[Recensione] “Quattro. Il risveglio” di Luca Farru

Copertina di Quattro. Il risveglio.

Preambolo necessario: ringrazio di cuore Luca Farru per avermi inviato una copia digitale di questo libro in cambio di una recensione onesta. Chi volesse fare richiesta di recensione può consultare questa pagina.

Buon inizio di settimana, cari lettori! State assorbendo il rientro dalle ferie o la malinconia da post-vacanza, come dicono oltreoceano? La lepisma ha trascorso una settimana a rinfrescarsi i polmoni e a mirar le stelle in quel dell’Appennino settentrionale e ora si ripresenta in gran forma – psicologicamente e letteralmente parlando, stante le numerose abbuffate d’ogni sorta – con una nuova recensione. Diamo un’occhiata ravvicinata a Quattro. Il risveglio, il debutto di Luca Farru nel filone della narrativa urban fantasy.

 

Quattro. Il risveglio.

Titolo: Quattro. Il risveglio
Autore: Luca Farru
Genere: urban fantasy
Editore: Youcanprint (autopubblicato)
Pagine: 334

Sinossi

Per cinquecento anni, il mondo sovrannaturale e quello degli esseri umani hanno vissuto in armonia. Il regno dei guardiani ha garantito stabilità e giustizia a tutte le sue fazioni, ma l’equilibrio sembra d’un tratto interrompersi e le paure legate al passato riemergono impetuose. Le forze oscure sono riuscite a scalfire il più potente incantesimo della storia del mondo magico, ed hanno come obiettivo ultimo quello di risvegliare il loro padrone, Serafyn, per riprendere il suo piano diabolico da dove è stato interrotto.

Rose, Sybil, Matt e Cody sono quattro sconosciuti apparentemente ordinari, vivono le loro esistenze spensierati in zone diverse del mondo e non hanno la minima idea di cosa sta per travolgerli. Scopriranno di essere legati indissolubilmente l’uno all’altra in modo inquietante, e di essere gli ingranaggi fondamentali di un terribile destino comune dove l’oscurità è protagonista. In questa intensa avventura, non potranno fidarsi di nessuno, a volte nemmeno di loro stessi, e lotteranno insieme per evitare che il mondo intero finisca nelle mani dei demoni. Il Risveglio racconta della prima parte del loro viaggio; li conosceremo, ci affezioneremo, incontreremo un sacco di altri personaggi interessanti ed arriveremo in men che non si dica all’ultima pagina, con un colpo di scena che ci lascerà senza parole. Cosa ne sarà del loro futuro?

Voto: 1/2

 

Quattro: la recensione

Cosa fareste se dall’oggi al domani vi ritrovaste un marchio sconosciuto tatuato sul corpo? Le alternative sono due: o ignorate o indagate. Dai loro rispettivi alloggi a Singapore, Milano, New York e Vancouver, i nostri quattro ragazzi Sybil, Rose, Matt e Cody vorrebbero che si concedesse loro il beneficio del dubbio, così come viene permesso a noi normali esseri umani, ma la verità è che l’istinto di sopravvivenza li ha già costretti a svegliarsi dai sogni a occhi aperti dei periodi ipotetici per prendere una decisione che condiziona per sempre le loro vite.

Quando le forze demoniache minacciano ancora una volta di prendere il sopravvento, infatti, in palio c’è il destino del mondo tutto e loro sono i prescelti per salvarlo… o condurlo a definitiva distruzione. Come i ghepardi acquattati fra le sterpaglie che aspettano solo che la gazzella ignara abbassi il collo per ruminare, i demoni covano nell’ombra in attesa dell’occasione propizia per attaccare. Se non vogliono cominciare a brucare l’erba dalla parte delle radici, i nostri ragazzi dovranno scattare con più prontezza dei loro inseguitori.

Ma perché è stata bandita questa caccia all’uomo?

 

La forzata immobilità di Serafyn deve finire

Con l’anima spezzata in quattro da un incantesimo che lo ha costretto in stato di quiescenza, Serafyn attende il momento della propria rinascita. Da secoli le forze demoniache a lui sottoposte hanno cercato una breccia nel sortilegio, e ora che l’hanno trovata si stanno ricompattando in vista di liberare il loro padrone. La chiave della cella? Quattro pezzi d’anima in quattro giovani ospiti inconsapevoli da rintracciare, braccare, sacrificare. Quattro personaggi che devono imparare a convivere con il mondo soprannaturale al quale ignorano di appartenere

 

“Dagli al personaggio!”

… disse Lepisma e brindò alla salute di Luca Farru. Che sforni dieci, cento, mille altri romanzi in cui ai protagonisti si riservino i peggiori scenari che fantasia possa concepire.

Sono seria.

La penna di Farru è spietata. Non tratta i propri figli con guanti di velluto, come se fossero delicati soprammobili in resina da spolverare con un pennello a setole morbide (ne so qualcosa), ma li salva dall’olio bollente della padella per buttarli nel nucleo incandescente della fucina di Nidavellir.

Non c’è, insomma, alcun deus ex machina che assicuri loro un lieto fine. Sybil, Rose, Matt e Cody devono fare fronte comune e cavarsela da soli, perché dall’autore non ricevono, com’è giusto che sia, mani salvifiche che facciano il lavoro sporco al loro posto. Dovranno sudare e soprattutto correre, correre come la lepre che affida la propria sopravvivenza ai muscoli delle sue zampe.

E scopriranno, malgrado il loro aspetto da ordinari esseri umani, di nascondere ben più di un aculeo sotto la pelle fragile…

 

Cattivi matricolati

Per ogni personaggio bastonato ci dev’essere, di riflesso, un personaggio che lo bastona (a meno che detto personaggio non soffra di autolesionismo, ma quella è un’altra storia).

I demoni di Quattro. Il risveglio non scherzano, né si sottraggono alle manifestazioni di violenza più abiette. Quello che promettono, mantengono fino in fondo.

La violenza, d’altronde, definisce i meccanismi di potere del loro stesso mondo: mentre la regina Melania governa i guardiani nel rispetto di tutte le creature, la strega Gaia, in via temporanea assurta al comando in seguito alla discesa nell’oblio di Serafyn, tiene unite a sé le folle del sottomondo demoniaco imponendosi con il terrore: chi anche solo commenta le sue strategie è un demone morto.

E va benissimo così! Fatti, non parole!

