[Recensione] “Le parole di luce” di Joanne Harris

Prima ci fu Il canto del ribelle. Poi fu il turno di The Testament of Loki (traduzione italiana tutt’ora avvolta nel mistero). Terzo per ordine cronologico (non di pubblicazione), Le parole segrete. Infine, il quarto e ultimo posto in fila lo troviamo occupato da Le parole di luce, quest’oggi esposto sul vetrino perché la lepisma ne analizzi la cellulosa a livello molecolare. Con questo romanzo, l’uroboro si morde la coda e chiude la quadrilogia di scritti che Joanne Harris ha consacrato ai miti norreni. Come anticipato dalla Harris è molto probabile che il quadri diventerà penta, ma l’autrice non ha rilasciato alcuna coordinata temporale entro la quale aspettare l’uscita in sala di un quinto volume. Nel frattempo, perciò, godiamoci i piatti che son già in tavola.

Si avvisano i gentili lettori che questa recensione contiene spoiler sulla trama del libro prequel Le parole segrete. Se il titolo non figura tra le vostre letture pregresse, procedendo a scrollare questo articolo vi assumete per silenzio assenso ogni responsabilità del vostro gesto scellerato. Alla lepisma potrete rinfacciare solo di non avervi cacciati con più solerzia.

Titolo: Le parole di luce
Autore: Joanne Harris
Genere: fantasy/young adult
Editore: Garzanti Libri
Pagine: 593

Maddy e Maggie hanno la stessa età, ma non potrebbero essere più diverse. Maddy è coraggiosa e ribelle; Maggie, invece, ama le regole e la disciplina. La sua passione sono i libri antichi. E solo immersa tra quelle pagine che riesce a non sentirsi sola. Eppure c’è qualcosa di misterioso che unisce le due ragazze nel profondo. Un marchio sulla loro pelle: una runa. Un simbolo considerato da tutti una maledizione, un flagello. Perché nel mondo dove vivono Maddy e Maggie la magia è proibita. Giocare è vietato. E sognare è considerato il più terribile dei peccati.

Ma c’è qualcuno che non ha paura di quel segno antico. Adam, un sorriso che toglie il fiato e due occhi azzurri impenetrabili dietro cui si nasconde un oscuro passato. All’inizio Maggie cerca di allontanarlo, ma poi non riesce a resistere alla forza sconosciuta che la attira verso di lui: il ragazzo è l’unico a conoscere il segreto scritto nella runa. Un segreto che parla di lei, delle sue origini e della scomparsa della sua famiglia. Un segreto che custodisce una minacciosa profezia che sta per compiersi: il loro mondo e il loro amore sono in pericolo. Maggie è la sola in grado di difenderli. Ma per farlo deve essere pronta ad accettare il suo destino. Un destino che la lega in modo indissolubile a Maddy. Le due ragazze hanno bisogno l’una dell’altra. Finalmente sono vicine come non mai, ma allo stesso tempo inesorabilmente lontane.


Le parole di luce: la recensione

Le parole segrete ci ha abbandonati su una fulminante rivelazione: Maddy è Móði, progenie profetizzata di Thor. Nell’assestare qualche pacca consolatrice a un dio del Tuono derubato degli eredi maschi (ma in corso d’opera avrà tutte le ragioni per inorgoglirsi anche di una figlia femmina), passiamo in rassegna i nuovi volti dei vecchi dèi.

C’è chi è stato tutto sommato fortunato, come Thor nelle sembianze del nerboruto Dorian Scattergood, e chi non può che grufolare e manifestare a incomprensibili grugniti la propria indignazione come la permalosissima Sif nelle rotondità adipose del corpo di una scrofa. Sembra che gli dèi – con diversi gradi di apprezzamento – siano scesi a patti con i loro aspetti e conducano una vita tutto sommato regolare nella Malbry del mondo di sopra.

Il mondo di sopra, tuttavia, non soddisfa le loro divine aspirazioni. Dal giorno della caduta gli dèi mirano con nostalgia alla loro casa nel cielo, ora cumulo di rovine. La loro vita ha imboccato un binario che scorre in un deserto dove rotolano le palle di salsola e gli dèi si sono rassegnati a rimanere infognati in corpi che non sono i loro, in esistenze terrene che non sono state tagliate per loro. Non c’è speranza di smettere i cenci del Popolo per calarsi di nuovo nella seta asgardiana.

Ma ecco, tra capo e collo, l’imprevisto: l’orizzonte uniforme si spezza in un tracciato che si snoda in un bivio. A tirar dritto sul binario monco davanti a voi abbraccerete l’impatto con un paraurti di adamantio. L’altro tracciato, in rotta di avvicinamento alla stessa velocità dei vostri iperturbati pensieri, si incurva e si fonde in lontananza con l’estremità di un arcobaleno e già sapete, memori dei tempi d’oro che furono, quali meraviglie vi aspettano dall’altra parte del ponte a semicerchio. Per esserne testimoni, tuttavia, dovete prima deviare dalla traiettoria di morte che state cavalcando a velocità ultrasonica.

Il deviatoio si chiama soluzione della profezia appena formulata e sta a voi ricomporre il puzzle per dirottare il convoglio verso la Asgard 2.0. A complicare le cose, però, vi insegue dappresso un brigante apparso da chissà dove in sella a un dromedario. Non solo l’animale tiene testa al treno, ma con le zampe sparge mangiate di sabbia per aria che vi ostacolano la visuale. Oltretutto, in quello che vi riesce di intravedere nella nuvola di granelli vorticanti, vi sembra che questo brigante abbia degli occhi inquietantemente famigliari.

Questo brigante si chiama Maggie e nessuna opera di proselitismo varrà a farlo desistere dal suo obiettivo: impedirvi di girare al crocevia.


Qualcuno tappi la bocca a quell’oracolo!

“Vedo un possente Frassino accanto a una Quercia possente.
Vedo alto un Arcobaleno, eredità d’ingannevole Morte.
Ma Tradimento e Massacro con Follia volano in cielo
e quando si romperà l’arco, allora la Culla cadrà
e poi la Quercia e il Frassino, tutto cascherà.

La Culla cadde un’era fa, ma sorgerà da Popolo e Fuoco
in dodici giorni, alla Fine dei Mondi; un dono nel sepolcro.
Ma la chiave del cancello è figlia dell’odio, figlia di entrambi e nessuno.
E nulla di sognato è mai perduto, e nulla perduto per sempre.”

Fedele all’impostazione del mito da cui trae ispirazione, la trama de Le parole di luce, come Le parole segrete prima di esso, ruota attorno al contenuto di una nuova profezia. Il concetto di predestinazione, d’altronde, condiziona tutti i racconti del mito norreno: ne è il filo conduttore, è la certezza della caduta da cui non ti puoi sottrarre. L’Edda poetica stessa esordisce con la profezia detta Vǫluspá dove si narra della creazione del mondo e del ciclo di vita e di morte potenzialmente infinito a cui sarà sottoposto (Ragnarǫk).

Se ti chiami Odino, ad esempio, sai già che l’ultimo alito di vita lo esalerai infilzato tra le zanne bavose del lupo figlio di tuo fratello, e che quel bastardo e infingardo di tuo fratello ingaggerà battaglia con Heimdallr, e che i due si stroncheranno la vita a vicenda in un’apocalisse globale alla quale sopravviverà solo il ramo più giovane dell’albero genealogico divino. Già sai tu, vecchio guercio sotto al cappello a tesa larga, che sarai estromesso dal mondo che rinascerà dalle ceneri di Asgard. Le profezie sono ineluttabili. Non ci sono finali alternativi a quello predetto, né sotterfugi che tu possa escogitare affinché il destino prescritto rimanga solo il delirio psicotico di una cariatide un po’ matta (Vǫlva). Ti metti l’anima in pace, punto.

Le parole di luce esordisce con una profezia dall’impostazione molto simile: il mondo come lo conosciamo cadrà, ma risorgerà dalle proprie rovine. Non lo farà tuttavia da solo, in autonomia, gli servirà una mano che lo tiri su dall’alto. Ai nostri protagonisti decifrare il contenuto e capire cosa fare perché si avveri.

