[Recensione] “Salvare le ossa” di Jesmyn Ward

Copertina di Salvare le ossa.

Nel 2012 usciva Re della terra selvaggia. Reclamizzato come film fantasy sui palinsesti cinematografici italiani, è stato trattenuto fuori dal cono di luce dei riflettori. Ha dunque fatto una comparsata sulle reti televisive, qualche anno più tardi, riscuotendo un modesto indice di ascolto. Se rientrate nella percentuale che finora se lo è fatto scappare, l’ovvio consiglio è di colmare la lacuna. In caso contrario, lascio a voi il piacere di scovare le differenze e i parallelismi con Salvare le ossa di Jesmyn Ward.

Titolo: Salvare le ossa. Trilogia di Bois Sauvage. Vol. 1
Autore: Jesmyn Ward
Traduttore: Monica Pareschi
Genere: drammatico/young adult
Editore: NN Editore
Pagine: 316

Un uragano minaccia la città di Bois Sauvage, Mississippi. Esch ha quattordici anni ed è incinta; suo fratello Skeetah ruba avanzi di cibo per i cuccioli di pitbull che stanno morendo nella polvere, mentre Randall e Junior cercano di farsi valere in una famiglia che sembra non conoscere la solidarietà. Nei dodici giorni che precedono l’arrivo devastante dell’uragano Katrina, i quattro fratelli orfani di madre si sacrificano l’uno per l’altro come possono. Uno sguardo potente e straziante sulla povertà rurale, Salvare le ossa è un romanzo rivelatore e reale, innervato di poesia.


Salvare le ossa: la recensione

Salvare le ossa, libro primo della trilogia di Bois Sauvage, è un ritratto sulla violenza dipinto a tonalità d’amore.

La prima pennellata di Jesmyn Ward è bianca come il pelo porcellana di China, una femmina di pitbull in procinto di partorire sul pavimento sporco di una baracca. Sotto allo sguardo attento del suo padrone, il sedicenne Skeetah, e a quello del punto di vista narrante Esch, China sforna una cucciolata di futuri guerrieri. Il suo amore verso i piccoli sarà quello inaridito e incostante di chi ha disimparato l’istintivo affetto materno sostituendolo con l’impulso omicida dei cani da combattimento.

L’amore tra Skeetah e China, invece, fluisce costante, puro e spiritualmente illimitato. Skeetah sta al suo cane come Laira Belacqua sta al suo daimon: due anime distinte ma interdipendenti, testa e coda della stessa moneta. Impegnati a disconoscere il resto del mondo al di là del perimetro dei reciproci abbracci, non sanno di essere oggetto di malinconica invidia.

Alla sorella Esch, che ama, e al coetaneo Manny che non corrisponde, si sovrappone infatti la tragedia greca di Medea e degli Argonauti. Vestendo i panni sporchi di un moderno Giasone, Manny volta le spalle e declina qualsiasi paternità verso il figlio che Esch scopre di portare dietro agli spigoli smussati di un corpo dalla femminilità acerba. Esch è stata costretta a crescere come un virgulto solitario, esile ma corazzato di spine, in un mondo degradato che sembra tagliato apposta per l’irruenza maschile. Orfana di madre, il cui amore incorporeo è una presenza costante che aleggia nella sua mente in forma di buoni consigli e nostalgici ricordi d’infanzia, Esch dovrà scendere a patti con la nuova rotondità del suo ventre. Per questo identificherà in China, anche lei madre inesperta, una guida da cui imparare il significato di maternità.


Le altre tonalità d’amore

Randall, coi suoi diciassette anni, è il maggiore dei fratelli. In uno scenario in cui i più scialacquano i loro giorni in una mera lotta per la sopravvivenza, lui palleggia per il campo da basket e punta in alto, nel gioco come nella vita vera: ogni lancio che attraversa il canestro segna un passo in più verso il college e la fondamentale borsa di studio per frequentarlo. Figlio non modello, ma l’unico addomesticabile e vagamente addomesticato in un branco di belve con le orecchie retratte.

Amore infantile e a tratti asfissiante è quello che Junior, sette anni appena, nutre per i suoi fratelli più grandi. Se non è andato a infilarsi nei cunicoli fangosi sotto alle fondamenta di casa, si può star certi di trovarlo nel raggio d’azione delle braccia di Randall. D’altronde è lui la sua figura di riferimento, il faro all’orizzonte del mare aperto, il destinatario di imprinting. Il surrogato dell’amore paterno di cui lui non ha mai beneficiato e di cui i suoi fratelli sono stati privati. L’amore di madre ha raggiunto il picco alla sua nascita per poi spegnersi nel sacrificio per eccellenza: la donna che baratta la propria vita per quella del figlio.

Perfino dopo queste premesse, Ward è ben lungi dall’aver esaurito gli spazi vuoti sulla tela. E sulla tavolozza rimane ancora una varietà d’amore da miscelare, l’ultima: l’amore di un padre che affoga la vedovanza nell’oblio della birra. Il suo cuore, come quello indurito di China, è mal funzionante. Atrofizzato dal dolore e dalla solitudine della perdita, difetta di energie per interessarsi davvero dei figli, eppure non ha perso il suo sesto senso.

