ossessione per i giochi di ruolo, e quando tre anni fa, spinta da chissà quale ricordo, ho provato a installarlo sul desktop, non mi sono strappata i capelli nel rendermi conto della completa, assurda incompatibilità del gioco con la mia versione di Windows 7.

Devo puntare un dito accusatore verso I guerrieri di Wyld se ora mi ritrovo a fremere davanti al computer con la coscienza divisa in due inconciliabili fazioni: quella che “ora che hai Windows 10, magari il gioco funziona, perché non provi a reinstallarlo?” e quella de “hai di meglio da fare che accoppare goblin e portare il tuo mago guerriero di ghiaccio con set di Blackstaff a livello 200”.

Sì, I guerrieri di Wyld fa questo effetto. Non è un epic fantasy da prendere sul serio: è un tributo, in forma parodistica, ai cultori del genere fantasy e ai giochi di ruolo che si ispirano a questo filone, e come questi giochi è intriso di azione. Così tanti sono i combattimenti degni di nota – tutti, praticamente – che sembra quasi di essere protagonisti di un videogioco ed è difficile scegliere un vincitore.

 

I componenti di Saga

Clay: un padre, un marito, un uomo di poche pretese i cui propositi di un’esistenza serena e lontana dalle luci della ribalta dei tempi d’oro della banda vengono sbrindellati dall’improvvisa comparsa di Gabriel sui gradini di casa. La notorietà del passato non ha scalfito la sua umiltà. I suoi occhi sono il punto di vista da cui è narrata la vicenda ed è un protagonista con cui viene naturale empatizzare: quando decide di imbarcarsi in quella che ha tutta l’aria di essere una missione suicida, le sue paure sono tutt’altro che infondate. Imbraccia Blackheart, uno scudo unico nel suo genere – non lo sottovalutate: se vi dà il benvenuto sui denti, son dolori.

Moog: imparerete ad adorare le bizzarrie del suo personaggio. Mai a corto di trucchi nel suo cappello, Moog è uno stregone che ha dedicato parte dei suoi studi per distillare un equivalente del nostro Viagra, dal nome “allitterazionante” di Magic Moog’s Magnificent Phallic Phylactery, grazie al quale si è rimpinguato le tasche nei lunghi anni seguiti allo smantellamento della banda. Il suo mantra? There’s a way. It’s risky, though.

Gabriel, per gli amici Gabe: nonostante gli acciacchi incipienti della mezza età, non ha problemi ad affettare i nemici con turbini di fendenti della sua spada, Vellichor, che brandisce con precisione svizzera. Da anni accarezza l’idea di rifondare la squadra di mercenari in un continuo susseguirsi di buchi nell’acqua, ma quando è in gioco la vita di sua figlia Rose, l’amore di padre gli infonde la determinazione necessaria a perseguire il suo intento fino alla fine.

Matrick: ladro di professione convertito a regnante. Se gli agi di un’esistenza condotta in panciolle fra cuscini di piume, tavole imbandite e bicchieri di vino gli hanno conferito una circonferenza un po’ tondeggiante lungo la vita, il peso eccessivo sulle gambe non lo rende meno letale quando dai muscoli della mascella si tratta di scendere a quelli delle braccia: Roxy e Grace, i pugnali gemelli che mulina con destrezza da danzatore, fanno di lui un combattente da cui è meglio tenersi alla larga.

Ganelon: un gigante d’uomo, stimato da tutti per le sue sbalorditive abilità di combattimento con Syrinx, la sua ascia. Il “guerriero” propriamente detto, una dinamo a riserva di carburante infinita. L’ultimo a dover essere reclutato, il membro il cui rifiuto significa la morte certa dell’impresa.

Sono personaggi talmente vividi da farsi persone. Hanno desideri, affetti, difetti. Mai come in questo caso sono validi i detti l’unione fa la forza e tutti per uno, uno per tutti: Gabriel non ha alcuna possibilità di portare a termine la missione da solo, ma quando Clay risponde al suo SOS come soltanto un migliore amico può fare, e mano a mano che i fili solitari di questi cinque amici si ricuciono nella formazione originaria, niente e nessuno può più districarli. Dopo quasi vent’anni trascorsi ognuno nel proprio isolamento, i mercenari sono pronti a un ultimo gesto eroico prima che la vecchiaia inclemente li privi del tutto della loro passione di avventurieri.