Senza esagerare, però…

 

Stile adrenalinico

Lo stile di Quattro. Il risveglio è di quelli da tenere il fiato sospeso senza soluzione di continuità. In pratica, è lo stile che, entro un certo limite, più si confà alla narrativa di genere fantasy.

Trovo, però, che un eccesso di azione a discapito di passaggi più riflessivi sia controproducente. Un’azione caratterizza i personaggi tanto quanto una riflessione. Non ci sono, in tutto il libro, momenti in cui i personaggi possano davvero tirare un sospiro di sollievo e concedersi un minuto per sedersi e stare a pensare. Il gran finale risulta indebolito perché il libro è un unico, continuo climax. Avete presente il detto “la calma prima della tempesta”? È il grado di contrasto fra il prima e il dopo, il cambio di rotta repentino, che determina l’impatto emotivo di un’azione: un fulmine a ciel sereno fa trasalire molto più di quanto non faccia un lungo temporale. Perfino dopo le burrasche più devastanti e le onde più anomale segue sempre una fase di bonaccia, perché il cielo possa ricaricarsi di nuova elettricità… e via che riparte il cerchio.

Anche i cuori dei nostri eroi galoppano come cavalli imbizzarriti.

 

Amori che decollano in verticale

Come lo Space Shuttle.

La cinica che è in me tende a storcere un po’ la bocca quando si racconta di rapporti amorosi che divampano come una pozzanghera di benzina innaffiata da un getto d’alcool. Non sto negando l’esistenza di quelle cotte istantanee battezzate con un significativo “colpo di fulmine”, ma ritengo che un faccino piacente o una simpatia a pelle non siano ragioni sufficienti a instaurare rapporti profondi e potenzialmente duraturi come quelli presentati in Quattro. Il risveglio, per i quali basta un contatto visivo a scatenare la scintilla.

Ancora una volta, i personaggi – le loro interazioni – soffrono di una cifra stilistica che sacrifica qualsiasi pausa introspettiva per dare spazio a scene d’azione dove è bandito ogni pensiero. Sono, in definitiva, poco caratterizzati.

Ritengo, in ogni caso, che uno stile immediato e spartano sia sempre e comunque preferibile a un linguaggio prolisso e artificiale più orientato a infiocchettare che a raccontare.

 

Per concludere

Un promettente esordio dallo stile asciutto e conciso, con qualche magagna che non gli leva la piena sufficienza e con cattivi che sanno fare il loro mestiere. Un occhio di riguardo al target di lettura, perché non scenda al di sotto dell’età young adult: descrive atti brutali che potrebbero turbare lettori più giovani.

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La lepisma libraia

[Recensione] “Friend request. Richiesta di amicizia” di Laura Marshall

Friend request. Richiesta di amicizia.

Buon sabato e buon primo terzo d’estate! È stato pubblicato qualche giorno fa questo thriller, dal titolo Friend request. Richiesta di amicizia, che mira a mettere in luce le insidie dell’era dei social network in una società sempre più assorbita dai colori sgargianti di uno schermo piatto. Ora, bando alle chiacchiere e analizziamolo assieme!

Titolo: Friend request. Richiesta di amicizia
Autore: Laura Marshall
Genere: thriller
Editore: Piemme
Pagine: 348

Un romanzo dalla lettura compulsiva, che racconta qualcosa che potrebbe succedere a tutti noi: chi non ha paura di ricevere una richiesta di amicizia su Facebook… dalla persona sbagliata?

“Il mio nome è Louise Williams e oggi ho ricevuto un messaggio diverso dagli altri. «Maria Weston vuole stringere amicizia con te.» Forse è stato proprio questo il problema, fin dall’inizio. Maria Weston voleva diventare mia amica, e io l’ho delusa. Maria Weston vuole stringere amicizia con me. Ma Maria Weston è morta più di venticinque anni fa.”

Uscito nell’estate 2017 e tuttora, dopo un anno, in vetta alle classifiche inglesi, Friend Request −Richiesta di amicizia arriva finalmente in Italia. Un romanzo dalla lettura compulsiva, che racconta qualcosa che potrebbe succedere a tutti noi: chi non ha paura di ricevere una richiesta di amicizia su Facebook… dalla persona sbagliata? Nessuno è al sicuro quando ha troppi segreti, perché il passato ha la brutta abitudine di tornare sempre a prenderci. E, per Louise, tornare al passato significa anche risolvere i nodi che ingarbugliano ormai da troppi anni il suo cuore. Un romanzo che ha fatto impazzire i lettori inglesi, una lettura trascinante che colorerà di suspense ed emozione vera la vostra estate.


Friend request: la recensione

A quale categoria di facebookiani appartenete?

Siete della risma dei postatori compulsivi, quelli che rilasciano foto a ciclo continuo di sé, delle proprie performance culinarie, del bicchiere d’acqua sul tavolo di ristorante a cui sono seduti?
Promuovete, con l’aggressività di un conduttore di televendite e infilando cuoricini e faccine sorridenti una dietro l’altra nei vostri post, prodotti dimagranti miracolosi per vostro tornaconto monetario?
O preferite forse sedere in panchina, spiando i vostri amici da dietro le quinte senza mai postare niente voi stessi? Vi affacciate quindi al mondo virtuale con meno frequenza di quanto la Terra giri attorno al Sole?
Forse tormentate gli amici con meme dei vostri film/libri/attori preferiti, e non paghi integrate con uno spammaggio selvaggio di altrettanti meme su gruppi e pagine a questi film/libri/attori dedicati?

Chi ha la sfortuna di avermi fra la cerchia di amici su Facebook saprà a quale categoria associarmi. Ma nessuno di voi, a meno che non abbia già letto Friend Request. Richiesta di amicizia e sia qui per trovare sostegno o meno alle proprie impressioni sul libro, sa a quale categoria appartenga Louise Williams.

Louise non soffre di crisi di astinenza, né lascia il suo account di Facebook allo stato brado come la giunta con certe aiuole del comune. L’ago della bilancia della sua attività di condivisione sta esattamente nel mezzo: non si tira indietro dal pubblicare particolari della sua vita privata, ma neanche esagera in quello che esibisce, in un equilibrio che tutti considereremmo sicuro da invasioni di privacy o furti d’identità. Tuttavia, scoprirà che anche un uso morigerato di Facebook può costarle più di un battito mancato e stille di sudore freddo sulla fronte


Friend request da Maria Weston, sei davvero tu?