Come la leonessa che fiuta il bracconiere ancora prima di vederne il fucile, il padre di Esch annusa per primo il pericolo nell’aria del Mississippi. Sprangate le finestre, ordina, fate incetta di acqua potabile e di carne in scatola. Consapevole di incorrere nel rischio di guadagnarsi l’appellativo di svitato di Bois Sauvage, attirerà a sé tutta la famiglia, o tenterà di farlo, in una disperata missione di rinforzo strutturale della casa. Perché?, chiedono i figli alzando il sopracciglio. Perché è in arrivo un uragano. Un’alzata di spalle, giovani occhi che ruotano spazientiti nelle orbite. Ne abbiamo avuti tanti, che vuoi che sia?

Di lì a un grappolo di giorni, quell’uragano sarà battezzato Katrina. E siamo a Bois Sauvage, in Mississippi, dove le calamità naturali non si consumano dietro lo schermo del televisore a migliaia di chilometri di distanza, ma infuriano appena al di là del vetro traballante di una finestra…


La distruzione ha nome di donna

China è l’incubo dei cani da arena. Sfila fra di loro con la corona in testa, al pari di Madre Natura che, con un ritmo fortuito e senza favoritismi, con un colpo di scettro ricorda a tutti chi comanda davvero. In quanto a Esch… dirò solo che avrà la sua occasione per sfoderare le unghie e non mancherà di sfruttarla a dovere. Nella comunità maschiocentrica di Bois Sauvage, insomma, la femminilità è distruzione.

Non a caso, Esch si serve di China e della mitica Medea, figure femminili passionali, violente e vendicative, come chiavi di interpretazione della squallida realtà che la circonda. Le ammira e al tempo stesso le teme, perché pensa inconsciamente di condividerne il destino. Come Hushpuppy, Esch interiorizza il mondo esterno in forma di immagini e simbolismi e si sente parte integrante di un universo che pulsa, vive e respira dal più infimo sasso al più maestoso elefante. C’è dunque un senso di predestinazione che vela la realtà come restituita dai suoi occhi di adolescente.

Ogni metafora che Ward verga sulla pagina è unidirezionale, tesa a profetizzare l’arrivo dell’entità distruttrice per antonomasia: l’aria è densa, stagnante e impregnata d’acqua, tanto che alla protagonista quanto al lettore pare quasi di respirare attraverso una garza. Il ritmo della vita nella Fossa, dove sorge la casa della famiglia di Esch, viene scandito, più che dal ticchettio degli orologi, da gocce di sudore che cadono a punteggiare la terra rossa sotto ai piedi. Delle comodità della vita dell’entroterra, poi, a Bois Sauvage non riesce a spingersi nemmeno l’eco, figurarsi uno smartphone con tutti i circuiti intatti. Non si chiama estate quella che non viene sconquassata da almeno un paio di tempeste tropicali. Flora e fauna devono imparare ad adattarsi e risollevarsi, pena l’estinzione, perché non c’è cementificazione che tenga alle forze primordiali della Terra.

In una comunità già provata dall’asocialità dei suoi componenti, la minaccia di Katrina, ancora giovane, ancora un afflato di vento all’orizzonte, viene sottovalutata e archiviata come l’ennesima seccatura che va a impilarsi su una risma di altre noie quotidiane. A lei e alla sua furia distruttrice, infatti, saranno dedicati solo due dei dodici capitoli del romanzo. Ma il destino, evocato da Esch attraverso i continui rimandi al mito e all’idea di una femminilità distruttrice, è deciso ad avverarsi. Profetiche, allora, si rivelano le parole del padre:

«L’uragano… finalmente ha un nome. È una donna, sono i peggiori. Katrina».

La dicotomia uomo/natura, o uomo/donna, è così capovolta: a Bois Sauvage è la seconda a dominare sul primo, e non viceversa.

La natura che delizia con la luce del sole e gli alberi da frutto è insomma la stessa che tira per strappare le mani aggrappate l’un l’altre. E, paradossalmente, finisce suo malgrado per agire come una forza unificatrice: le braccia incrociate e i musi lunghi si rilassano e si tendono a intercettare chi affiora dall’acqua a supplicare un aiuto. L’isolamento selettivo di ciascuno finisce dove si richiede la cooperazione straordinaria di tutti. Perché ci si possa appuntare sul petto la mostrina dei sopravvissuti; perché si possa volgere lo sguardo a un cielo che, nero da giorni, finalmente si schiarisce. O per salvare le ossa, almeno quelle.


Per concludere

La tragedia moderna e ricca di simbolismi di Salvare le ossa è la rara nuvola di pioggia in un deserto editoriale di trame riciclate e personaggi preconfezionati. Vai così, Jesmyn, che la tua penna sia un modello da cui trarre lezioni di stile.

Aggiornamento: è stato tradotto il sequel (che non ho letto), dal titolo Canta, spirito, canta. Qui la scheda del libro su Goodreads.