Insomma: la vecchia Asgard è andata perduta, ora è tempo di rilasciare una nuova versione della cittadella celeste che sia corretta da tutti i bug e, soprattutto, inespugnabile da qualsiasi malware dei Nove Mondi. E si sa che il fiume Sogno abbonda di materiali da costruzione… forse questa leva di scambio è più a portata di mano di quanto si pensi.


Io, francamente, continuo a capirci poco

Questi libri della Harris parlano di sogni e a trascrizioni oniriche assomigliano: in loro è assente qualsiasi senso di consequenzialità, al pubblico passivo stimolano l’innalzamento di un sopracciglio confuso mentre la trama procede a tre passi avanti e due indietro. L’impianto de Le parole di luce, come anche degli altri volumi di questa serie, tenta più volte il colpo di scena con la tecnica reiterata del “detto dopo”. Ci sono scrittori che della slealtà moderata fanno una virtù; altri, come la Harris, che sembrano non avere il senso della misura per fermarsi prima di esagerare e stancare il lettore a suon di rivelazioni.

In spiccioli: i colpi di scena colpiscono se sono pochi. Per dirla con una deriva dialettale di queste parti, i colpi di scena della Harris mi hanno sgionfato (dialettale per stufato).


Ricicliamo la carta, non i cattivi

E mi ha sgionfato anche il cattivo. Non puoi proporre lo stesso identico antagonista in tre libri su quattro, Joanne! Persino la Rowling, col suo villain potenzialmente immortale, non è arrivata a tanto!

No, Maggie non è l’antagonista. Di ciò che posso svelare di lei senza incorrere in spoiler parlerò nel paragrafo successivo, ma per ora lasciatemi mettere nero su bianco questo enunciato: Maggie non è il cattivo. Maggie è solo una pedina, una ragazzina turlupinata e sedotta da belle parole e false promesse infiocchettate con nastrini di raso. Il vero nemico, invece, è qualcuno che conosciamo fin troppo bene. Ne Le parole di luce ritroviamo dunque l’atmosfera da Fine dei Mondi con gli dèi che devono (ri)salvare l’universo dallo stesso cattivo che l’ha già minacciato l’altra volta.

E che barba, che barba, che noia… ma neanche la cricca di Jurassic Park, d’altronde, ha capito che il fascino del T-Rex è inversamente proporzionale al numero di volte che lo porti su schermo.


Maggie, stupidotta Maggie

La star decaduta de Le parole di luce è Maggie, coetanea di Maddie. È chiaro fin dalle prime pagine che Maddie deve aver fatto un uso migliore di Maggie dei nutrienti nel liquido amniotico, perché fra loro due c’è una netta disparità di materia grigia.

Maggie è una pecora smarrita, una pecorella nata fuori dal recinto. Anziché raggiungere il gregge che la chiama a grandi belati dall’interno della staccionata, Maggie preferisce spassarsela con Amico Lupo. Chi le darebbe torto, d’altronde? Le pecore nel recinto brucano erba che cresce a stento mentre Amico Lupo torna ogni sera a vezzeggiarla con zuppiere di steli della migliore qualità. Le riempie la pancia senza chiedere altro in cambio, le permette di scaldarsi dormendogli accanto.

Nel sentirsi al centro dell’attenzione, trattata come neanche una regina, Maggie gira il codino a beneficio delle altre pecore e continua a mangiare a sbafo, mentre il lupo si lavora la bava in bocca e con l’olfatto della mente annusa l’arrostino d’agnello con patate nel quale, terminato il periodo d’ingrasso, Maggie si trasformerà.

Maggie nega l’evidenza dei maltrattamenti per continuare stolidamente a definirsi innamorata del suo carceriere. Un amore, il loro, che scocca non si sa bene da quale arco, un rapporto irrealistico impresso su carta per convenienza di trama e niente altro. Vado a pesca della metafora più zuccherosa e smancerosa del mio repertorio di galantuomo paragonando i tuoi occhi a stelle del firmamento e *boom*, fra noi ci si dichiara amore imperituro. Ma da quando?

Al di là del fatto che ogni parola di un libro andrebbe comunque valutata in funzione dell’importanza che ricopre nello sviluppo dell’intreccio narrativo (una buona attività di scrematura del superfluo che spesso viene ignorata e violata senza pudore), deve comunque percepirsi lo sforzo da parte dell’autore di coltivare relazioni tra personaggi che imitino le dinamiche sociali del mondo reale.

Maggie è clinicamente stupida, di quella forma di inverosimile stupidità che non posso soffrire.


Potpourri divino

Vale a dire una ciotola che raccoglie di tutto un po’. Al solito, di tutto l’assortimento di fiori secchi si salvano solo pochi petali: Odino, Loki e i corvi Huginn e Muninn (una piacevolissima entrata in scena, la loro; da soli, intrattengono il pubblico meglio di quanto faccia il cast principale con la sua trentina di personaggi). I personaggi de Le parole di luce sono ancora una volta monodimensionali, mere incarnazioni delle principali forze di natura. Perfino ai nemici degli Æsir manca la verve: non è un buon cattivo colui che non dà l’aria di poter gettare più di un sassolino a intralciare l’ascesa del protagonista.


Quell’OOC che mi è sempre rimasto in gola

C’è poi un piccolo quanto fastidioso problema che avevo già ravvisato ai tempi della recensione de Il canto del ribelle e che voglio dare in pasto al responso del web una volta per tutte: nei romanzi della Harris, la relazione tra Loki e Sigyn è terribilmente OOC (dall’inglese Out Of Character, carattere non fedele a quello canon). Sarà che in queste settimane sto procedendo a una rispolverata dei vecchi episodi di Vikings, sarà che c’è una certa scena che mi si è marchiata a fuoco nelle retine, sarà che ho letto il libro con questa nuova consapevolezza… insomma, un’immagine vale più di mille parole e quella determinata scena a me è rimasta impressa come “rappresentazione ultima della fedeltà coniugale”. Ma procediamo per gradi a raccontare ciò che accade nel mito norreno.

Loki uccide Baldr. Viene condannato a scontare una pena esemplare: legato a una roccia dalle budella dei suoi figli uccisi per mano degli altri dèi, scandirà l’eternità contando le gocce di veleno che stillano dalle zanne di un serpente appeso sopra la sua testa. La moglie Sigyn arriverà in suo soccorso, le braccia tese verso l’alto a raccogliere il veleno in una ciotola. Goccia dopo goccia, la ciotola finirà tuttavia per riempirsi fino all’orlo: arriverà il momento in cui Sigyn sarà costretta ad allontanarsi per andarla a svuotare. In quei secondi infiniti, gocce di veleno saranno libere di conciare il viso di Loki come una fetta di Leerdammer. Questo, secondo i vichinghi, scatenava i terremoti (e scusateli, ai loro tempi non c’erano facoltà di Geologia a cui iscriversi).

Che conclusioni traiamo da questa punizione? Che gli dèi hanno voluto colpire Loki nel suo metaforico tallone: uccidendo i suoi figli e offrendo sua moglie (madre dei figli uccisi, tra l’altro) a un’eternità di afflizione. Ricaviamo che questo aneddoto del mito è stato concepito dal suo creatore come, appunto, “rappresentazione ultima della fedeltà coniugale”: Sigyn non abbandona il marito nemmeno quando avrebbe tutte le ragioni per farlo. Ricordo, infatti, che le leggi della società vichinga prevedevano il diritto al divorzio per entrambi i coniugi, e che il mito rispecchia la mentalità della gente di allora.

Il Loki de Le parole di luce se ne sbatte dei figli. In quanto alla moglie, vive la sua presenza con la stessa tolleranza che un misofobo riserva a un tizio che gli starnuta addosso. Che pena esemplare è se dei figli non ti importa un fico secco? Se voglio farti del male vado a colpire, giustamente, nelle aree dove so di farti un male boia. Non ti privo di qualcosa di cui so che non sentirai la mancanza. Capish, Joanne? Sono il dolore e il rancore, in ultima istanza, a trasformare il trickster caotico neutrale in una serpe vendicativa che aprirà le porte di Asgard alla progenie di Surtr, dettandone il destino di rovina.

OOC a parte, la sua interpretazione del personaggio è una di quelle che apprezzo di più. Il premio per la chiave di lettura più fedele a quella del mito, però, lo consegno senz’altro a Hilda Lewis. Nel suo racconto per bambini The Ship that Flew, infatti, riesce là dove Joanne Harris fallisce in quattro libri: inquadrare la figura di Loki con un solo scambio di battute. In quanto alla trilogia di Magnus Chase di Rick Riordan, sto ancora aspettando che la ferita lasciata aperta si rimargini…

E con questo mi son tolta il proverbiale – e pedante, ne sono conscia – sassolino dalla scarpa.