Come poteva sapere, Louise, che quel mezzobusto bianco su campo azzurro nella parte alta dello schermo avrebbe innescato, come l’eco di un urlo in alta montagna, una valanga di guai?

Come il nome di Maria Weston compare nell’elenco notifiche, ricordi che Louise ha impiegato anni per contenere nei recessi del subconscio rompono la diga in cui sono stati forzatamente intrappolati: Maria Weston, morta a una festa di liceo, non può essere ancora viva. Non può essere lei a manovrare il profilo dall’altro capo della rete. O sì?

E non è tutto. Qualcuno, di identità non ben precisata, sta organizzando una rimpatriata di classe. Le date sembrano troppo studiate per essere una coincidenza: Louise dovrà scegliere se risalire al mittente della richiesta di amicizia, indagine che implica un tuffo in un passato scomodo, reso doloroso da peccati di gioventù mai espiati, o se chiudere il coperchio del portatile, mettersi una pezza agli occhi e fingere che il corso della vita scorra indisturbato come sempre.

Ma non c’è requie per Louise. Se dapprima la donna liquida la questione con un’autodiagnosi di paranoia, quando alla richiesta di amicizia si sommano degli inquietanti messaggi privati è costretta ad ammettere di essere pedinata e inspirare a pieni polmoni: e tuffo sia, dunque. Maria Weston è ancora viva? Non le resta che trattenere il fiato, farsi coraggio e scoprirlo. E se non è lei, chi sta profanando il suo nome, chi la sta impersonando? Soprattutto, che motivi ha per perseguitarla?

All’ultima domanda, la coscienza della nostra protagonista sa rispondere con fin troppa precisione.


La tua debolezza è la mia forza

Friend request. Richiesta di amicizia, come Carrie di Stephen King, a cui dà l’impressione di ispirarsi, è una storia sul bullismo e su quella necessità, comune a molti adolescenti, di convergere verso chi brilla di fama e successo nella speranza di intercettare un raggio di luce riflessa.

Come la falena che cerca la lampadina e con questa si brucia, ai tempi del liceo Louise si aggrappava mani e piedi alla sua amicizia con la compagna di scuola Sophie. Sophie era famosa, era bella, era attorniata da stuoli di ragazzi pronti a stenderlesi di fronte perché si potesse pulire le suole sul retro delle loro magliette. Un passe-partout per le feste più esclusive del liceo, a patto che ti prendesse sotto la sua egida. Louise aveva bisogno di Sophie tanto quanto Sophie aveva bisogno di Louise: una persona adorante da guardare dall’alto in basso per sentirsi riaffermati, approvati, apprezzati. Tu scivoli, io mi elevo e ti offro una mano per illuderti di poterti definire membro del mio gruppo.

Insomma… ciò che Sophie ordina, la docile Louise esegue.

È la quintessenza della manipolazione emotiva. E sarà ciò che cambierà per sempre la vita di Louise.


Unico neo: protagoniste come da manuale del perfetto cliché

Louise è cresciuta e ha abbandonato, o quantomeno ridimensionato, la portata delle sue paure di adolescente: è reduce da un divorzio, ma adora suo figlio e il suo lavoro di arredatrice. Non teme più di essere esclusa nelle relazioni interpersonali… oppure sì?

Nel rapportarsi con i vecchi compagni di scuola, Louise regredisce. Si tratta proprio di un’involuzione: da donna di medio successo a ragazzina spaurita, con le pupille ingigantite dall’ansia, accucciata nell’angolino nella speranza che nessuno le rivolga la parola perché le sudano i palmi al sol pensare di rivedere i volti noti del liceo.

No, no, no. E lo so che i thriller devono suscitare emozioni, ma ne abbiamo (ho) piene le tasche di protagoniste passive, di invertebrate senza spina dorsale. Per non parlare della frivolezza di Sophie: quanta originalità…


Per concludere

Depista bene e descrive bene, mantenendo alta l’attenzione fino al punto di conclusione che non ci si aspetta. Ben congegnati i flashback degli anni di liceo che si alternano alla narrazione al presente. Punto dolente in una sfilza di pollici in su, lo stereotipo scolastico della ragazza timida e dell’adolescente procace.

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La lepisma libraia

[Recensione] “The Testament of Loki” di Joanne Harris

The Testament of Loki (pubblicato in originale questo 17 maggio, titolo in italiano non ancora disponibile) prende il testimone de Il canto del ribelle, di cui trovate qui una recensione, e chiude la distanza che lo separa dal sequel Le parole segrete, pubblicato qualche anno fa. È, insomma, un sequel al prequel. E l’ho aspettato per mesi. Valsa è l’attesa? Leggete oltre per scoprirlo!

Titolo (inglese originale): The Testament of Loki
Autore: Joanne Harris
Genere: fantasy/young adult
Editore: Gollancz
Pagine: 320

Il Ragnarök è stato la Fine dei Mondi.
Asgard è caduta secoli or sono e gli antichi dèi sono stati sconfitti. Alcuni sono morti, altri sono stati affidati all’eterno tormento nel mondo dell’oltretomba. Fra di loro c’è Loki, l’ingannatore per antonomasia. Un dio che ha tradito ogni alleato e che ha comunque perso tutto, che è stato dimenticato con il passare del tempo. Nel mentre, il mondo degli umani ha volto l’attenzione verso altre fedi, nuovi idoli e nuove divinità…
Ora, però, la razza umana ha ripreso a sognare gli dèi norreni. Il fiume Sogno è a un tiro di schioppo dalla loro cupa prigione e Loki è il primo a fuggire verso questa nuova realtà.
Il primo, ma non l’unico. Altre e più oscure figure sono scappate insieme a lui, figure che mirano a distruggere tutto quello che lui desidera. Se vorrà reclamare ciò che è andato perduto, Loki avrà bisogno di alleati, di un piano e di un numero consistente di trucchetti…


The Testament of Loki: la recensione

Il Ragnarök ha raso al suolo quanto costruito dagli dèi in secoli di influenza. Nel purgatorio senza tempo dove tutti loro sono sprofondati, una bolla di non-esistenza sulla falsariga del limbo di Inception, Loki giace ancora una volta in catene insieme a un serpente – suo figlio Jormungandr, tanto per cambiare – e non può dire di averci fatto il callo. Così, nell’oscurità totale, trascorre il tempo – saranno giorni, mesi, secoli? – a sognare una luce in fondo al tunnel da cui ogni tanto si affacciano guizzi dei mondi esterni. Gli dèi norreni sono sopravvissuti, infatti, se non in carne e ossa, in concetti riportati in videogiochi e saggi letterari: La gente pensa, dunque gli dèi sono.