E se il gentil sesso non trova un posto in questa schiera dalle ginocchia vagamente cigolanti, non commettete l’errore di pensare che I guerrieri di Wyld non faccia scendere in campo presenze femminili di tutto rispetto. Allo squinternato quintetto, infatti, fa da contorno una pletora di personaggi l’uno più indimenticabile dell’altro. Le personalità secondarie, spesso e purtroppo relegate al ruolo di spalla o di piantina ornamentale, trovano qui finalmente giustizia.

 

Lo stile

Eames sorprende fin dalle prime righe per la sua abilità scrittoria e gestione della narrazione. Non si ravvisano periodi morti, sbavature di punti di vista né rallentamenti, il ritmo è serrato e le descrizioni degli scontri sono di una qualità che perfino autori più affermati, che davanti alla scrivania hanno piantato radici vecchie di anni, stentano a raggiungere: Clay registra il mondo di Grandual coi suoi occhi e ce lo consegna senza sconti né riassunti, in tutta la sua ricchezza di dettagli concreti.

La costruzione del mondo, in inglese worldbuilding, pilastro portante dei romanzi fantasy, è anche lei di ottimo livello: la gente di Grandual professa una religione politeista, il trambusto delle città giunge ai nostri sensi come se lo stessimo vivendo e respirando in prima persona; il mondo pullula di creature dai nomi immaginifici, fra le quali si annovera la razza dei druin (si attende la traduzione in lingua italiana), che colpisce per essere un curioso miscuglio tra fisionomia umana e soffici orecchie da coniglio.

A questa razza appartiene l’Evil Lord di turno, LastLeaf (“UltimaFoglia”), capitano dell’orda delle tenebre menzionata nella sinossi. Lungi dall’essere il concentrato di stereotipi cui il termine Evil Lord allude, LastLeaf si rivela un personaggio con una propria personalità e una giustificazione plausibile alla smania di seminare un bel po’ di Disperazione & Carestia in quel di Castia. Non deridete le sue orecchie, potrebbe risentirsene.

Una nota di merito va senz’altro all’umorismo e alle similitudini nient’affatto scontate:

Matty’s voice had found a tone that balanced on the blade’s edge between pleading and placating. Clay imagined it was what a talking dog might sound like while explaining to its master why it had shit all over the rug.

[…]

The booker’s toothy grin withered like a cock in cold water.

 

Schitarrate e scazzottate per tutti i gusti

Dal momento in cui il cerchio della banda si chiude con l’annessione dell’ultimo componente fino alla parola fine, si assiste a un crescendo di azione e adrenalina che esplode, alla stregua di fuochi d’artificio, nello scontro che verrà consacrato negli annali e che decreterà il successo o meno dell’impresa (salvare Rose dall’assedio che tiene in scacco la città di Castia) e il destino del continente di Grandual stesso. Gli ultimi capitoli serbano scazzottate a non finire. E quando la polvere finalmente si posa a terra a indicare la conclusione del conflitto, l’istinto è quello di sfogliare le pagine a ritroso per rivivere, sulla nostra pelle d’oca di lettori assorbiti dal libro fino all’ultimo neurone, l’euforia della battaglia finale. Non mancano, in questo tripudio di assoli, interludi più profondi e riflessivi, addirittura toccanti.

Se il clima suona rockettaro, è perché lo è: sul sito di Nicholas Eames trovate, oltre a una galleria di concept art e a una mappa del mondo dal sapore piuttosto tolkieniano (osservate un minuto di silenzio reverenziale per il lavoro certosino dietro a ogni singolo albero di HeartWyld, prego), la colonna sonora che ha ispirato l’autore nella stesura di ogni capitolo. Lo stesso autore, nei contenuti extra in coda al libro, parla del filo rosso che collega Saga a una band rockettara:

[…] the weapons I assigned to each of the main characters were due to their assigned role in a metaphorical rock band—the most obvious being Matrick wielding a pair of “drumstick” knives and Ganelon using an axe, which is, of course, slang for “guitar.” Clay was envisioned as the guy on bass whose name everyone forgets but without whom the song just doesn’t feel right.