Non brutto, ma neanche bello

È probabile che i paragrafi precedenti suscitino l’idea che Le parole di luce non mi sia piaciuto. Mi è piaciuto, ma meno di quanto avrei voluto che mi piacesse. Ci sono scelte di intreccio e stilistiche che continuo a non condividere. Ci sono personaggi che son macchiette di latte su un foglio bianco e altri personaggi ancora che risaltano scarlatti come un bindi indiano sulla fronte. Fra le tante cose ho apprezzato, oltre ai già sopracitati Huginn e Muninn, il finale che ammicca al ciclo perpetuo di vita e morte, di inizio e di fine, espansione e riduzione, ma è poca cosa in relazione a un tomo da 600 pagine.

Il canto del ribelle si conquista la medaglia d’oro aggiudicandosi il premio per il libro più strutturato dei quattro. D’altronde, l’impalcatura era già quella pronta e prefabbricata del mito norreno: la Harris si è limitata al ruolo di tappabuchi ricoprendo lo scheletro con frattazzo e cazzuola.


Per concludere

Le parole di luce è criptico ma intrattiene quanto basta per invogliare a raggiungerne la fine. È una storia sul perseguire ciò che è giusto, che spesso non coincide con ciò che è facile, un racconto sul senso di appartenenza alla propria famiglia. La lezione più importante che se ne trae? Diffidate degli incantatori dalle bocche di rosa: hanno la mente di una serpe.

Stellina per recensioni.
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La lepisma libraia

[Recensione] “Le parole segrete” di Joanne Harris

Copertina de Le parole segrete.

Primo a essere pubblicato e terzo per ordine cronologico della serie Runemarks, Le parole segrete è un regalo di Joanne Harris agli estimatori dei miti norreni. La profezia del Ragnarok come raccontata dall’Edda si è avverata, la battaglia fra titani si è conclusa. Ma che ne è dei semi che attendono di sbocciare sotto alle macerie del vecchio mondo? Lo scenario post-Ragnarok è un territorio che nel mito è rimasto inesplorato: alla penna sagace della Harris l’incarico di elaborare una possibile evoluzione degli eventi.

Titolo: Le parole segrete
Autore: Joanne Harris
Genere: fantasy/young adult
Editore: Garzanti Libri
Pagine: 516

Nel villaggio di Malbry non è facile essere giovani e coltivare i propri sogni. Le regole e la disciplina la fanno da padroni; i giochi e gli incantesimi sono stati proibiti. Eppure Maddy non ha mai smesso di credere nel potere dei sogni e della magia. Lei è diversa da tutti: è ribelle, curiosa, testarda, e sulla mano ha il marchio di una runa. Per molti si tratta di un segno maledetto, ma non per il Guercio, il misterioso straniero che racconta storie affascinanti, l’unico amico che Maddy abbia mai avuto.

È lui a svelarle il misterioso linguaggio delle rune e a introdurla in quell’universo proibito e vietato dove sono nascosti gli incantesimi, la conoscenza e il segreto delle sue origini. Mentre il futuro inciso sulla sua mano si avvicina giorno dopo giorno, una terribile catastrofe minaccia di distruggere per sempre quel mondo perduto. Maddy è l’unica in grado di salvarlo: sarà un’avventura appassionante, una corsa contro il tempo, una guerra contro nemici dai poteri oscuri.


Le parole segrete: la recensione

C’erano una volta gli antichi dèi: ambiziosi, vanitosi, rancorosi, polemici, umani. E c’erano una volta le rune: simboli da incidere su pietra, un linguaggio tramite il quale manipolare la realtà. Adesso c’è solo l’Ordine, setta religiosa figlia del rigore e nemica di tutto ciò che è stato, e un Popolo derubato del libero arbitrio e della possibilità di sognare.

I dettami dell’Ordine in uso nella Città Universale prevedono che i nati col segno passino dall’accogliente calore del ventre materno a quello acre e rovente di un fascio di legname che lambisce e brucia le caviglie. Maddy deve ritenersi fortunata. Nascere col marchio di una runa nel remoto e rurale villaggio di Malbry, teatro di scena de Le parole segrete e dove l’ascendente dell’Ordine si esaurisce nei lugubri e moralistici sermoni del canonico di provincia, garantisce al più un futuro da emarginati sociali. Il marchio si trasforma, allora, in un bersaglio verso cui lanciare frecciatine verbali.

Maddy però fa spallucce. Come le insegna il suo unico amico e mentore, il vecchio Guercio, attraverso il marchio sul palmo le è dato vedere oltre il visibile, fare oltre il possibile. Nei tre solchi che compongono la runa Askr si nascondono formidabili capacità da coltivare: Maddy può padroneggiare le rune del vecchio alfabeto. Può, in breve, esercitare la magia. Le angherie del bulletto del quartiere non sono che un mite prezzo da pagare, perché alle frecciatine degli altri ragazzini Maddy ha il potenziale di rispondere con un autentico arsenale di dardi e fuochi d’artificio. D’altronde, la sua nascita è stata profetizzata mezzo millennio prima che lei venisse al mondo, e si sa che Odino il Guercio, ora una pallida ombra del dio che era, non si intrattiene coi bambini per il puro piacere di fare conversazione…


Quando i lupi sono i pastori

Le parole segrete si ambienta cinquecento anni dopo il cataclisma della Fine del Mondo e dopo gli eventi di The Testament of Loki (data di uscita della traduzione italiana ancora da destinarsi). Fra le sue pagine ritroviamo, anche se non così esplicitamente come in American Gods di Neil Gaiman, il leitmotiv della divinità spedita in panchina a suon di calci nel sedere.

Fiaccati dalla guerra ineluttabile del Ragnarok, gli antichi dèi assistono al lento disfacimento del loro mito: fiamme che accartocciano leggende vergate su carta, chiese che sorgono là dove prima si ergevano monumenti istoriati di rune, l’analfabetismo che viene lasciato libero di dilagare e sedare le masse perché solo a pochi eletti sia accordato il privilegio di interpretare e diffondere il verbo del Libro del Bene. Sarà lo stesso Guercio a insegnare a Maddy come estrarre il significato dai testi, perché solo agli uomini di fede è dato saper leggere la Parola dell’Innominato.

In una società dove nulla viene lasciato all’improvvisazione, qualsiasi indizio di una rinascita degli antichi dèi deve essere neutralizzato, perché solo così l’Ordine potrà continuare a prevalere sul Caos e ad assicurare a tutti i suoi proseliti un’esistenza monotona, grigia e miseranda. Ma le profezie non mentono né si possono aggirare: dopo il Ragnarok è prevista la nascita di nuove rune e nuove divinità, e così sarà.


Dalle alla strega!

Quando l’ormai adolescente Maddy, per mezzo di un incantesimo malriuscito, risveglia entità che minacciano di sconvolgere l’equilibrio dei Nove Mondi, gli inquisitori della Città Universale drizzano le orecchie e si lanciano al suo inseguimento. È una ragazza sola, la placcheranno nel suo nascondiglio sottoterra come una muta di cani che sventri la tana di una lepre. Maddy però non è sola, anzi: dopo uno screzio iniziale, troverà nel recalcitrante Burlone un valido alleato con cui fare fronte comune contro l’orda in arrivo. Insieme a lui e all’entità che il Guercio definisce il Sussurro, l’oracolo che al tempo predisse l’avvento del Ragnarok, Maddy porterà un bel po’ di Disordine & Parapiglia in quel di Malbry e dintorni.

Chi meglio di un figlio del Caos come Loki può destabilizzare l’Ordine costituito? Soprattutto, pensa Maddy, che valenza dare alle sue promesse? Ma non ha scelta, i Mondi sono stati scossi nelle loro fondamenta: se vuole sopravvivere e salvarli tutti, deve necessariamente fidarsi del traditore degli Æsir.


Dèi, quanti dèi!