Quando Loki infine la intravede, questa luce più stabile delle altre, e la insegue, nulla gli dà da pensare che l’altro capo del varco possa risputarlo nello scenario renderizzato di un videogioco (Asgard™) e nella mente di una diciassettenne inglese dei giorni nostri


Violazione di domicilio biologico

Il quesito primo, nel venire a conoscenza, qualche mese fa, di questa nuova pubblicazione della Harris, è stato: che altro c’è da raccontare? Il canto del ribelle (che per me, disconoscendo la traduzione ufficiale, è e rimarrà sempre Il vangelo di Loki) ha calato il sipario sul Ragnarok, scavando nella miniera della mitologia norrena ed esaurendo la sua vena di materiale.

In The Testament of Loki, infatti, si abbandonano gli scenari eterei della città del cielo per scendere alla mondanità dell’adolescenza young-adult. Jumps, la nostra co-protagonista nonché ospite coatta della divinità summenzionata, conduce la tipica vita di una diciassettenne: casa, liceo, qualche attrito parentale e autostima sotto i piedi.

Loki si autoinvita nella sua coscienza alla vigilia di un esame di letteratura inglese e non pone tempo in mezzo per rivoltare la vita della ragazza come un calzino. Un completo restauro estetico qui, un prelievo di sangue alla carta di credito là… D’altronde, è il caos fatto persona: dove passa lui, l’uragano Katrina piega il ginocchio e alza bandiera bianca.


Il Libro delle Facce e l’inspiegabile ossessione per le decalcomanie

“Ah, questo è un cellulare. Che sono quelle finestrelle colorate? Uh, si chiamano… icone? E quello? Il libro delle Facce. Ehi, ho fame. Tu hai fame, cioè. Perché non andiamo a mangiare? Frigorifero. Oh, ma i pinguini sul tuo pigiama hanno un significato particolare? Mi continua a balenare in mente questa parola, frigorifero. Cos’è un frigorifero, me lo spieghi, Jumps? E perché nel tuo (nostro) catalogo mentale c’è questo teschio con ossa incrociate su ogni cosa etichettata come cibo?”

Diciamocelo, non è la più gradita delle presenze.

Secoli di sensazioni incorporee e alquanto sgradevoli lo hanno affamato al di là di qualsiasi possibilità di saziarsi. Già ne Il canto del ribelle abbiamo letto il suo punto di vista come quello di una persona affezionata ai piaceri della carne e dei sensi, e ora che il corpo di Jumps lo affaccia all’esplorazione di un nuovo ed entusiasmante mondo, il desidero di fare tutto e subito lo investe come l’impatto di una colata di cemento. Ma Jumps, la sua giovane ospite, non è esente da una rosa di problematiche personali e questo nuovo peso sul groppone rischia di spezzarle le caviglie…


Qua la zampa, Thor!

Loki pensa, dunque, di poter fare quello che gli pare. È sicuro di sedere al vagone di testa, di essere stato il primo, il più furbo, a rompere le catene del limbo. Ma non è così: da tempo non quantificabile, infatti, Odino ha già avuto modo di insediarsi fra le sinapsi di Evan, ragazzo coetaneo a Jumps a cui manca un occhio e forza nelle gambe (sembra proprio che Odino sia afflitto da una maledizione che gli impedisce di apprezzare il senso della vista in tre dimensioni). Anche Thor trova una sistemazione degna della sua caratura nella testa di un candido cagnolino. E a scuola, codazzi di adolescenti sbavanti seguono la scia di feromoni che Freya, la dea dell’amore di tempi andati, si diffonde alle spalle nel corpo di una delle ragazze più attraenti dell’istituto…

Insomma, vuole il caso che il nostro divino ingannatore sia atterrato in una cittadina ad alta densità di divinità norrene.

Raccolta di libri sulla mitologia norrena.
Alla lepisma piacciono i miti norreni. Si nota?

Un gatto che non è né morto né vivo

Quando Loki pensa di potersi dare alla pazza gioia assumendo (reclamando con la forza) il controllo del corpo di Jumps, Odino, incarnatosi in Evan, gli impartisce una lezioncina di fisica quantistica: occhio, dice, che noi in questo mondo siamo come il gatto di Schrödinger. Né morti né vivi, solo coinquilini abusivi di appartamenti che prima o poi saremo costretti a restituire per intero ai legittimi proprietari.

Ecco, allora, che Odino illustra il suo piano, non senza qualche opportuna omissione: insieme alla caduta del loro mondo si sono sgretolate anche le rune del potere di cui gli dèi erano detentori, ma una nuova profezia annuncia l’avvento di nuove rune. Queste nuove rune sono la chiave per la risurrezione completa degli dèi e della potenza di Asgard.

In sostanza: Posa quel gin tonic, Loki, ché mi serve il tuo aiuto. Le rune, però, sono artefatti magici potentissimi. Stuzzicano l’ambizione di molti, di Odino in primis. Di un’entità a lungo dimenticata, in secundis. E Loki è il sempiterno Caotico Neutrale che non si schiera da nessuna parte…


Loki, il narratore per eccellenza

The Testament of Loki ripropone gli stessi difetti de Il canto del ribelle: Joanne Harris preferisce la narrazione passiva, nella quale Loki/Jumps riporta i fatti in un tempo successivo al loro svolgimento e svela la rete di piani e macchinazioni quando siamo ormai in zona Cesarini.

Nelle giuste dosi, l’attesa della rivelazione è un espediente letterario da pollice in su se retto da uno stile coinvolgente, perché, come nei migliori romanzi gialli, alimenta la nostra curiosità e ci invoglia a voltare pagina. Se invece si tratta di tenere il lettore sulle spine, centellinando le spiegazioni da dargli al contagocce, per poi distribuirle con la parsimonia di Ebenezer Scrooge mentre noi stiamo qui sotto trepidanti, manco fossimo fan di Justin Bieber, col collo in aria e la bocca a pesce morto, che attendono lo sputo di infodump dal balcone… ecco, così diventa una fonte di frustrazione, perché ci sentiamo un po’ l’ultima ruota del carro.