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La lepisma libraia

[Recensione] “Quattro. Il risveglio” di Luca Farru

Copertina di Quattro. Il risveglio.

Preambolo necessario: ringrazio di cuore Luca Farru per avermi inviato una copia digitale di questo libro in cambio di una recensione onesta. Chi volesse fare richiesta di recensione può consultare questa pagina.

Buon inizio di settimana, cari lettori! State assorbendo il rientro dalle ferie o la malinconia da post-vacanza, come dicono oltreoceano? La lepisma ha trascorso una settimana a rinfrescarsi i polmoni e a mirar le stelle in quel dell’Appennino settentrionale e ora si ripresenta in gran forma – psicologicamente e letteralmente parlando, stante le numerose abbuffate d’ogni sorta – con una nuova recensione. Diamo un’occhiata ravvicinata a Quattro. Il risveglio, il debutto di Luca Farru nel filone della narrativa urban fantasy.

 

Quattro. Il risveglio.

Titolo: Quattro. Il risveglio
Autore: Luca Farru
Genere: urban fantasy
Editore: Youcanprint (autopubblicato)
Pagine: 334

Sinossi

Per cinquecento anni, il mondo sovrannaturale e quello degli esseri umani hanno vissuto in armonia. Il regno dei guardiani ha garantito stabilità e giustizia a tutte le sue fazioni, ma l’equilibrio sembra d’un tratto interrompersi e le paure legate al passato riemergono impetuose. Le forze oscure sono riuscite a scalfire il più potente incantesimo della storia del mondo magico, ed hanno come obiettivo ultimo quello di risvegliare il loro padrone, Serafyn, per riprendere il suo piano diabolico da dove è stato interrotto.

Rose, Sybil, Matt e Cody sono quattro sconosciuti apparentemente ordinari, vivono le loro esistenze spensierati in zone diverse del mondo e non hanno la minima idea di cosa sta per travolgerli. Scopriranno di essere legati indissolubilmente l’uno all’altra in modo inquietante, e di essere gli ingranaggi fondamentali di un terribile destino comune dove l’oscurità è protagonista. In questa intensa avventura, non potranno fidarsi di nessuno, a volte nemmeno di loro stessi, e lotteranno insieme per evitare che il mondo intero finisca nelle mani dei demoni. Il Risveglio racconta della prima parte del loro viaggio; li conosceremo, ci affezioneremo, incontreremo un sacco di altri personaggi interessanti ed arriveremo in men che non si dica all’ultima pagina, con un colpo di scena che ci lascerà senza parole. Cosa ne sarà del loro futuro?

Voto: 1/2

 

Quattro: la recensione

Cosa fareste se dall’oggi al domani vi ritrovaste un marchio sconosciuto tatuato sul corpo? Le alternative sono due: o ignorate o indagate. Dai loro rispettivi alloggi a Singapore, Milano, New York e Vancouver, i nostri quattro ragazzi Sybil, Rose, Matt e Cody vorrebbero che si concedesse loro il beneficio del dubbio, così come viene permesso a noi normali esseri umani, ma la verità è che l’istinto di sopravvivenza li ha già costretti a svegliarsi dai sogni a occhi aperti dei periodi ipotetici per prendere una decisione che condiziona per sempre le loro vite.

Quando le forze demoniache minacciano ancora una volta di prendere il sopravvento, infatti, in palio c’è il destino del mondo tutto e loro sono i prescelti per salvarlo… o condurlo a definitiva distruzione. Come i ghepardi acquattati fra le sterpaglie che aspettano solo che la gazzella ignara abbassi il collo per ruminare, i demoni covano nell’ombra in attesa dell’occasione propizia per attaccare. Se non vogliono cominciare a brucare l’erba dalla parte delle radici, i nostri ragazzi dovranno scattare con più prontezza dei loro inseguitori.

Ma perché è stata bandita questa caccia all’uomo?

 

La forzata immobilità di Serafyn deve finire

Con l’anima spezzata in quattro da un incantesimo che lo ha costretto in stato di quiescenza, Serafyn attende il momento della propria rinascita. Da secoli le forze demoniache a lui sottoposte hanno cercato una breccia nel sortilegio, e ora che l’hanno trovata si stanno ricompattando in vista di liberare il loro padrone. La chiave della cella? Quattro pezzi d’anima in quattro giovani ospiti inconsapevoli da rintracciare, braccare, sacrificare. Quattro personaggi che devono imparare a convivere con il mondo soprannaturale al quale ignorano di appartenere

 

“Dagli al personaggio!”

… disse Lepisma e brindò alla salute di Luca Farru. Che sforni dieci, cento, mille altri romanzi in cui ai protagonisti si riservino i peggiori scenari che fantasia possa concepire.

Sono seria.

La penna di Farru è spietata. Non tratta i propri figli con guanti di velluto, come se fossero delicati soprammobili in resina da spolverare con un pennello a setole morbide (ne so qualcosa), ma li salva dall’olio bollente della padella per buttarli nel nucleo incandescente della fucina di Nidavellir.