Matrick è il batterista, Ganelon il chirarrista e a Clay è assegnato il ruolo spesso trascurato, ma fondamentale, del basso. Gabriel? È il frontman, naturalmente.

 

Il romanzo è autoconclusivo

Avete letto bene: sebbene sia il primo volume di una serie (il secondo si intitola Bloody Rose [“Rose la Sanguinaria”] ed è atteso nelle librerie inglesi il 24 aprile 2018), ogni libro si concentra su una determinata banda di mercenari ed è quindi una storia a sé stante.

 

Per concludere… Viverna? Drago?

I guerrieri di Wyld è un fantastico romanzo.

E la conoscete la differenza tra viverna e drago? No? Lasciate che vi spieghi, allora…

LastLeaf monta una viverna e Clay, in una delle sue rimuginazioni, si premura di rendere nota la differenza fra questi rettiloni sputafuoco. I draghi hanno quattro zampe, nelle viverne le zampe anteriori sono fuse allo scheletro delle ali. Smaug non è un drago, è una viverna! (E neanche tu puoi fregiarti della nomenclatura di drago, o ruggente Drogon.) Ogni volta che qualcuno dice che drago o viverna sono la stessa cosa, da qualche parte c’è un fedelissimo del fantasy che soffre di un attacco di cuore. Grazie, Eames.

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La lepisma libraia

[Recensione] “Zia Mame” di Patrick Dennis

Copertina di Zia Mame di Patrick Dennis.

Zia Mame di Patrick Dennis è uno di quei libri che incrociano sempre il nostro sguardo alla solita puntatina in libreria, ma che, per un motivo o per l’altro – sindrome dello Studente Squattrinato, animo dello Scozzese e altre varie ed eventuali – rimangono lì, dolenti, a guardarci andare via, quasi come bimbi con le braccine allungate in attesa di un abbraccio che sistematicamente viene negato.

Poi, un bel dì d’inverno, quando per strada aleggiano temperature da Polo e in libreria venti, godibilissimi gradi, il nostro spirito approfittatore emerge dal letargo e ci impone ispezioni fra gli scaffali più pacate e ponderate. Allora finiamo per prenderci il nostro tempo nell’esaminare ogni singola costa di libro per leggerne il titolo. In seguito, ci cade l’occhio proprio su quel volume che abbiamo così tante volte bistrattato, e spinti da un improvviso istinto genitoriale lo solleviamo, lo soppesiamo fra le dita, ne leggiamo la quarta di copertina. Infine lo prendiamo in custodia fino alla fine del sopralluogo, fino a quando, s’intende, lo appoggeremo, certi della nostra adozione, sul bancone davanti al cassiere di turno.

Questa, ove non inquinata da difetti di memoria, è stata la storia della mia copia di Zia Mame.

Ma alla zia Mame in carne e ossa, alla protagonista dell’omonimo romanzo, cioè, questa libertà di scelta è stata preclusa. Non ha potuto scegliersi un bimbo da adottare, lei, perché gliene è stato affibbiato uno in affidamento: il nipote, a essere precisi, un ragazzino di anni dieci cui è appena morto il padre, fratello di zia Mame.

Titolo: Zia Mame
Autore: Patrick Dennis
Genere: umoristico
Editore: Adelphi
Pagine: 264