Raccontare prima, spiegare dopo

Lo stile della Harris, insomma, si rivolge al lettore solo a cose compiute e gli parla per riassunti, al punto che i personaggi di sfondo sono poco più che sagome dai contorni sfocati. Disordini psicologici da far surriscaldare il cervello a fior fiori di specialisti si curano con la retorica da banco di Lucy van Pelt. Gli interessi amorosi sono resi tutti al raccontato, descritti come improvvisi colpi di fulmine che fanno deragliare il nostro protagonista fuori dai binari di caratterizzazione su cui siamo abituati vederlo scorrere. Sarà l’influenza dell’umanità di Jumps, sarà la condizione da mortale… questo Loki è disinibito e impulsivo, preda delle emozioni come non lo abbiamo mai visto, ed è un’emotività un pochino Out Of Character.

In ogni caso, la voce di Loki può esser salita di qualche ottava al di fuori, ma alle orecchie di noi lettori si ripresenta irriverente e grondante di ironia. Ho trovato appropriate le sue reazioni – affatto scioccate – nel prendere coscienza di stare abitando un corpo da doppio cromosoma Y, ed esilaranti le sue gaffe che paiono strizzare l’occhio all’ingenuità del Thor di Chris Hemsworth alle prese col mondo moderno. Ma questo è il Loki della mitologia norrena come Snorri lo ha tramandato e ci vuole molto più di un frigorifero per disorientarlo…

L’idea di partenza, in sintesi, è GENIALE ma sprecata. E non c’è nulla di più insoddisfacente della genialità sprecata!


Per concludere

È come una doppia porzione di gelato alla vaniglia: divori la prima metà come se non avessi mai mangiato, l’altra metà devi sforzarti di ingollarla meccanicamente perché non capisci più che sapore abbia e speri che finisca presto. Mezza stellina in più, per un totale di quattro, se l’ultima pagina non avesse messo il punto su un finale aperto dal retrogusto, spiace dirlo, di operazione commerciale.

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Mezza stellina.

La lepisma libraia

[Recensione] “SICE Le bambole non hanno diritti” di Fernando Santini

Copertina di SICE - Le bambole non hanno diritti.

Preambolo necessario: ringrazio di cuore Fernando Santini per avermi inviato una copia digitale di questo libro in cambio di una recensione onesta. Chi volesse fare richiesta di recensione può consultare questa pagina.

Buon sabato, lettori! Era da un po’ che non transitavo per questi lidi causa venti contrari, ma oggi sono decisa a infarcire la giornata con un profluvio di parole: quelle che userò per recensire (lodare) SICE Le bambole non hanno diritti. Diamo un’occhiata alla sua scheda tecnica e a una breve sinossi, vi va?

 

SICE - Le bambole non hanno diritti

Titolo: SICE Le bambole non hanno diritti
Autore: Fernando Santini
Genere: poliziesco/thriller
Editore: Dark Zone
Pagine: 143 (Kindle)

Sinossi

Il Vice Questore Marco Gottardi ha avuto un passato importante nei reparti operativi della Polizia di Stato. Dopo aver vissuto sulla sua pelle la violenza della lotta alla criminalità si è ritirato a gestire un tranquillo commissariato romano. La sua esperienza e la sua capacità di gestione dei propri uomini, non possono, però essere sprecate. È a lui che i vertici del ministero degli Interni affidano il comando di una nuova unità: la Squadra Investigativa Crimini Efferati. La prima indagine in cui la Squadra sarà coinvolta riguarderà la morte di un regista cinematografico forse collegata all’uccisione di un adolescente il cui corpo, orrendamente torturato è stato ritrovato alla foce del Tevere. Nel corso della propria azione investigativa, la S.I.C.E. troverà un alleato, anche se non particolarmente gradito al Vice Questore Gottardi: un’organizzazione segreta denominata ARCO, i cui membri hanno deciso che il fine giustifica i mezzi e che quindi si può usare la violenza per far trionfare la giustizia.

Voto:

 

SICE: la recensione

Al Centro di identificazione ed espulsione (CIE) di Lecce, c’è qualquadra che non cosa. Nonostante la struttura sia sottoposta a vigilanza costante, strane sparizioni avvengono sotto gli occhi di profughi e assistenti del centro. Qualche centinaio di km più a nord, negli ingorghi del traffico romano di inizio maggio, il regista Guglielmo Pieretti viene trovato morto nel suo appartamento, e il cadavere di un bambino migrante rinvenuto sulle rive del Tevere. Dai segni sul corpo del ragazzino si può escludere con certezza l’ipotesi di un incidente.

Sul groppone della neonata SICE, capitanata da Marco Gottardi, già famoso per la sua indefessa carriera tra le forze dell’ordine, l’onere di indagare su entrambi questi crimini. Pur così distanti in linea d’aria, infatti, si scoprirà che sono collegati da un filo che ha il colore del sangue di vittime innocenti.

L’etica di SICE è inequivocabile: amministrare giustizia, sì, ma senza ricorrere ad alcuna violenza. Dietro le mura soleggiate della caserma, però, si muove l’organizzazione ARCO, composta da ferventi credenti della legge del taglione…

Fernando Santini ci consegna una storia dalla moralità ambigua, un Death Note meno tortuoso e senza componenti soprannaturali in cui saremo chiamati a scegliere da che lato schierarci. Tiferemo per la giustizia immacolata di SICE o ingrosseremo le fila di chi preferisce farsi ragione da sé?

 

Film snuff… lasciate ogni speranza, voi che leggerete

AAA Cercasi speranza nel genere umano.

C’è sempre qualcosa da imparare dai libri. Prendetevi nota di questo termine in vista della lettura di SICE Le bambole non hanno diritti, e poi archiviatelo nello sgabuzzino mentale. Se non vi spaventa la possibilità di un trauma cranico, datevi una martellata in testa e procuratevi un’amnesia che faccia tabula rasa del suo significato.

Della serie: forse stavo meglio quand’ero ignorante. SICE Le bambole non hanno diritti ha, come dire, piantato l’ago nella bolla di sapone dentro cui vivevo fino a una settimana fa e mi ha introdotto all’inquietante sottomondo dei film snuff.

L’idea che esista davvero qualcosa come i film snuff, il pensare che i crimini descritti in SICE si ispirino alla realtà dell’inciviltà umana… mi deprime, mi annienta. Si torna allora alla vecchia diatriba: sporcarsi o no le mani in nome della giustizia? Il concetto di “giustizia pulita”, in questi casi estremi, rischia di scontentare tutti quanti.