Non c’è, insomma, alcun deus ex machina che assicuri loro un lieto fine. Sybil, Rose, Matt e Cody devono fare fronte comune e cavarsela da soli, perché dall’autore non ricevono, com’è giusto che sia, mani salvifiche che facciano il lavoro sporco al loro posto. Dovranno sudare e soprattutto correre, correre come la lepre che affida la propria sopravvivenza ai muscoli delle sue zampe.

E scopriranno, malgrado il loro aspetto da ordinari esseri umani, di nascondere ben più di un aculeo sotto la pelle fragile…

 

Cattivi matricolati

Per ogni personaggio bastonato ci dev’essere, di riflesso, un personaggio che lo bastona (a meno che detto personaggio non soffra di autolesionismo, ma quella è un’altra storia).

I demoni di Quattro. Il risveglio non scherzano, né si sottraggono alle manifestazioni di violenza più abiette. Quello che promettono, mantengono fino in fondo.

La violenza, d’altronde, definisce i meccanismi di potere del loro stesso mondo: mentre la regina Melania governa i guardiani nel rispetto di tutte le creature, la strega Gaia, in via temporanea assurta al comando in seguito alla discesa nell’oblio di Serafyn, tiene unite a sé le folle del sottomondo demoniaco imponendosi con il terrore: chi anche solo commenta le sue strategie è un demone morto.

E va benissimo così! Fatti, non parole!

Senza esagerare, però…

 

Stile adrenalinico

Lo stile di Quattro. Il risveglio è di quelli da tenere il fiato sospeso senza soluzione di continuità. In pratica, è lo stile che, entro un certo limite, più si confà alla narrativa di genere fantasy.

Trovo, però, che un eccesso di azione a discapito di passaggi più riflessivi sia controproducente. Un’azione caratterizza i personaggi tanto quanto una riflessione. Non ci sono, in tutto il libro, momenti in cui i personaggi possano davvero tirare un sospiro di sollievo e concedersi un minuto per sedersi e stare a pensare. Il gran finale risulta indebolito perché il libro è un unico, continuo climax. Avete presente il detto “la calma prima della tempesta”? È il grado di contrasto fra il prima e il dopo, il cambio di rotta repentino, che determina l’impatto emotivo di un’azione: un fulmine a ciel sereno fa trasalire molto più di quanto non faccia un lungo temporale. Perfino dopo le burrasche più devastanti e le onde più anomale segue sempre una fase di bonaccia, perché il cielo possa ricaricarsi di nuova elettricità… e via che riparte il cerchio.

Anche i cuori dei nostri eroi galoppano come cavalli imbizzarriti.

 

Amori che decollano in verticale

Come lo Space Shuttle.

La cinica che è in me tende a storcere un po’ la bocca quando si racconta di rapporti amorosi che divampano come una pozzanghera di benzina innaffiata da un getto d’alcool. Non sto negando l’esistenza di quelle cotte istantanee battezzate con un significativo “colpo di fulmine”, ma ritengo che un faccino piacente o una simpatia a pelle non siano ragioni sufficienti a instaurare rapporti profondi e potenzialmente duraturi come quelli presentati in Quattro. Il risveglio, per i quali basta un contatto visivo a scatenare la scintilla.

Ancora una volta, i personaggi – le loro interazioni – soffrono di una cifra stilistica che sacrifica qualsiasi pausa introspettiva per dare spazio a scene d’azione dove è bandito ogni pensiero. Sono, in definitiva, poco caratterizzati.

Ritengo, in ogni caso, che uno stile immediato e spartano sia sempre e comunque preferibile a un linguaggio prolisso e artificiale più orientato a infiocchettare che a raccontare.

 

Per concludere

Un promettente esordio dallo stile asciutto e conciso, con qualche magagna che non gli leva la piena sufficienza e con cattivi che sanno fare il loro mestiere. Un occhio di riguardo al target di lettura, perché non scenda al di sotto dell’età young adult: descrive atti brutali che potrebbero turbare lettori più giovani.

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[Recensione] “The Testament of Loki” di Joanne Harris

The Testament of Loki (pubblicato in originale questo 17 maggio, titolo in italiano non ancora disponibile) prende il testimone de Il canto del ribelle, di cui trovate qui una recensione, e chiude la distanza che lo separa dal sequel Le parole segrete, pubblicato qualche anno fa. È, insomma, un sequel al prequel. E l’ho aspettato per mesi. Valsa è l’attesa? Leggete oltre per scoprirlo!