Joanne Harris ha riversato ne Le parole segrete la sua interpretazione del futuro post-Ragnarok. Vanir e Æsir, all’appello della sua penna rispondono proprio tutti, con Odino e Loki a cui tocca alzare il braccio con una frequenza più elevata degli altri. Non che mi dispiaccia, affatto: sono i miei preferiti fra tutto il pantheon norreno e non avrò mai letto abbastanza delle loro rivisitazioni. Ma l’esistenza di un carattere dominante implica anche l’esistenza di un carattere recessivo, ed è nella caratterizzazione dei personaggi di contorno che la Harris si dimostra debolina. Gli dèi son troppi, dare a ognuno una voce personale è un’impresa disperata. Odino e Loki spiccano, insomma, in una cacofonia di voci l’una uguale all’altra.

Alla loro cricca, però, risulta facile affezionarsi. Credo sia questo il motivo per cui la Harris ha deciso di incentrare il romanzo su di loro spingendo gli altri dèi lontano dai coni di luce. Maddy e Loki sono personaggi che funzionano perché in sintonia con il target di lettori adolescenti a cui il libro è rivolto. Si empatizza presto con il loro spirito sovversivo e il loro stato sociale di reietti.


Nel 2019, la situazione non è migliorata

Diventa così più che naturale lanciare occhiate truci all’autorità suprema che impartisce ordini dall’alto di una sovranità per la quale nessuno dei sudditi ha votato. Ed è emblematico che sia proprio una figura femminile, Maddy, a turbare le acque stantie di questa società patriarcale che rifiuta l’idea di una donna intelligente. Alle donne si addice l’obbedienza cieca, le loro mani servono a stringere mestoli e rimestare brodaglie. Qualsiasi altra pulsione è un abominio del demonio e come tale va estirpato alla radice. Nel mondo di Maddy, l’arguzia è un disonore.

La Harris ci dà un pasto, insomma, degli antieroi facili da amare e dei cattivi fin troppo facili da odiare. In corso di lettura, con l’Ordine che si delinea nella sua intransigenza e intolleranza del libero arbitrio, viene anche spontaneo tracciare similitudini con la Chiesa del Medioevo. In una sua intervista Joanne Harris nega di aver concepito l’Ordine de Le parole segrete come una versione mitizzata del Cristianesimo, ma ribadisce la sua avversione per i dogmi portati all’estremo. L’Ordine, in tal senso, si configurerebbe come l’archetipo delle fedi religiose più estremiste che esercitano il controllo sulle masse sfruttando il concetto di peccato come deterrente alla ribellione. Cristiani mitizzati o meno, io a questi inquisitori darei volentieri qualche sventola da bloccargli la cervicale.


Quei fastidiosi elenchi del telefono

Ora passiamo a ciò che davvero non mi è piaciuto, cioè lo stile. Sebbene della cifra stilistica “raccontata” della Harris abbia già disquisito altrove, non credo di essermi mai soffermata sulla sua tendenza a elencare lunghe serie di sinonimi in luogo di descrizioni più pensate ed efficaci. Cito:

“[…] un palazzo bianco come un osso a cavalcioni sul deserto, guglie e torri e doccioni e minareti e affioramenti scheletrici di architettura gotica e neogotica con archi rampanti e gigli e file di vescovi, preti, Inquisitori, cardinali, sciamani, mistici, profeti, stregoni, indovini, Magistri, redentori, semi-dèi e papi allineati nelle loro nicchie lungo la facciata.”

“[…] era imponente: lunghi passaggi bianchi di freddo alabastro, tendaggi d’avorio, volte intricate, arazzi sbiaditi quasi fino a essere trasparenti, e colonne scanalate di vetro delicato. Passarono attraverso corridoi di pietra silenziosi, attraverso stanze con specchiere pallide come il ghiaccio, attraverso camere nelle quali principesse morte ballavano il valzer da sole, attraverso cappelle funerarie e vestiboli deserti ammorbiditi dalla polvere.”

“Maddy questo già lo sapeva, ovvio. Gli insegnamenti del Guercio erano stati minuziosi su tutte le questioni concernenti la geografia dei Nove Mondi. Ma ciò che lei non aveva sospettato era la dimensione mostruosa del Mondo Sotterraneo: gli innumerevoli passaggi, i tunnel, le alcove e le tane che formavano la parte inferiore della Collina. C’erano fosse tettoniche e fenditure e crepe e recessi, rifugi e covi, passaggi laterali, magazzini, varchi e cavità, cunicoli e labirinti e dispense e pozzi.”


Punto di vista ballerino

Il punto di vista non è sempre coerente, perché nell’arco di una frase passa spesso dalla prospettiva limitata del personaggio a quella dello scrittore onnisciente:

“[Loki] Pronunciò una formula, lanciò Kaen e Raedo e, se ci fosse stato un testimone, si sarebbe sorpreso di vedere il giovane con le labbra piene di cicatrici e l’espressione tormentata ridursi, rimpicciolirsi, togliersi i vestiti e diventare un piccolo uccello da preda marrone che si guardò attorno per qualche istante con occhi vispi, non da uccello, prima di prendere il volo, facendo il giro della Collina due volte in un arco che si allargava, librandosi nelle correnti ascensionali e poi via verso i Sette Dormienti.”

Lo ammetto, ero lì lì per chiudere il libro a un centinaio di pagine dall’inizio. Non mi pento di aver resistito alla tentazione: Le parole segrete si è rivelato un’interessante lettura, un passatempo con cui scandire le ore morte della sera. Non mi sento di consigliare il romanzo, però, a chi non ha familiarità con i miti norreni.

C’è troppa carne sul fuoco, troppi personaggi che son macchiette sullo sfondo. Non siamo agli albori del tempo de Il canto del ribelle dove a tutto viene data la spiegazione. La Harris dà per scontato che il lettore si approcci al romanzo con una conoscenza pregressa del mito, escludendo, o rischiando di trarre in confusione, il saltuario lettore di fantasy che si avvicina per semplice curiosità. Non aiuta nemmeno la trama contorta che è marchio di fabbrica di questa serie di romanzi. Le parole segrete ricerca spasmodicamente il colpo di scena e sulle battute finali risulta addirittura prevedibile.


Per concludere

Le parole segrete è un romanzo carino ma non divino, un’impressione condivisa con i due romanzi prequel (Il canto del ribelle e The Testament of Loki). Loki, come sempre, favoloso e sfavillante. Gli veste bene il ruolo di Capitano dei goblin: da un paio di giorni c’ho un earworm che mi intona in testa Dance magic, dance! a ciclo perpetuo…

Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.
Mezza stellina.

La lepisma libraia

[Recensione] “L’uomo che metteva in ordine il mondo” di Fredrik Backman

L’attesa ingolosisce e prepara le papille gustative. Talvolta è un bene tenere un libro in lista d’attesa per qualche settimana, o addirittura mesi, perché la lettura sia più gratificante. Ebbene, L’uomo che metteva in ordine il mondo è rimasto a vegetare per mesi in sala d’attesa prima di sentirsi chiamare dall’infermiera e distendersi sul tavolo operatorio. Allora è stato sezionato pagina per pagina, personaggio per personaggio: questa recensione costituisce il (favorevolissimo) referto.

Titolo: L’uomo che metteva in ordine il mondo
Autore: Fredrik Backman
Genere: narrativa/humor
Editore: Mondadori
Pagine: 321

Ove ha 59 anni. Guida una Saab. La gente lo chiama “un vicino amaro come una medicina” e in effetti lui ce l’ha un po’ con tutti nel quartiere: con chi parcheggia l’auto fuori dagli spazi appositi, con chi sbaglia a fare la differenziata, con la tizia che gira con i tacchi alti e un ridicolo cagnolino al guinzaglio, con il gatto spelacchiato che continua a fare la pipì davanti a casa sua. Ogni mattina alle 6.30 Ove si alza e, dopo aver controllato che i termosifoni non stiano sprecando calore, va a fare la sua ispezione poliziesca nel quartiere. Ogni giorno si assicura che le regole siano rispettate.