La SICE avrà il suo daffare a stanare tutta la rete di criminali coinvolti nel giro, un’urgenza che si ripercuote anche su noi lettori. Al procedere con la lettura, la voglia di presentarsi di persona con un mandato d’arresto (o armati di un tirapugni, se non ci è permesso l’uso di un oggetto più contundente) assilla sempre di più la coscienza del team di Gottardi per poi riflettersi su di noi, passivi spettatori.

 

Tecnica perfetta

Lo stile di Santini ha tutto il mio apprezzamento. È fluidissimo nei dialoghi, si attarda il giusto sulle descrizioni, il lessico è appropriato al genere poliziesco. La narrazione al presente, che ricorda lo srotolarsi della bobina di un film, fa perfetta pendant con i contenuti. Insomma, i miei complimenti.

 

Per concludere

Un romanzo crudo, realistico e piacevolissimo da leggere.

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La lepisma libraia

[Recensione] “L’anno in cui imparai a raccontare storie” di Lauren Wolk

Copertina de L'anno in cui imparai a raccontare storie.

Vi avevo annunciato, qualche giorno fa, che avrei recensito L’anno in cui imparai a raccontare storie, nuova uscita della Salani che questo 10 maggio reclamerà la sua nicchia sugli scaffali delle nostre librerie. Ebbene, mi ripresento sul blog con buone notizie e il cuore strapazzato…

Titolo: L’anno in cui imparai a raccontare storie
Autore: Lauren Wolk
Genere: ragazzi/drammatico
Editore: Altromondo Editore
Pagine: 278

Come Il buio oltre la siepe, a cui è stato paragonato da tutti i critici che l’hanno recensito, questo libro è la sintesi perfetta di avventura, suspense, impegno civile. Ambientato nel 1943, all’ombra delle due guerre, è il racconto di una ragazzina alle prese con situazioni difficili ma vitali: una nuova compagna di classe prepotente e violenta, un incidente gravissimo e un’accusa indegna contro un uomo innocente. Annabelle imparerà a mentire e a dire la verità, perché le decisioni giuste non sono mai facili e non possiamo controllare il nostro destino e quello delle persone che ci sono vicine, a prescindere da quanto ci impegniamo. Imparerà che il senso della giustizia, così vivo quando si è bambini, crescendo va difeso dalla paura, protetto dal dolore, coltivato in ogni gesto di umanità.
Una scrittura nitida e coinvolgente dà voce a una delle protagoniste più forti della letteratura contemporanea e terrà incollati alle pagine sia i ragazzi che gli adulti. L’anno in cui imparai a raccontare storie è già un classico.


L’anno in cui imparai a raccontare storie: la recensione

If my life was to be just a single note in an endless symphony, how could I not sound it out for as long and as loudly as I could?

L’anno in cui imparai a raccontare storie vi farà digrignare i denti e stringere i pugni. Che siate bocche di porto o bocche di rosa, vi caverà fuori una sfilza di volgarità assortite. Lettori avvisati, mezzi salvati. Le mani cominceranno a prudervi così tanto dal desiderio di fare qualcosa, qualunque cosa, che rischierete di defenestrare il libro. Se tecnologicamente aggiornati, lancerete l’eReader sul quale lo state leggendo. Magari gli assesterete prima un paio di testate sperimentali, giusto per avere conferma, non senza una punta di frustrazione, che le leggi fisiche che governano il nostro mondo non sono le stesse che pervadono quello magico di Harry Potter e del diario di Thomas Riddle.

Lungi dall’essere solo un romanzo per ragazzi, L’anno in cui imparai a raccontare storie non si fa scrupolo di sconvolgere il lettore con tematiche forti, di quelle da strofinarsi le braccia per scacciare via i brividi di orrore. E non crediate, voi del pubblico che avete già soffiato su diciotto candeline, di poter scampare alla pelle d’oca. È un libro crudele, di una violenza sottile ma agghiacciante. Vi turberà, che lo vogliate o meno, e poi vi farà sfiatare come tori pronti a incornare il primo malcapitato. Proprio come Il buio oltre la siepe.

Ma di che violenza stiamo parlando, esattamente?


L’anno in cui imparai la violenza del bullismo

Siamo alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, nell’autunno del 1943. Alla cattedra scolastica si presenta Betty, ragazza di città trasferitasi dai nonni nella pacifica campagna della Pennsylvania. Annabelle, figlia di fattori e nostra protagonista, è lì lì per tendere il palmo aperto in segno di amicizia, ma Betty Glengarry, a dispetto del grazioso visino d’angelo, butta via il rametto d’ulivo per impugnare il bastone.

Betty non è cattiva, si dimostra cattiva. Tanto cattiva da far cascare la mascella a tutti i lettori, a prescindere dalla loro età. Temendo ritorsioni, Annabelle si lecca le ferite al buio, lontano dagli occhi dei genitori. Solo dopo l’intervento di Toby, un veterano di guerra che da anni intrattiene un silenzioso quanto strano rapporto con la famiglia della ragazza, Annabelle si arma di sufficiente coraggio per confidarsi con gli adulti.

Non l’avesse mai fatto. Vi lascio il piacere (il raccapriccio) di addentrarvi da soli nel ginepraio di questa storia di bullismo.


L’anno in cui imparai la violenza del pregiudizio

Dopo l’incontro/scontro con Toby, imponente nella sua stazza di adulto coi pugni sulle reni, Betty se la svigna con la coda fra le gambe. Quando la quiete sembra tornare nella vita di Annabelle, ecco che un sasso piomba di nuovo a sconvolgere la superficie dello stagno. La increspa di onde che si infrangono sull’intera comunità di Wolf Hollow. La dinamica dell’accaduto, di cui non parlerò, ha tutte le carte in regola per essere classificata come un incidente. Quando Betty, tuttavia, punta il dito accusatore contro Toby, Annabelle è certa che si tratta di una rappresaglia nei suoi confronti.

La collettività allora abbocca come un pesce all’amo e scaglia la prima, metaforica pietra. Toby è strano, Toby spiccica due parole in croce, Toby si aggira per la campagna con tre fucili sulla schiena, Toby occupa un affumicatoio a malapena abitabile, Toby, Toby, Toby. Toby che è così magro da avere costole in evidenza, che possiede poco più della sua pelle. Deve essere lui il colpevole perché, insomma, Betty ha detto che lo ha visto e Betty è la voce della verità. Perché è facile lapidare chi ha solo mani nude dietro cui ripararsi.