Titolo (inglese originale): The Testament of Loki
Autore: Joanne Harris
Genere: fantasy/young adult
Editore: Gollancz
Pagine: 320

Il Ragnarök è stato la Fine dei Mondi.
Asgard è caduta secoli or sono e gli antichi dèi sono stati sconfitti. Alcuni sono morti, altri sono stati affidati all’eterno tormento nel mondo dell’oltretomba. Fra di loro c’è Loki, l’ingannatore per antonomasia. Un dio che ha tradito ogni alleato e che ha comunque perso tutto, che è stato dimenticato con il passare del tempo. Nel mentre, il mondo degli umani ha volto l’attenzione verso altre fedi, nuovi idoli e nuove divinità…
Ora, però, la razza umana ha ripreso a sognare gli dèi norreni. Il fiume Sogno è a un tiro di schioppo dalla loro cupa prigione e Loki è il primo a fuggire verso questa nuova realtà.
Il primo, ma non l’unico. Altre e più oscure figure sono scappate insieme a lui, figure che mirano a distruggere tutto quello che lui desidera. Se vorrà reclamare ciò che è andato perduto, Loki avrà bisogno di alleati, di un piano e di un numero consistente di trucchetti…


The Testament of Loki: la recensione

Il Ragnarök ha raso al suolo quanto costruito dagli dèi in secoli di influenza. Nel purgatorio senza tempo dove tutti loro sono sprofondati, una bolla di non-esistenza sulla falsariga del limbo di Inception, Loki giace ancora una volta in catene insieme a un serpente – suo figlio Jormungandr, tanto per cambiare – e non può dire di averci fatto il callo. Così, nell’oscurità totale, trascorre il tempo – saranno giorni, mesi, secoli? – a sognare una luce in fondo al tunnel da cui ogni tanto si affacciano guizzi dei mondi esterni. Gli dèi norreni sono sopravvissuti, infatti, se non in carne e ossa, in concetti riportati in videogiochi e saggi letterari: La gente pensa, dunque gli dèi sono.

Quando Loki infine la intravede, questa luce più stabile delle altre, e la insegue, nulla gli dà da pensare che l’altro capo del varco possa risputarlo nello scenario renderizzato di un videogioco (Asgard™) e nella mente di una diciassettenne inglese dei giorni nostri


Violazione di domicilio biologico

Il quesito primo, nel venire a conoscenza, qualche mese fa, di questa nuova pubblicazione della Harris, è stato: che altro c’è da raccontare? Il canto del ribelle (che per me, disconoscendo la traduzione ufficiale, è e rimarrà sempre Il vangelo di Loki) ha calato il sipario sul Ragnarok, scavando nella miniera della mitologia norrena ed esaurendo la sua vena di materiale.

In The Testament of Loki, infatti, si abbandonano gli scenari eterei della città del cielo per scendere alla mondanità dell’adolescenza young-adult. Jumps, la nostra co-protagonista nonché ospite coatta della divinità summenzionata, conduce la tipica vita di una diciassettenne: casa, liceo, qualche attrito parentale e autostima sotto i piedi.

Loki si autoinvita nella sua coscienza alla vigilia di un esame di letteratura inglese e non pone tempo in mezzo per rivoltare la vita della ragazza come un calzino. Un completo restauro estetico qui, un prelievo di sangue alla carta di credito là… D’altronde, è il caos fatto persona: dove passa lui, l’uragano Katrina piega il ginocchio e alza bandiera bianca.


Il Libro delle Facce e l’inspiegabile ossessione per le decalcomanie

“Ah, questo è un cellulare. Che sono quelle finestrelle colorate? Uh, si chiamano… icone? E quello? Il libro delle Facce. Ehi, ho fame. Tu hai fame, cioè. Perché non andiamo a mangiare? Frigorifero. Oh, ma i pinguini sul tuo pigiama hanno un significato particolare? Mi continua a balenare in mente questa parola, frigorifero. Cos’è un frigorifero, me lo spieghi, Jumps? E perché nel tuo (nostro) catalogo mentale c’è questo teschio con ossa incrociate su ogni cosa etichettata come cibo?”

Diciamocelo, non è la più gradita delle presenze.

Secoli di sensazioni incorporee e alquanto sgradevoli lo hanno affamato al di là di qualsiasi possibilità di saziarsi. Già ne Il canto del ribelle abbiamo letto il suo punto di vista come quello di una persona affezionata ai piaceri della carne e dei sensi, e ora che il corpo di Jumps lo affaccia all’esplorazione di un nuovo ed entusiasmante mondo, il desidero di fare tutto e subito lo investe come l’impatto di una colata di cemento. Ma Jumps, la sua giovane ospite, non è esente da una rosa di problematiche personali e questo nuovo peso sul groppone rischia di spezzarle le caviglie…


Qua la zampa, Thor!

Loki pensa, dunque, di poter fare quello che gli pare. È sicuro di sedere al vagone di testa, di essere stato il primo, il più furbo, a rompere le catene del limbo. Ma non è così: da tempo non quantificabile, infatti, Odino ha già avuto modo di insediarsi fra le sinapsi di Evan, ragazzo coetaneo a Jumps a cui manca un occhio e forza nelle gambe (sembra proprio che Odino sia afflitto da una maledizione che gli impedisce di apprezzare il senso della vista in tre dimensioni). Anche Thor trova una sistemazione degna della sua caratura nella testa di un candido cagnolino. E a scuola, codazzi di adolescenti sbavanti seguono la scia di feromoni che Freya, la dea dell’amore di tempi andati, si diffonde alle spalle nel corpo di una delle ragazze più attraenti dell’istituto…

Insomma, vuole il caso che il nostro divino ingannatore sia atterrato in una cittadina ad alta densità di divinità norrene.