Immaginate di essere un ragazzino di undici anni nell’America degli anni Venti. Immaginate che vostro padre vi dica che, in caso di sua morte, vi capiterà la peggiore delle disgrazie possibili, essere affidati a una zia che non conoscete. Immaginate che vostro padre – quel ricco, freddo bacchettone poco dopo effettivamente muoia, nella sauna del suo club. Immaginate di venire spediti a New York, di suonare all’indirizzo che la vostra balia ha con sé, e di trovarvi di fronte una gran dama leggermente equivoca, e soprattutto giapponese. Ancora, immaginate che la gran dama vi dica “Ma Patrick, caro, sono tua zia Mame!”, e di scoprire così che il vostro tutore è una donna che cambia scene e costumi della sua vita a seconda delle mode, che regolarmente anticipa. A quel punto avete solo due scelte, o fuggire in cerca di tutori più accettabili, o affidarvi al personaggio più eccentrico, vitale e indimenticabile che uno scrittore moderno abbia concepito, e attraversare insieme a lei l’America dei tre decenni successivi in un foxtrot ilare e turbinoso di feste, amori, avventure, colpi di fortuna, cadute in disgrazia che non dà respiro – o dà solo il tempo, alla fine di ogni capitolo, di saltare virtualmente al collo di zia Mame e ringraziarla per il divertimento.


Zia Mame: la recensione

Alla morte del padre, Patrick, bambino decenne, viene affidato alle cure e tutele di una zia, ultima parente rimasta in vita, la quale lo prende volentieri sotto la sua egida. Da qui la trama è molto semplice e si snoda attraverso le peripezie che vedono, come protagonisti, zia Mame e l’orfanello in questione. Il libro si configura come un romanzo atipico del suo genere perché, sebbene segua un arco temporale che corre dagli eventi più lontani (l’incontro fra zia Mame e l’orfanello) agli eventi più recenti, le vicissitudini della strana coppia sono intervallate, all’inizio di ogni capitolo, da flashforward di un Patrick ormai adulto che fungono da cornice per l’intero romanzo.

In pratica Patrick, ormai uscito dal nido adottivo, coglie l’occasione data da un eccentrico articolo di giornale per ripercorrere mentalmente la propria vita e raccontare al lettore, in prima persona, le peripezie che negli anni lo hanno visto coinvolto insieme a quella mina vagante della sua tutrice, zia Mame. Ogni capitolo può leggersi in realtà come un racconto autoconclusivo. Così riuniti, in ordine cronologico, col brillante espediente dell’articolo giornalistico, questi aneddoti, esposti con uno stile semplice ma mai banale e conditi da un’ironia sottile e irresistibile, danno vita a uno dei miei acquisti più azzeccati degli ultimi anni.


Una dinamo di zia

Nonostante sia di Patrick l’identità narrante, però, è zia Mame la vera diva del romanzo e a lei è infatti dedicato il titolo del libro. Forte della propria personalità vivace, prorompente e invadente, zia Mame esercita un fascino magnetico e sembra attrarre a sé non solo gli occhi del mondo newyorkese degli anni Venti (scenario in cui si ambienta il romanzo), ma anche e soprattutto il nipote, che viene trascinato, volente o nolente, in un vortice di satin colorati, di frizzi, di lazzi, di scuole al di sopra di ogni avanguardia, fra i campi coltivati del Sud degli Stati Uniti, su atolli vacanzieri, fra incidenti su incidenti l’uno più spassoso dell’altro.

All’osso di tutto, l’evoluzione del rapporto fra Patrick e zia Mame: fra orfanello sperduto e tutrice prima, fra adolescente e tutrice poi. Non è raro assistere a uno scambio di ruoli grazie a una dinamo di zia che, malgrado la sua età, mostra una vitalità e un entusiasmo inossidabili. Il nipote, ligio al dovere, diventa così, all’occasione, il Grillo Parlante della zia quando questa si ritrova – e si ritrova spesso – in pantani di guai da cui è possibile fuggire solo con una sana dose di coscienza propinata dall’esterno.

Pantano dopo pantano, l’infelice conclusione arriva comunque troppo presto. E non me ne vogliate per quell’infelice, perché non si tratta di uno spoiler, no: bensì, sarà la descrizione del vostro stato d’animo nell’accorgervi che non ci saranno altre spassosissime pagine da sfogliare.

Dennis, e di riflesso la sua creatura dalla voce narrante, possiede (possedeva, perché dal 1976 non è più) quella rara capacità di osservare il mondo con il distacco necessario a coglierne gli aspetti più strani e amplificarli fino a ottenerne una caricatura. È facendo uso di questa capacità che l’autore ha delineato e impreziosito il suo lavoro, usando uno stile comico che, in quanto a semplicità e personalità, non prende lezioni da nessuno.

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