Eppure qualcosa nella sua vita sembra sfuggire all’ordine, non trovare il posto giusto. Il senso del mondo finisce per perdersi in una caotica imprevedibilità. Così Ove decide di farla finita. Ha preparato tutto nei minimi dettagli: ha chiuso l’acqua e la luce, ha pagato le bollette, ha sistemato lo sgabello… Ma… Ma anche in Svezia accadono gli imprevisti che mandano a monte i piani. In questo caso è l’arrivo di una nuova famiglia di vicini che piomba accanto a Ove e subito fa esplodere tutta la sua vita regolata. Tra cassette della posta divelte in retromarce maldestre, bambine che suonano il campanello offrendo piatti di couscous appena fatti, ragazzini che inopportunamente decidono di affezionarsi a lui, Ove deve riconsiderare tutti i suoi progetti. E forse questa vita imperfetta, caotica, ingiusta potrebbe iniziare a sembrargli non così male…


L’uomo che metteva in ordine il mondo: la recensione

Io vorrei averlo, un vicino come Ove. Vorrei confinare con un vecchio un po’ misantropo e bisbetico che tenesse a bada gli scapestrati dalle tasche bucate che insozzano il quartiere di cartacce e mozziconi, che addestrasse i cani a spasso e soprattutto i loro insolventi padroni a non lasciare tracce del loro passaggio sui marciapiedi, pronte per essere calpestate e maledette, o, peggio ancora, macchie colanti sui muretti di confine a mo’ di rivendicazione di proprietà.

Ove, purtroppo, vive in un anonimo quartiere residenziale di un’anonima cittadina della Svezia e ha ben altri progetti da mettere a punto. Deve pensare a come appendere quel maledetto gancio sul soffitto, per dirne una, e dove comprare una corda che tenga fede alle promesse decantate sull’etichetta.


Quando il dolore distrugge e indurisce

Ove è un maniaco del controllo. È uno spirito pratico e onesto come pochi (a detta sua e, forse, con un pizzico di verità) ne sono rimasti al mondo: non evade le tasse, non passa col rosso, non tradisce la moglie allungando occhi e mani su esotiche bellezze: l’etica, ancora prima della libertà. Ove è il bambino che, cresciuto nella povertà materiale, riceve dal padre un’educazione dal valore inestimabile.

E Ove è, soprattutto, un uomo indurito dall’ingiustizia della vita.


Bianco e nero, ying e yang

Sono sei mesi che è morta. E Ove gira ancora per casa due volte al giorno per tastare i radiatori e controllare che lei non abbia alzato il riscaldamento di nascosto.

Si dice che gli opposti si attraggano. Nulla di più vero, almeno stando all’uomo che mette in ordine il mondo. Lei irradia felicità, lui sprizza acido da ogni poro; lei regge una tracolla di libri, lui la cassetta degli attrezzi. Lei spalanca le ali tarpate degli emarginati perché possano imparare a volare, lui affonda gli avambracci nella morchia di un motore perché possa tornare a rombare. Lei negli abbietti vede il potenziale, lui delle foto segnaletiche.

Lei era, lui è, e di quest’essere al presente Ove è semplicemente stufo.


Quella è la porta, uomo che metti in ordine il mondo

Non capisce la gente che dice di non vedere l’ora di andare in pensione. Come si può desiderare per una vita intera di essere superflui?

Dopo quarant’anni a ricoprire un ruolo nella stessa azienda, Ove si vede offrire la pillola indorata del benservito con un licenziamento mascherato da pensione anticipata. C’è da rimodernare l’armadio, si giustificano i piani alti. È ora di sfilare dalle grucce i baby boomer e far subentrare le nuove generazioni. Di rottamare i cerchioni ormai usurati e ordinare pezzi di ricambio lucidati. È tempo, insomma, che l’obsoleto addetto ai lavori restituisca l’elmetto da ingegnere e osservi la vita dei cantieri dalla prospettiva passiva di un attempato umarell.

Sentendosi inerme e anche un po’ tradito, Ove è costretto a inghiottire il boccone di bile, perché ribellarsi è come voler abbracciare il vento. Per digrignare i denti ci sarà tempo in abbondanza nella solitaria eternità che lo distanzia dalla tomba. Senza più un ruolo nella società, senza più mensole che debbano essere aggiustate, senza più una moglie da vezzeggiare… qual è il senso della vita, si chiede Ove?

Un’intera società in cui nessuno sa più fare retromarcia con un rimorchio, e vengono a dirgli che lui non serve più?

Quando ti sbattono la porta alle spalle, pensa Ove, non ha senso attendere l’ipotermia seduti sullo zerbino. Tanto vale andare incontro alla signora con la falce e valicare il confine con la dignità di un uomo che ha perso tutto tranne il proprio diritto al suicidio.

L’uomo che metteva in ordine il mondo è la storia di una serie di tentativi di suicidio l’uno più spassoso e struggente dell’altro.


Non si può più morire in santa pace

Ove odia gli imprevisti per partito preso, e li odia ancora di più quando bussano alla porta con l’urgenza e l’esuberanza di una nuova vicina di casa. Parvaneh e relativa famiglia irromperanno nel suo salotto con la forza travolgente di una slavina e con la stessa facilità, in un alternarsi di lacrime e risate, smonteranno qualsiasi suo tentativo di ricongiungimento coniugale post mortem.

Perché, ancora prima di un posto nella società, Ove è in cerca di qualcuno che possa far breccia nella sua scorza indurita dal dolore e dal senso di tradimento, qualcuno che non arretri di fronte ai suoi ringhi da animale maltrattato. È come un diamante crepato: indistruttibile e impenetrabile salvo che per una stretta feritoia. Difficile, ma non impossibile, raggiungerne il cuore di ghiaccio che attende solo il disgelo di un tocco caldo per poter tornare a irradiare calore. A pochi – fra questi, uno spelacchiato gatto randagio – è dato il privilegio di sgusciare attraverso questa fessura.

L’uomo che metteva in ordine il mondo è un romanzo sul valore del sacrificio, della comunità e della comunanza nelle avversità della vita. Gli atolli solitari vanno presto alla deriva: bisogna costruire ponti per agganciare le isole minori, non sfoderare i cannoni alla prima, pallida avvisaglia di invasione delle acque territoriali. Dal titolo di un saggio di Thomas Merton, nessun uomo è un’isola. Nessuna esistenza sarà mai priva di un senso, nessun uomo di uno scopo.


Per concludere

Un romanzo che insegna ad amare se stessi e gli altri.

Stellina per recensioni.
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La lepisma libraia

[Recensione] “Elevation” di Stephen King

Copertina di Elevation.

Edit del 22/03/2019: a scanso dei numerosi (e, a posteriori, forse anche un po’ legittimi) equivoci, specifico che i primi paragrafi di questa recensione alludono a un altro racconto di un altro scrittore (Christopher Paolini, tra l’altro citato in questo stesso articolo). Aggiungo che da lettrice pagante è nel mio pieno diritto criticare un prodotto che reputo incompleto e ancora acerbo per la pubblicazione (se vado al mercato a comprare una sedia, per intenderci, non mi aspetto di comprare una sedia con tre gambe).

La scatola dei bottoni di Gwendy, altra novella di King, non è che la bozza di un potenziale romanzo (e stanti le reazioni al post credo di essere stata anche di manica larga nel giudicarlo). The Outsider inizia molto bene, ma si squalifica da metà libro in avanti (e gli ho comunque dato la sufficienza). Elevation, cifra stilistica a parte, l’ho trovato semplicemente inqualificabile e sì, con questa recensione, all’ennesimo acquisto che si traduce in un pugno di carta senza senso, ho deciso di “andarci giù pesante”. Un altro racconto incompiuto nel giro di una manciata di mesi. Cosa sono i lettori, galline da spennare? Che sia stato Stephen King a scriverlo dovrebbe costituire solo un’aggravante: le capacità non gli mancano, gli difetta solo un po’ la voglia di tornare a scrivere come ai vecchi tempi. Regalo stelline al merito, non alla fama.

Preciso infine, a beneficio di chi si affanna alla ricerca di ogni mio passo falso, che con Inheritance ho un rapporto troppo conflittuale per dichiararmi fan accanita. Ho scritto “i primi tre”, infatti, non “i tre”. Se volete infierire (nessuno ve lo vieta, così come non c’è nessuno che mi vieta di criticare negativamente un libro), almeno fatelo bene e in luoghi dove io possa controbattere. O, come ha già rilevato un utente, si finisce per sparare sulla Croce Rossa. Passo e chiudo e consegno ai posteri la recensione così come pubblicata originariamente.