Raccolta di libri sulla mitologia norrena.
Alla lepisma piacciono i miti norreni. Si nota?

Un gatto che non è né morto né vivo

Quando Loki pensa di potersi dare alla pazza gioia assumendo (reclamando con la forza) il controllo del corpo di Jumps, Odino, incarnatosi in Evan, gli impartisce una lezioncina di fisica quantistica: occhio, dice, che noi in questo mondo siamo come il gatto di Schrödinger. Né morti né vivi, solo coinquilini abusivi di appartamenti che prima o poi saremo costretti a restituire per intero ai legittimi proprietari.

Ecco, allora, che Odino illustra il suo piano, non senza qualche opportuna omissione: insieme alla caduta del loro mondo si sono sgretolate anche le rune del potere di cui gli dèi erano detentori, ma una nuova profezia annuncia l’avvento di nuove rune. Queste nuove rune sono la chiave per la risurrezione completa degli dèi e della potenza di Asgard.

In sostanza: Posa quel gin tonic, Loki, ché mi serve il tuo aiuto. Le rune, però, sono artefatti magici potentissimi. Stuzzicano l’ambizione di molti, di Odino in primis. Di un’entità a lungo dimenticata, in secundis. E Loki è il sempiterno Caotico Neutrale che non si schiera da nessuna parte…


Loki, il narratore per eccellenza

The Testament of Loki ripropone gli stessi difetti de Il canto del ribelle: Joanne Harris preferisce la narrazione passiva, nella quale Loki/Jumps riporta i fatti in un tempo successivo al loro svolgimento e svela la rete di piani e macchinazioni quando siamo ormai in zona Cesarini.

Nelle giuste dosi, l’attesa della rivelazione è un espediente letterario da pollice in su se retto da uno stile coinvolgente, perché, come nei migliori romanzi gialli, alimenta la nostra curiosità e ci invoglia a voltare pagina. Se invece si tratta di tenere il lettore sulle spine, centellinando le spiegazioni da dargli al contagocce, per poi distribuirle con la parsimonia di Ebenezer Scrooge mentre noi stiamo qui sotto trepidanti, manco fossimo fan di Justin Bieber, col collo in aria e la bocca a pesce morto, che attendono lo sputo di infodump dal balcone… ecco, così diventa una fonte di frustrazione, perché ci sentiamo un po’ l’ultima ruota del carro.


Raccontare prima, spiegare dopo

Lo stile della Harris, insomma, si rivolge al lettore solo a cose compiute e gli parla per riassunti, al punto che i personaggi di sfondo sono poco più che sagome dai contorni sfocati. Disordini psicologici da far surriscaldare il cervello a fior fiori di specialisti si curano con la retorica da banco di Lucy van Pelt. Gli interessi amorosi sono resi tutti al raccontato, descritti come improvvisi colpi di fulmine che fanno deragliare il nostro protagonista fuori dai binari di caratterizzazione su cui siamo abituati vederlo scorrere. Sarà l’influenza dell’umanità di Jumps, sarà la condizione da mortale… questo Loki è disinibito e impulsivo, preda delle emozioni come non lo abbiamo mai visto, ed è un’emotività un pochino Out Of Character.

In ogni caso, la voce di Loki può esser salita di qualche ottava al di fuori, ma alle orecchie di noi lettori si ripresenta irriverente e grondante di ironia. Ho trovato appropriate le sue reazioni – affatto scioccate – nel prendere coscienza di stare abitando un corpo da doppio cromosoma Y, ed esilaranti le sue gaffe che paiono strizzare l’occhio all’ingenuità del Thor di Chris Hemsworth alle prese col mondo moderno. Ma questo è il Loki della mitologia norrena come Snorri lo ha tramandato e ci vuole molto più di un frigorifero per disorientarlo…

L’idea di partenza, in sintesi, è GENIALE ma sprecata. E non c’è nulla di più insoddisfacente della genialità sprecata!


Per concludere

È come una doppia porzione di gelato alla vaniglia: divori la prima metà come se non avessi mai mangiato, l’altra metà devi sforzarti di ingollarla meccanicamente perché non capisci più che sapore abbia e speri che finisca presto. Mezza stellina in più, per un totale di quattro, se l’ultima pagina non avesse messo il punto su un finale aperto dal retrogusto, spiace dirlo, di operazione commerciale.

Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.
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Mezza stellina.

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[Recensione] “Noi siamo grandi come la vita” di Ava Dellaira

Copertina di Noi siamo grandi come la vita.

Noi siamo grandi come la vita è l’undicesimo libro letto e il primo libro detestato del mio 2018. Dopo il lietissimo avvento di romanzi quali I guerrieri di Wyld e Mezzanotte alla libreria delle grandi idee, mi chiedevo quando questo trend di lettura tutto in positivo avrebbe cominciato ad accusare il colpo di qualche dispiacere letterario. Era questione di tempo.