One time he had showed me a batch that featured a red-tailed hawk with a rabbit in its beak, a thunderhead glazed with evening light, a deer napping in a patch of mayapples. I had never known anyone quiet enough to approach a sleeping deer. Nor had I known any hungry man who would shoot one with a camera instead of a gun.

Ritroviamo, in una misura ridimensionata rispetto al più “adulto” Il buio oltre la siepe, la condanna verso il razzismo e l’oppressione dell’innocente. Un’altra penna che denuncia una realtà in cui l’ideale di una giustizia equa (r)esiste solo nella mente di alcuni illusi. Inquieta, se non addirittura indigna, l’attualità di questa disuguaglianza.

E il rimorso arriva sempre troppo tardi!


L’anno in cui imparai la violenza dei pensieri

Le circostanze portano Betty a giacere ignara su un tappeto di edera velenosa, e gli strali di Annabelle sono anche i nostri: ti vengan le vesciche fin fra le dita dei piedi, brutta vipera. Quando lo srotolarsi della trama esaudisce le preghiere con gli interessi, però, Annabelle rivaluterà la sua coscienza, e così noi la nostra.


L’anno in cui mentii secondo convenienza

Per assecondare l’intuito che le dice di essere nel giusto, Annabelle deve fare ricorso a quelle che vengono definite bugie bianche: mentire, cioè, a fin di bene. Le costerà. Annabelle non solo imparerà a raccontare “storie”, ma dovrà anche imparare ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte, qualunque siano le loro conseguenze. Imparerà a rendersi conto che a nulla vale rimacinare i se del passato quando la vita che si percorre non permette di fare marcia indietro.

Ovunque si trovi la fine di questo percorso, l’ostinazione della giovane Annabelle è come un faro di speranza verso un futuro in cui si annulleranno tutte le ingiustizie sociali. Bisogna perseguire la verità, sempre e comunque, indipendentemente dalle probabilità di successo. Alla gioventù il compito di crescere più rigogliosa della generazione precedente.


Per concludere

Una storia drammatica e coinvolgente che ruota attorno a un grappolo di personaggi indimenticabili, nel bene e nel male, introdotti con uno stile che è come carta moschicida per i nostri occhi.

Stellina per recensioni.
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[Recensione] “Rorschach” di Raffaele Izzo

Copertina di Rorschach di Raffaele Izzo.

Preambolo necessario: ringrazio di cuore Raffaele Izzo per avermi inviato una copia digitale di questo libro in cambio di una recensione onesta. Chi volesse fare richiesta di recensione può consultare questa pagina.

Fra i venti libri che ho letto dall’inizio di quest’anno, Rorschach è stato il più sofferto. Che non mi si fraintenda: non è stato il peggiore in sé, ma il peggiore da digerire. Tanti i fattori responsabili, da un genere di metanarrativa profonda e filosofica che non è il pane che sono solita masticare a uno stile volutamente prolisso che mette al bando ogni realismo, senza trattenersi dal riversare qualche goccia di superacido sulla narrativa di generi più commerciali e sui suoi relativi lettori. Vediamolo assieme.

 

Rorschach.Titolo: Rorschach
Autore: Raffaele Izzo
Genere: filosofico/giallo
Editore: Altromondo Editore
Pagine: 278

Può un’amicizia fraterna andare oltre un destino beffardo? Questa è la storia di Rorschach e Michel, cresciuti nello stesso ambiente, quasi fratelli, eppure eterni nemici-amici.

Voto:

 

La recensione

Rorschach è un romanzo ambizioso sulla lotta interiore e tutta umana fra istinto animalesco e razionalità. È la storia della famiglia Rorschach e dei loro figli, uno naturale e l’altro adottivo, rispettivamente Michael e Jean Paul, in una Parigi in cui i riflessi della Senna e la luce soffusa dei lampioni in ferro battuto si ritirano dietro le quinte per cedere il palco a una narrazione astratta e libera dai vincoli del realismo. La psiche è la protagonista indiscussa.

Ed è la psiche la nemica dei Rorschach. Quando Michael, adolescente introverso e mentalmente più maturo dei coetanei, mostra le prime avvisaglie di un tratto che la famiglia si tramanda di generazione in generazione, Philippe, suo padre, colui che ha spezzato il cerchio del male, deve escogitare una soluzione perché quest’indole genetica e oscura, latente per tutta la vita, non prenda il sopravvento sul ragazzo come ha fatto in passato su altri membri della famiglia.

Ricco di spunti e di percorsi metanarrativi, Rorschach, dal nome del famoso psichiatra, si configura come un romanzo sperimentale che stimola il lettore a riflettere sulla coscienza umana e sulla responsabilità delle nostre scelte.

 

Coinvolgere piccoli, potenziali scrittori

Rorschach è diviso in tre sezioni. La prima, di gran lunga la più riflessiva delle tre, ci introduce ai membri della famiglia Rorschach, o forse dovrei dire che l’autore stesso rompe la quarta parete e ci guida la mano a stringere quella di Michael, di Jean Paul e dei loro genitori. Un po’ troppe interferenze per i miei gusti di lettrice, ma nel guazzabuglio di aggettivi emergono un paio di stimoli interessanti, primo fra tutti l’incapacità della mente umana di proiettarsi davvero in una coscienza estranea alla sua. La seconda parte, dal titolo Un accenno di romanzo, è più snella in nozioni di filosofia ma sempre viscosa da deglutire.

La terza parte, l’ultima, ha risvegliato un interesse andato scemando nelle sezioni precedenti. Qui l’autore si immedesima professore (in seguito a ricerche scopro che lo è davvero, di lettere) e propone agli studenti di scrivere, coi loro mezzi e secondo la loro vena creativa, delle variazioni alla storia principale esposta nelle precedenti sezioni. Gli studenti si ripresentano dunque a scuola il giorno successivo, leggono ad alta voce uno degli elaborati e lo discutono insieme all’insegnante, che li stimola a lasciare un contributo nel calderone del dibattito di classe. Da mera lettrice, mi sono trovata partecipe: viene naturale inserirsi nel contesto di quest’aula immaginaria e ruminare le opinioni dei compagni. L’idea di partire da un prompt e sguinzagliare la creatività su finali alternativi l’ho trovata davvero interessante.

Ma anche un’idea interessante dev’essere sviluppata bene.

 

Affascinante (e già collaudato) l’incarto… ma il contenuto?