***

Nel Medioevo, i cavalieri senza spada si guardavano bene dal buttarsi nella mischia. Nell’anno corrente 2019 d.C., invece, va di moda l’improvvisazione. Scribacchini appena iniziati alla professione e scrittori più stagionati si armano di penna e si cimentano nella prova d’abilità scrittoria per eccellenza: il racconto.

E io sospiro e mi chiedo: perché? È una domanda retorica che mi pongo ormai a cadenza seriale.

Titolo: Elevation
Autore: Stephen King
Genere: sci-fi/horror
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine: 194

Un racconto di rara intensità, che è anche un omaggio ai suoi maestri, in cui King si prende la libertà, più che legittima, di dare una possibile risposta alle tristi derive del nostro tempo.

Scott Carey sta percorrendo senza fretta il tratto di strada che lo separa dal suo appuntamento. Si è lasciato alle spalle la casa di Castle Rock, troppo grande e solitaria da quando la moglie se n’è andata, se non fosse per Bill, il gattone pigro che gli tiene compagnia. Non ha fretta, Scott, perché quello che deve raccontare al dottor Bob, amico di una vita, è davvero molto strano e ha paura che il vecchio medico lo prenda per matto. Infatti Scott sta perdendo peso, lo dice la bilancia, ma il suo aspetto non è cambiato di una virgola.

Come se la forza di gravità stesse progressivamente dissolvendosi nel suo corpo. Eppure, nonostante la preoccupazione, Scott si sente felice, come non era da molto tempo, tanto euforico da provare a rimettere le cose a posto, a Castle Rock. Tanto, da provare a riaffermare il potere della parola sull’ottusità del pregiudizio. Tanto, da voler dimostrare che l’amicizia è sempre a portata di mano.


Elevation: la recensione

Che a mettersi in gioco siano dilettanti allo sbaraglio (*coff* Paolini*coff*) o autori affermati e acclamati, la morale è sempre la stessa: i bravi romanzieri sono pochi, i bravi novellieri ancora meno. Eppure, pare che di recente tutti si stiano scoprendo esperti raccontisti. Della serie, le scarpe col tacco sono all’ultimo grido e anche se ho la scoliosi le indosso anch’io. Se cammino come un piccione ubriaco poco importa, perché basta seguire la corrente modaiola.

C’è un anonimo che una volta disse: Scrivi di ciò che sai. A questa massima di saggezza io aggiungerei: Scrivi solo se hai idee, e con i tuoi spazi.

King era un grande, finché, lui come tanti altri, non è soccombuto alla pigrizia e all’avidità ha intravisto il barbaglio dorato di monete sonanti dietro alla pubblicazione di un breve racconto. Invece di abbandonare la vena ormai esaurita della sua creatività, come un Paperon de’ Paperoni che, fagotto in spalla, si lascia dietro il Klondike razziato di ogni grammo di pepita, King raschia ancora una volta il fondo del barile e propone un altro racconto incompleto.

Ha (malauguratamente) capito, forse, che il racconto è una misura del manoscritto da poca spesa, molta resa: tempi di stesura contenuti e prezzi finali in linea con i romanzi più spessi. Nel tempo che sacrifichi chino su un solo romanzo, c’è di che sfornare tre o più racconti.

Quello che voglio dire, insomma, è che King dovrebbe cercarsi altri terreni friabili in cui scavare, perché Elevation segna il punto più basso della sua carriera morente di minatore. Alla sua scarsa verve ho già accennato nella recensione di The Outsider: è come se King avesse perso tono muscolare, come se la sua brillantezza di un tempo si stesse atrofizzando e non potesse raggiungere le performance della gioventù. Le casistiche son due: o è invecchiato, ipotesi che caldeggio, o sarebbe ancora in grado di confezionare capolavori ma ha preferito vendersi al facile guadagno.


Scott vive il sogno di ogni donna

Protagonista di Elevation, novella agrodolce che sta all’horror quanto il ketchup sta alla pastasciutta, è Scott Carey. Fondale del palcoscenico, la famigerata Castle Rock.

All’ennesimo chilo lasciato sulla bilancia, Scott Carey decide che è ora di consultarsi con un suo caro amico e medico in pensione. C’è qualcosa che non va in me, si lamenta, non troppo preoccupato, perché mangio come una scrofa all’ingrasso e perdo comunque peso. Più che di una richiesta di aiuto, le sue parole hanno il tono di una confessione: dai medici che ancora esercitano, infatti, non si farà mettere i guanti di lattice addosso come il più impotente dei ratti da laboratorio.

Scott, in soldoni, sta perdendo peso. È come se la gravità della Terra non esercitasse su di lui la stessa forza che invece esercita per tutto e tutti sulla superficie del pianeta. Non solo, il morbo contagia temporaneamente tutte le cose con cui Scott viene a contatto diretto, siano esse oggetti inanimati, gatti o esseri umani. Il peso che preme sulla bilancia non cresce secondo logica: Scott in tenuta adamitica pesa tanto quanto Scott in cappotto foderato e polsiere da un chilo su ambo le braccia.

C’è qualcosa che ha mandato il suo metabolismo in overdrive. Non si conoscono le origini di questo qualcosa, ma Scott sa di essere un caso unico al mondo e nel suo intimo conosce già dove la malattia lo condurrà.


La mentalità provinciale, cancro del nostro secolo

Missy e Deirdre, vicine di casa di Scott, gestiscono lo Holy Frijole, un ristorante specializzato in cucina messicana. Sono omosessuali e sono sposate, per cui si attirano la malevolenza di tutte le noci avvizzite di Castle Rock. Il boicottaggio è silenzioso ma virale: il pettegolezzo passa di bocca in bocca, il locale si sfoltisce di clientela. Posso immaginarmi le recensioni su Trip Advisor: il cibo è genuino e delizioso, in cucina ci stanno due lesbiche, che schifo. Castle Rock sarà anche una cittadina immaginaria, ma i suoi abitanti sanno essere sorprendentemente realistici.

Scott non si lascia infettare dall’arretratezza mentale dei suoi coabitanti. Anzi, in mezzo ai due fuochi si sentirà più vivo, volenteroso e leggero che mai. Sfrutterà la sua condizione a proprio vantaggio per mediare tra gli opposti. La sua impronta fisica si assottiglia giorno dopo giorno: che l’impronta morale lasci un segno più profondo di quello impresso dalle sue scarpe. È così che Scott ascende e vive il morbo come una benedizione. Un tocco divino e a Scott crescono ali d’angelo, il mezzo con cui epurare Castle Rock dei suoi peccati.

Elevation vuole insegnare che chi è privo di pregiudizi si eleva al di sopra di tutti. Un messaggio positivo che viene, però, ficcato a forza nella bocca del lettore. Non è il messaggio che soggiace alla trama, ma è la trama (?) che soggiace al messaggio.


Elevation è anche l’intruso nella sezione horror

Oh, c’è Stephen in copertina. Allora deve essere senz’altro un horror, no? No.

Elevation non è affatto un horror, sebbene tutti i negozi e archivi letterari online si prodighino per classificarlo come tale. Goodreads, addirittura, l’ha eletto miglior horror del 2018. Non è che una storiella con poca lode, tanta infamia e una spessa impanatura di politically correct. Come in un ingannevole Bastoncino Findus, il pangrattato pesa più del filetto di merluzzo racchiuso al suo interno: l’intento è denunciare un’ingiustizia, non raccontare una storia, perché l’idea per una storia non c’è. La malattia di Scott da dove deriva, che senso ha, cos’è? Si salva giusto giusto lo stile evolutosi da decenni di esperienza.

Non è horror, non è thriller, non è romance… so soltanto quello che non è, e non è tante cose. Non è un bel racconto, per iniziare, né un buon acquisto. È la fiera dei cliché, dei personaggi senza senso e monodimensionali. La copertina è il vero elemento horror: inorridisce il pensiero che ci sia la mente di King dietro a questa oscenità.


Per concludere

Quando la penna ferisce più della spada. Qualcuno lo disarmi e gli sequestri il quaderno, per favore.

Stellina per recensioni.
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La lepisma libraia

[Recensione] “Nightflyers” di George R.R. Martin

Copertina di Nightflyers.