Titolo: Noi siamo grandi come la vita
Autore: Ava Dellaira
Genere: young adult
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine: 320

Tutto inizia con un compito assegnato nei primi giorni di scuola: “Scrivi una lettera a una persona che non c’è più”. E così Laurel scrive a Kurt Cobain, che May, la sua sorella maggiore, amava tantissimo. E che se n’è andato troppo presto, proprio come May. Per Laurel, la sorella era un mito: bella, perfetta, inarrivabile. Era il sole intorno a cui ruotava tutto, specie da quando i genitori si erano separati. Perderla è stato indescrivibile, qualcosa di cui Laurel non vuole parlare. Sulla carta, invece, Laurel si lascia finalmente andare. E dopo quella prima lettera, che non consegnerà all’insegnante, continua a scriverne altre, indirizzandole a Amy Winehouse, Heath Ledger, Janis Joplin e altri idoli della sorella scomparsa. Soltanto a loro riesce a confidare cosa vuol dire avere quindici anni e sentire di avere perso una parte di sé, senza nemmeno potersi aggrappare alla famiglia perché è andata in mille pezzi. Soltanto a loro può confessare la paura e la voglia di avventurarsi in quel mondo nuovo che è la scuola, la magia di incontrare amiche che ti fanno sentire normale e speciale al tempo stesso. Finché, come un viaggio dentro di sé, quelle lettere porteranno Laurel al cuore di una verità che non ha mai avuto il coraggio di affrontare. Qualcosa che riguarda lei e May. Qualcosa che va detto a voce alta: solo così Laurel potrà superare quello che è stato, imparare ad amarsi e trovare il coraggio di andare avanti.


Noi siamo grandi come la vita: la recensione

Regola numero uno del Lieto Lettore, che per disgrazia mi capita spesso di infrangere: mai crearsi delle aspettative. Più scaliamo il versante delle nostre speranze, più esteso sarà il florilegio di ematomi che esibirà il nostro corpo quando il terremoto della delusione scuoterà la roccia sotto ai nostri piedi e ruzzoleremo verso valle come biglie impazzite.

Conquistato il cocuzzolo della montagna di Noi siamo grandi come la vita grazie a una copertina trapunta di stelle e una sinossi più che promettente, l’idea era di amare anche il romanzo in sé: fare l’aerostop fino al firmamento, nidificare sulla G di quel Grandi e tenere banco con la protagonista, leggendo in sua compagnia. “Ciao, Laurel.” Avrei salutato così la ragazza appena sotto di me, seduta comoda sulla V. “Bellissimo libro, complimenti, in linea con le mie aspettative.”

Noi siamo grandi come la vita è come uno di quei regali fregatura tutta apparenza e niente sostanza. YouTube pullula di video testimoni delle conseguenze di questo tipo di scherzi natalizi a opera di parenti serpenti: la sceneggiatura di queste tragicommedie caserecce prevede che i frugoletti scuotano per aria la scatola di una Xbox, per poi strillare acuti da soprano nel rendersi conto, all’atto dell’apertura del pacco, di non aver riscosso da Santa Claus che un paio di calzini puzzolenti.

Nessun aereo verso la stratosfera, dunque, ma solo il sole cocente di un’ancora più cocente delusione.


La protagonista

Laurel sta ancora processando la morte della sorella maggiore quando si ritrova alle prese con la nuova realtà della scuola superiore. Siamo di fronte a una combinazione di due potenziali fonti di conflitto: un lutto non elaborato e tutta quella ridda di problematiche legate all’adolescenza. Le premesse sono dunque ottime, lo stesso non posso dire delle modalità di esecuzione.

Laurel è un pessimo personaggio. È così piatta che posta di profilo rischia di scomparire sullo sfondo. Il suo decennio di vita cosciente l’ha portata a formulare una sola, inossidabile certezza: sua sorella May è una persona da emulare fino alle doppie punte dei capelli. Quando viene a mancare in seguito a un incidente la cui dinamica viene rivelata solo in via di conclusione del romanzo, Laurel sembra affogare il dolore e trovare un nuovo senso alla vita spogliandosi della propria personalità per indossare quella della sorella, senza però capire di dare uno spettacolo affine a quello allestito da un mammut che tenti di infilarsi in un pigiamino 0-2 anni.

È così che Laurel si prefigge un nuovo, entusiasmante obiettivo: riscuotere gli apprezzamenti del personale studentesco con cui condividerà le lezioni, aka essere apprezzata e ganza e cool come la sorella. E per farlo, ha intenzione di lasciarsi stringere una medaglietta attorno al collo e farsi tirare al guinzaglio come l’obbediente cagnolino che è, tutta scodinzolante e sbavante all’idea di compiacere i compagni di scuola che la trascinano – ma trascinare implica forse troppo attrito – in una serie di meschinità ad alto potenziale diseducativo per i giovani lettori cui il libro è principalmente rivolto.

La mansueta e servizievole Laurel raggiunge e supera senza batter ciglio ogni tappa della demenza adolescenziale, di quella di cui abbondano i temini a carattere deterrente delle scuole superiori: cade nel vizio del tabagismo, corteggia il coma etilico, ruba, snocciola bugie ai genitori, scandalizza gli ignari avventori di un centro commerciale con una fugace esposizione delle proprie tette, se la svigna nottetempo calandosi come un ladro dalla finestra… e poi, tra una sceneggiata da bagordi e l’altra, le riesce pure di credere nelle fate.