Ottimi il ritmo e la sintassi, palesi eredi della cifra stilistica ad asindeti di Saramago (di cui ho letto solo Cecità, e non troppo poco tempo fa, pertanto potrebbero esserci altre influenze che il mio bagaglio di letture non coglie), mentre sul piano ortografico si incappa in qualche affianco, accento e apostrofo da far storcere un pochino la bocca (un incudine, un’affastellarsi, da l’impressione di essere, ora va a giocare un po’), ammaccature su una buccia altrimenti immacolata. Domina, tuttavia, una tendenza a perdersi in quella che, per usare un termine forse un po’ troppo dispregiativo, viene chiamata fuffa.

Suo padre sembrava perplesso adesso, stranamente chiuso nei suoi pensieri, come se stesse viaggiando verso altri lidi, senti che strane immagini vengono in mente a questo piccolo uomo che dice di non amare i libri, e dove l’avrà mai presa questa figura del viaggiatore e della spiaggia, ci chiediamo noi in un impeto si curiosità, giustificata senz’altro dal contrasto dei due stati, profondo quello interno, vacuo e leggero quello esterno, che sempre l’uomo deve avere tante maschere, girarle continuamente sia verso gli altri che verso se stesso, data la difficoltà della vita terrena, impossibile da affrontare senza schermi, maschere, scudi e inganni.

Emerge prepotente lo sproloquio, quel tipo di discorso che sottrae al lettore tempo ed energie senza ricambiare in contenuto. In quest’arte, la pseudo-retorica del parlare a profusione senza dire nulla di concreto, i nostri politici han conseguito la laurea ad honorem. Se anche basta pigiare un tasto del telecomando per virare a contenuti più informativi, però, non possiamo saltare a piè pari intere pagine di un libro, perché incorreremmo nel rischio di sorvolare i passaggi importanti. Di una trama, infatti, in Rorschach c’è solo l’embrione al primo stadio di sviluppo e si abbonda invece di introspezioni che si dilungano a meditare a ciclo continuo sugli stessi concetti e non concorrono a caratterizzare i personaggi.

«Un giorno saremo maturi per la vera avanguardia, una narrazione veramente astratta, che salta i passi mediani, inutili, deboli, e si concentra solo sulle scene enormi, anche a distanza di anni. Per cavalcare tutto il tempo, e non solo pochi anni. È l’epica introdotta nel romanzo, lo so, ma io resto scettico, e con me tutte le tendenze attuali.»

 

Fatti, non parole

Su azioni e descrizioni concrete prevalgono dunque digressioni filosofiche e riflessive a colpi di enunciati da trecento parole l’uno. Diversamente da Cecità, ad esempio, in cui si bilancia il concreto con l’astratto nelle giuste dosi, lo stile di Rorschach, che pure si ispira dichiaratamente alla penna dell’autore portoghese, commette l’errore di sopravvalutare la narrazione astratta identificandola come superiore a quella concreta dei prodotti commerciali a uso e consumo, e qui cito pari pari dal libro, “della massa di cerebrolesi che attualmente ci sommerge”. Gli occhi guizzano febbrili da margine a margine in cerca di una descrizione, di un paio di virgolette caporali o di un punto a capo su cui rifornirsi di ossigeno (si garantisce lo sviluppo di un paio di polmoni da sommozzatore). Si legge tanto per sapere poco. È uno stile che pende troppo verso la pigrizia stilistica del raccontato.

Un semplice cruccio di un padre di famiglia a beneficio di un tenebroso figlio adolescente si traduce allora nell’occasione per rivangare il brodo primordiale in un monologo interiore nel quale il genitore si interroga – si tormenta – sui propri metodi educativi:

Subito andò agli episodi degli ultimi giorni, alle piccole sensazioni che lo angosciavano da almeno un anno. Anche lui, come sua moglie, aveva percepito nell’aria dei segni, dei sintomi di un cambiamento nel carattere dei suoi figli. Certo, non erano pensieri esprimibili per sintesi, anzi, si chiedeva spesso se non fossero solo proiezioni delle sue angosce di scrittore fallito. Poteva essere che si sbagliasse? Aveva sempre creduto di conoscere bene la sua famiglia: ma, ultimamente, non ne era più tanto convinto. Non riusciva a capire come avesse potuto sfuggirgli tutto di mano in quella maniera. Sembrava che da un giorno all’altro tutto fosse cambiato all’improvviso. O era lui che non aveva seguito abbastanza lo sviluppo degli eventi? Era veramente troppo preso dal suo mondo di gnomi e folletti? Viveva in un regno fantastico trascurando le persone a lui più care? Scacciò il pensiero in maniera netta, no, era un’idea che non voleva accettare, la rigettava con forza nel profondo della caverna dentro di lui, meglio pensare al presente, a come risolvere i problemi con i suoi figli. Eppure il senso di colpa tornava a colpirlo con una forza imprevedibile, niente riusciva a tranquillizzarlo veramente. E meno che mai il cercare di approfondire il dialogo con loro. Ci aveva provato, certo. In tutte le maniere possibili. Tuttavia niente aveva potuto evitare che i suoi figli si allontanassero lentamente da lui. Quando era cominciato? Con Jean tutto era ancora agli inizi. Sentiva molto il peso della situazione difficile tra il fratello e il padre. I litigi frequenti lasciavano sicuramente un segno profondo anche in lui. Forse però c’era ancora tempo di rimediare. Con Michel, però, la cosa era andata già oltre. Niente di trascendentale, certo. Tutti gli adolescenti passavano quella fase. Lui compreso. Tuttavia nel suo figlio maggiore c’era qualcosa di diverso. Lui lo percepiva. Così come sua moglie. Sì, Anne aveva ragione. C’era una vena segreta e profonda dentro Michel, un pozzo a cui lui attingeva segretamente, una miniera profonda e oscura in cui lui si rifugiava incoscientemente, sempre più spesso ultimamente, estraniandosi dal mondo. Si ripeteva sempre che era normale a quell’età, che suo figlio era solo un tantino introverso, tutto qua. E più se lo diceva, meno ci credeva. Non riusciva a comporre il tutto in pensieri coerenti.

E questo è solo il primo paragrafo di una lunga serie di stream of consciousness a cui urge, a mio parere, un “servizio di potatura del superfluo”. Ne consiglio comunque la lettura a chi si entusiasma coi barocchismi e con le citazioni di grandi classici della letteratura. Se ne trae più di una lezione di stile.

 

Per concludere

Buono il come, migliorabile il cosa.

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