Dobbiamo a Netflix l’imminente uscita, questo 5 febbraio, della traduzione italiana di Nightflyers. Scritta da un ancora semisconosciuto George R.R. Martin e pubblicata nel 1980, questa novella fanta-horror ha infatti ispirato una serie Netflix dall’omonimo titolo. La stessa storia è il frutto di un’ispirazione con intenti ribelli…

Titolo: Nightflyers
Autore: George R.R. Martin
Genere: sci-fi/horror
Editore: Mondadori
Pagine: 161

Quando ormai la terra è sull’orlo del tracollo, l’ultima speranza risiede in una spedizione scientifica la cui missione consiste nell’avvicinare e studiare una misteriosa razza aliena che si spera possa custodire la chiave per la sopravvivenza dell’umanità.

L’unico mezzo in grado di affrontare la spedizione è la Nightflyer, un’astronave completamente automatizzata, controllata da un solo essere umano, il capitano Royd Eris. L’equipaggio però si ritrova a viaggiare su una nave fantasma perché il capitano non si mostra mai se non attraverso il suo ologramma e comunica solo tramite una voce contraffatta.

A rendere la permanenza sulla Nightflyer ancora più inquietante, il sensitivo del gruppo inizia a percepire a bordo una presenza oscura, un’entità pericolosa, incorporea, aliena. Il capitano sostiene di non saperne nulla e, quando qualcosa o qualcuno inizia a uccidere i membri dell’equipaggio, sembra non essere in grado o intenzionato a cercare di arrestare questa scia di sangue. L’unica ad avere la possibilità di fermare questa creatura sanguinaria è Melantha Jhirl, un’umana geneticamente modificata, più forte, intelligente e veloce di tutti gli altri membri dell’equipaggio. Ma per farlo, prima deve riuscire a restare viva…


Nightflyers: la recensione

“I had read an article by a critic around that time that had said, ‘Well, science fiction and horror can never be successfully mixed because they’re opposite… horror is all about emotions and fear and a universe that we cannot pretend to understand, and science fiction is always about rationality and intellect and problems [that] are solvable by application of the human mind. And so you can never have a story that was both.’ And, of course, I took that as a challenge.”

Prima di scrivere Le Cronache del ghiaccio e del fuoco, prima ancora di affiancarsi agli sceneggiatori de Il Trono di spade, George R.R. Martin canalizzava la sua fantasia in storie di fantascienza. Suggerisco In fondo il buio, per esempio, il cui titolo originale, Dying of the Light, si rifà a un verso di una poesia di Dylan Thomas (parole che in tempi più recenti verranno riprese e trasportate sul grande schermo dal film sci-fi Interstellar). È solo nel 1980 che la sua verve creativa tasta l’acqua infida e gelida del genere horror, con la pubblicazione di Nightflyers prima e con l’uscita de Il battello del delirio due anni dopo.

Cos’è cambiato, nel frattempo? Un ignoto si è pronunciato sul carattere antitetico di fantascienza e horror e Martin ha raccolto il guanto soffocando la voce della critica con esso. L’esito della sfida sarà presto sotto ai nostri occhi e fra le nostre mani: un fanta-horror a tinte gore, una combinazione unica che va a incastrarsi nella tavola periodica dei filoni letterari riconosciuti e più rappresentati.


La Compagnia dei Nove decolla a caccia di volcryn

Karoly D’Branin non fa segreto della sua ossessione: per tutta la vita ha alzato gli occhi in su in attesa di una scia cadente dei mitici volcryn. Ma i volcryn vagavano nello spazio millenni prima che Cristo iniziasse a gattonare in Giudea e sono ormai troppo lontani per il potere risolutivo di occhi umani e telescopici. Per colmare le distanze astronomiche e soddisfare il desiderio di un incontro ravvicinato con la razza aliena, D’Branin assolda allora un’eterogenea squadra di otto accademici e affitta il timone della Nightflyer di proprietà del misterioso capitano Royd Eris.

I lettori di Martin più sfegatati ricorderanno volti e nomi già noti da I canti del sogno. A formare la cricca di volontari si annoverano, infatti: Lommie Thorne, donna cibernetica che sa parlare alle macchine; lo xenobiologo Rojan ChristopherisDannel e Lindran, due linguisti; Agatha Marij-Black, la psichica; la xenotech Alys Northwind, d’indole un po’ idrofoba; il sempre nervoso telepata di primo livello Thale Lasamer; la sensuale ed enigmatica Melantha Jhirl, che grazie ai – o a causa dei – prodigi della biotecnologia incarna la forza e l’intelligenza di due esseri umani in un corpo solo.

C’è l’animo avventuroso che condivide l’entusiasmo di D’Branin, c’è invece chi si trattiene e insegue le flebili orme dei volcryn con il compassato interesse di uno studioso. E poi c’è un intero equipaggio che si chiede, con una curiosità che minaccia di evolvere in paranoia, perché il capitano Royd Eris si rifiuti di uscire dalla sua cabina. Perché si lascia sostituire da una proiezione olografica, senza mai esporsi in prima persona? Perché la sua voce viene diffusa solo dagli interfoni?


Le pecore e il lupo insieme nel recinto

Ben presto, le antenne ricevitrici del telepata Thale Lasamer captano uno strano segnale a bordo. È una frequenza mentale che ha il colore rosso del pericolo e che getta l’accademico in uno stato di febbrile agitazione. Sarà la prima avvisaglia della presenza maligna che infesta la nave. Ed è risaputo: non c’è nulla che esasperi l’uomo, che manifesti i suoi istinti peggiori, quanto la convivenza coatta insieme a un ignoto assassino. I confini stretti esacerbano i conflitti.

All’ennesima richiesta al capitano di una conversazione a tu per tu che cade puntualmente nel vuoto, l’equipaggio comincia a meditare l’ammutinamento…


L’horror abbonda, il sci-fi scarseggia

Nightflyers è un horror ben riuscito in cui la psiche è la fonte suprema del terrore. Il dover affrontare un nemico ignoto che preda le sue vittime con un modus operandi del tutto casuale ed erratico riduce la più risoluta delle coscienze a un piatto di uova strapazzate.

Meno studiata e sbozzata a tratti grossolani risulta la cornice della worldbuilding: manca qualsiasi tipo di coordinata spaziale e temporale, del destino dell’umanità si conosce poco o nulla, è solo accennato il bagaglio di vita che ogni personaggio imbarca con sé. D’altronde, non molti autori vantano la tecnica per spremere il meglio da una lunghezza di trentamila parole e Martin riesce comunque a consegnarci un prodotto invecchiato molto bene. Nightflyers sorprende in positivo, invece, per maturità stilistica. Dilaga ormai lo stereotipo dell’esordio scritto coi piedi, ma non è questo il caso.

Le illustrazioni di Palumbo sono una chicca tutta da ammirare.


Per concludere

Il critico ignoto si rimangia le parole. Ricordate, voi lettori, che questo libro è firmato Martin: affezionatevi ai personaggi a vostro rischio e pericolo…

Stellina per recensioni.
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[Recensione] “La forchetta, la strega e il drago” di Christopher Paolini

Copertina de La forchetta, la strega e il drago.

Siete pronti a sellare i vostri draghi e a sorvolare Alagaësia sorprendendo le aquile dall’alto? Sarà in vendita da domani La forchetta, la strega e il drago, lo spin-off del Ciclo dell’Eredità di Christopher Paolini nato con la pubblicazione di Eragon nel 2002. Su le orecchie, dunque, voi che dovete ancora aggiornarvi sugli eventi della quadrilogia principale: proseguendo la lettura di questo articolo, calpesterete un terreno irto di spoiler.

Titolo: La forchetta, la strega e il drago. Racconti da Alagaësia
Autore: Christopher Paolini
Genere: fantasy
Editore: Rizzoli
Pagine: 288

Tre storie ambientate ad Alagaësia, un assaggio della nuova vita di Eragon e un estratto delle memorie di Angela l’erborista. Per tornare a immergersi nell’affascinante e antico mondo del Ciclo dell’Eredità.

È passato un anno da quando Eragon ha lasciato Alagaësia in cerca del luogo perfetto in cui addestrare una nuova generazione di Cavalieri dei Draghi. È alle prese con una lista lunghissima di compiti e doveri: costruire una fortezza a misura di drago, discutere con i fornitori, vegliare le uova dei futuri draghi e tenere a bada i belligeranti Urgali e gli altezzosi Elfi. Poi una visione degli Eldunarí, una visita inaspettata e un’appassionante leggenda degli Urgali gli offrono la distrazione di cui ha tanto bisogno e gli mostrano le cose sotto un’altra prospettiva… Tre storie inedite ambientate ad Alagaësia, un assaggio della nuova vita di Eragon e un estratto dalle memorie di Angela l’erborista – di cui è autrice Angela Paolini, che ha ispirato il personaggio della strega – per tornare a immergersi nell’affascinante e antico mondo del Ciclo dell’Eredità.