Al che sale l’impulso di sfondarle un timpano con un doveroso “Svegliati!” e assumersi la responsabilità, per mezzo di qualche sventola ben assestata, che la sua età cerebrale si metta in pari con quella anagrafica. Laurel è stato uno dei personaggi più detestabili di cui abbia mai avuto la sciagura di leggere. È, per dirla tutta, un organismo unicellulare.

L’intento dell’autrice di mostrare quanto Laurel tenesse alla sorella tanto da annullarsi e vivere la vita in funzione di lei si converte nel fumo di una prosa tutta raccontata.


Lo stile

Mah, vien da chiedersi allora… com’è scritto? Risposta: male. È scritto male e sviluppato peggio.

Le lettere che Laurel indirizza a personaggi famosi dell’Oltretomba sono affette da Infodumpismo Selvaggio e Contaminazioni Autoriali. Lasciate che due estratti del testo chiariscano il concetto (perdonate se sono in inglese, ho letto il romanzo in lingua originale):

The air […] smelled a way that makes you feel how the world is right up close, rubbing against you.

Sky reminds me of you a bit, honestly. How he’s a boy, and strong, and the air makes way for him when he walks through it. But also how there is something fragile like moths inside of him, something fluttering. Something trying desperately to crowd toward a light.

Stucchevole, non c’è che dire. Peccato che questi inserti siano frutto di uno sproloquio narcisistico dell’autrice e non, come si suppone, di una ragazza adolescente. In mezzo a un mare di frasi insulse che potrebbero trovare giusta collocazione nel diario di una bambina delle elementari, queste isole pseudo-filosofiche affascinano come pugno nell’occhio.

Sublimi, poi, le derive infodumpose. Le lettere seguono essenzialmente un copione che si può così riassumere: Cara […], biografia, biografia, biografia. Sky è così figo. Ho fatto questo, questo e questo. Tua, Laurel.

Su carta, questo si traduce in farneticazioni del tipo:

Dear Persona Famosa,

I was reading about you tonight, because I wondered what your life was like when you were a kid. You were the center of attention in your family, but after your parents divorced when you were eight, you were orphaned in a way. You were angry. You wrote on your wall: I hate Mom, I hate Dad, Dad hates Mom, Mom hates Dad, it simply makes you want to be sad. You said the pain of their split stayed with you for years. They passed you from one of them to the other. Your dad remarried, and your mom had a boyfriend who was bad to her. By the time you were a teenager, your dad had custody of you, but he passed you off to live with the family of your friend. Then you moved back to live with your mom. When you didn’t graduate high school or get a job, she packed your stuff into boxes and kicked you out.
You were homeless then. You stayed on other people’s couches, or sometimes you slept under a bridge, or in the waiting room of the Grays Harbor Community Hospital—a teenager just becoming a man, sleeping alone in the hospital where you were born eighteen years before.

Cara Laurel,

penso che Persona Famosa possa condurre un’esistenza felice nell’Aldilà anche senza che qualcuno le ricordi i dettagli della sua vita in terra, come non serve che nessuno ricordi a te di che colore sono i tuoi capelli. Ma che ne è del lutto per tua sorella? Delle tue emozioni? Un consiglio spassionato: risparmia a noi lettori paganti il tedio comatoso delle biografie. A quelle già pensa la gratuita Wikipedia.

Baci,
Lepisma


Emozioni non pervenute

Noi siamo grandi come la vita è un libro di promesse disattese perché la quarta di copertina promette emozioni dove non ce ne sono. A questa deficienza emotiva concorre non solo lo stile amorfo in cui si rispecchia la monodimensionalità della protagonista, ma anche un rapporto sentimentale costruito a tavolino.

Come gli occhi di Laurel si posano su di lui, è insta-love. Lui, bipede a base carbonio conosciuto all’anagrafe come Sky,  “Cielo”, reagisce all’interesse di Laurel con lunghi e famelici scambi di sguardi. Siamo sicuri che non si chiamasse Edward, da piccolo? Procedendo con la lettura si scopre che anche il suo personaggio è un pochino carente in fatto di personalità, finché non si finisce per porsi la fatidica domanda: ‘sti due son come l’olio e l’acqua, zero chimica, come han fatto a mettersi insieme?. Esigenze di trama, presumo.

Altra nota di demerito, la superficialità. Tematiche delicate e superficialità vanno spesso a braccetto nel mondo delle fanfiction. Per forza: che grande esperienza potrà mai vantare una scrittrice occasionale che è probabile abbia spento dodici candeline solo la scorsa settimana? Ma da un’autrice pubblicata, da un libro che è passato sotto l’occhio ipercritico di un editor, non mi aspetto altrettanto pressappochismo.


Ricapitolando…

Libro scialbo da qualsiasi prospettiva lo si guardi. Ne consiglierei la lettura? Sì, ai masochisti.

Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.

La lepisma libraia