La forchetta, la strega e il drago: la recensione

Sfogliata l’ultima pagina di Inheritance, la sottoscritta era una lettrice delusa. Giunta al punto di (s)conclusione de La forchetta, la strega e il drago, la sottoscritta è ancora una lettrice delusa. Più di quanto non fosse già.

La forchetta, la strega e il drago (titolo liberamente ispirato a Il leone, la strega e l’armadio di ben altro calibro di autore) è un frutto strappato prematuramente dal suo albero. Doveva rimediare a tutti i peccati veniali, mortali e immorali dell’ultimo capitolo della serie genitore, ma finisce per ereditarne i difetti e aggiungerne addirittura di nuovi.

Chris, soddisfami una curiosità: qual è il senso di pubblicare una storia incompleta? No, non parlo dell’incompletezza tipica dei romanzi seriali, ma proprio di una storia a cui manca un organo vitale. A nessuno piace leggere di uno spaccato di vita quotidiana cui è stato amputato il finale.


Eragon, spirito ardito e impoltronito

The day had not gone well.
Eragon leaned back in his chair and took a long drink of blackberry mead from the mug by his hand. Sweet warmth blossomed in his throat, and with it memories of summer afternoons spent picking berries in Palancar Valley.

Come leggiamo “Eragon”, è subito nostalgia. Non so voi, ma l’immagine mentale che ho avuto di me sul momento è stata quella di una foca che gorgheggia percuotendosi la pancia con le pinne. Più o meno questa. Ero eccitata come un elettrone fuori orbita.

Poi mi si parla di quanto sia tedioso e gravoso il compito di governatore. Eragon siede a una scrivania sommersa di pergamene e nulla farebbe la sua felicità quanto carbonizzarle con un Brisingr a fil di labbra. Ma non può: i chili persi in muscoli li ha guadagnati in fedeltà al dovere, e il dovere lo tiene inchiodato alba, giorno e tramonto a quella dannata scrivania.

Il suo sentirsi costantemente inadeguato al compito prefissato gli impedisce di rilassarsi, di staccare la sua mente anche solo per dormire sonni tranquilli. Sotto consiglio di Saphira, o dovrei dire sotto la minacciosa traiettoria di uno dei suoi artigli, andrà finalmente a farsi una passeggiata per la fortezza di Arngor e cercherà consulto presso la saggezza dei draghi che furono: le storie che ne trarrà saranno il necessario diversivo per tornare al lavoro con rinnovata serenità.

Ricordate il vento che ci frusta i capelli, i giri della morte su noi stessi, l’aria che fischia attorno alle orecchie, il riverbero del sole su squame lucenti, le ossa che vibrano alla frequenza dei ruggiti del nostro drago? Sì? Ecco: dimenticate tutto.

Della serie: Eragon indossa il colletto bianco e la sella di Saphira marcisce in mansarda.


La forchetta

Gli Eldunarí teletrasportano la coscienza di Eragon in quella indignata della piccola Essie, figlia del locandiere di un insignificante borgo di Alagaësia. Inconsapevole della reale identità del suo interlocutore che siede con lei, e incoraggiata ad aprirsi da una fiducia istintiva nei suoi confronti, intavola con lui una fitta conversazione in cui riversa un fiume di infantili disgrazie. Tornac, o Murtagh che dir si voglia, si lascerà sommergere dalla piena e impartirà alla bambina la lezione più importante della sua vita.

In questo arco temporale, il figlio di Morzan ha l’occasione di stregare una forchetta e distribuire qualche sventola a una masnada di clienti inadempienti. Sgattaiolerà dal retro del locale con in testa un fuoco di fila di domande.

Eragon, sintonizzato sullo stesso canale, assimilerà la paternale a sua volta e si interrogherà sulla prossima mossa del fratellastro: cos’era quella pietra, chi erano quei tizi? Lo stesso farà il lettore, disperso nel buio di una storia inconcludente come un cieco abbandonato dal suo cane sulle zebre della provinciale.


La strega

Strive for wisdom! Or at least a decrease in idiocy.

La strega è Angela, che scrive in prima persona. La sua è una quest quasi disperata: strappare Elva dalle mura della fortezza dov’è rinchiusa per assoldarla e farne la sua nuova apprendista. O per addolcirne, quantomeno, il disprezzo e la sfiducia che nutre nel genere umano tutto. Angela la scaricherà infine tra le braccia già sovraccariche di Eragon, perché, insomma, il guaio l’ha combinato lui e lui deve assumersene la responsabilità.

Un’improvvisa invasione di pagina da parte della guest-writer Angela Paolini, sorella di Christopher a cui è ispirato il personaggio omonimo, finalizzata a ispessire il volume del manoscritto e poco altro. Stravagante come sempre, farneticante come mai. Un raccontino senza capo né coda per stirare giusto un angolo delle labbra verso l’alto.


Il drago

Christopher non è nuovo a ispirazioni non creditate. Non soddisfatto, ai tempi, di aver saccheggiato a piene mani la trama di Star Wars, dirotta ora i propri artigli su elementi dell’universo tolkieniano quali il drago Smaug e Città del Lago.

Un clan di Urgali vive sotto la minaccia costante degli attacchi del drago Vêrmund. Orfana di padre, ucciso dallo stesso drago in una morte rovente e impietosa, Ilgra coverà nel cuore sentimenti di vendetta finché i tempi saranno maturi per passare dai propositi ai fatti. Ma il Kulkaras, sulla cui vetta si attorcigliano le spire del verme immondo nella grottesca imitazione di un nido d’uccello, è ripido e non si lascia addomesticare senza ingaggiare battaglia. Torneranno alla ribalta i Lethrblaka e la potenza primigenia dei lessemi dell’Antica Lingua.

L’unico racconto, dei tre, che possa definirsi completo. È lo stesso Paolini a confessare, sulle battute finali di ringraziamento, di averne atteso per anni la pubblicazione perché a corto di materiale con cui accompagnarlo.


Una riunione forzata

Writing about Eragon and Saphira after so many years was like returning home after a long journey.

Paolini la dice giusta: c’è un che di rassicurante nel rileggere nomi di personaggi che hanno vinto il nostro affetto anni e anni fa (Eragon è uscito 17 anni fa: anche voi sentite qualche ruga ispessirsi in viso? Ditemi di sì). L’istinto è quello di stringersi la mano e di darsi qualche pacca amichevole sulla schiena. Eragon e Saphira rievocano pomeriggi di un’infanzia trascorsa nell’azzurro del cielo, a rincorrere cervi ridotti a punti grigi in un campo sterminato di verde e filari di alberi.

La forchetta, la strega e il drago manca la sensazione di libertà che contraddistingue la quadrilogia principale. Lo stile, però, è tale e quale ad allora, e non è una fedeltà positiva, perché la produzione breve di un racconto si presta a uno stile spartano e povero di sproloqui. C’è poco margine per caratterizzare e ancora meno per lanciarsi in lunghe descrizioni. È necessario che lo stile sia incisivo, insomma, un aggettivo che tutto descrive fuorché la voce narrante di Christopher. Il risultato si condensa in questo volumetto: racconti che dicono poco in relazione allo spazio occupato. Racconti che non dissetano la gola riarsa dei lettori con domande vecchie di un decennio. Racconti parziali e troncati a metà da una casa editrice con gli occhi a forma di simboli di dollaro.

Questo patchwork di racconti è una bieca mossa commerciale. Non tenete fede al numero di pagine gonfiato da scelte tipografiche per ipovedenti: son quarantamila parole in tutto, con qualche decina di resto. Una cifra vergognosamente bassa.


Per concludere

Perché scrivere un solo spin-off quando ne puoi scrivere tre? Sì, gente, siamo dinnanzi al primo episodio di una progettata trilogia. Memori di Brisingr, aspettiamo pure che il numero lieviti…

Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.
Mezza stellina.

La lepisma libraia