[Recensione] “Elevation” di Stephen King

Copertina di Elevation.

Edit del 22/03/2019: a scanso dei numerosi (e, a posteriori, forse anche un po’ legittimi) equivoci, specifico che i primi paragrafi di questa recensione alludono a un altro racconto di un altro scrittore (Christopher Paolini, tra l’altro citato in questo stesso articolo). Aggiungo che da lettrice pagante è nel mio pieno diritto criticare un prodotto che reputo incompleto e ancora acerbo per la pubblicazione (se vado al mercato a comprare una sedia, per intenderci, non mi aspetto di comprare una sedia con tre gambe).

La scatola dei bottoni di Gwendy, altra novella di King, non è che la bozza di un potenziale romanzo (e stanti le reazioni al post credo di essere stata anche di manica larga nel giudicarlo). The Outsider inizia molto bene, ma si squalifica da metà libro in avanti (e gli ho comunque dato la sufficienza). Elevation, cifra stilistica a parte, l’ho trovato semplicemente inqualificabile e sì, con questa recensione, all’ennesimo acquisto che si traduce in un pugno di carta senza senso, ho deciso di “andarci giù pesante”. Un altro racconto incompiuto nel giro di una manciata di mesi. Cosa sono i lettori, galline da spennare? Che sia stato Stephen King a scriverlo dovrebbe costituire solo un’aggravante: le capacità non gli mancano, gli difetta solo un po’ la voglia di tornare a scrivere come ai vecchi tempi. Regalo stelline al merito, non alla fama.

Preciso infine, a beneficio di chi si affanna alla ricerca di ogni mio passo falso, che con Inheritance ho un rapporto troppo conflittuale per dichiararmi fan accanita. Ho scritto “i primi tre”, infatti, non “i tre”. Se volete infierire (nessuno ve lo vieta, così come non c’è nessuno che mi vieta di criticare negativamente un libro), almeno fatelo bene e in luoghi dove io possa controbattere. O, come ha già rilevato un utente, si finisce per sparare sulla Croce Rossa. Passo e chiudo e consegno ai posteri la recensione così come pubblicata originariamente.

***

Nel Medioevo, i cavalieri senza spada si guardavano bene dal buttarsi nella mischia. Nell’anno corrente 2019 d.C., invece, va di moda l’improvvisazione. Scribacchini appena iniziati alla professione e scrittori più stagionati si armano di penna e si cimentano nella prova d’abilità scrittoria per eccellenza: il racconto.

E io sospiro e mi chiedo: perché? È una domanda retorica che mi pongo ormai a cadenza seriale.

Titolo: Elevation
Autore: Stephen King
Genere: sci-fi/horror
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine: 194

Un racconto di rara intensità, che è anche un omaggio ai suoi maestri, in cui King si prende la libertà, più che legittima, di dare una possibile risposta alle tristi derive del nostro tempo.

Scott Carey sta percorrendo senza fretta il tratto di strada che lo separa dal suo appuntamento. Si è lasciato alle spalle la casa di Castle Rock, troppo grande e solitaria da quando la moglie se n’è andata, se non fosse per Bill, il gattone pigro che gli tiene compagnia. Non ha fretta, Scott, perché quello che deve raccontare al dottor Bob, amico di una vita, è davvero molto strano e ha paura che il vecchio medico lo prenda per matto. Infatti Scott sta perdendo peso, lo dice la bilancia, ma il suo aspetto non è cambiato di una virgola.

Come se la forza di gravità stesse progressivamente dissolvendosi nel suo corpo. Eppure, nonostante la preoccupazione, Scott si sente felice, come non era da molto tempo, tanto euforico da provare a rimettere le cose a posto, a Castle Rock. Tanto, da provare a riaffermare il potere della parola sull’ottusità del pregiudizio. Tanto, da voler dimostrare che l’amicizia è sempre a portata di mano.


Elevation: la recensione

Che a mettersi in gioco siano dilettanti allo sbaraglio (*coff* Paolini*coff*) o autori affermati e acclamati, la morale è sempre la stessa: i bravi romanzieri sono pochi, i bravi novellieri ancora meno. Eppure, pare che di recente tutti si stiano scoprendo esperti raccontisti. Della serie, le scarpe col tacco sono all’ultimo grido e anche se ho la scoliosi le indosso anch’io. Se cammino come un piccione ubriaco poco importa, perché basta seguire la corrente modaiola.

C’è un anonimo che una volta disse: Scrivi di ciò che sai. A questa massima di saggezza io aggiungerei: Scrivi solo se hai idee, e con i tuoi spazi.

King era un grande, finché, lui come tanti altri, non è soccombuto alla pigrizia e all’avidità ha intravisto il barbaglio dorato di monete sonanti dietro alla pubblicazione di un breve racconto. Invece di abbandonare la vena ormai esaurita della sua creatività, come un Paperon de’ Paperoni che, fagotto in spalla, si lascia dietro il Klondike razziato di ogni grammo di pepita, King raschia ancora una volta il fondo del barile e propone un altro racconto incompleto.

Ha (malauguratamente) capito, forse, che il racconto è una misura del manoscritto da poca spesa, molta resa: tempi di stesura contenuti e prezzi finali in linea con i romanzi più spessi. Nel tempo che sacrifichi chino su un solo romanzo, c’è di che sfornare tre o più racconti.

Quello che voglio dire, insomma, è che King dovrebbe cercarsi altri terreni friabili in cui scavare, perché Elevation segna il punto più basso della sua carriera morente di minatore. Alla sua scarsa verve ho già accennato nella recensione di The Outsider: è come se King avesse perso tono muscolare, come se la sua brillantezza di un tempo si stesse atrofizzando e non potesse raggiungere le performance della gioventù. Le casistiche son due: o è invecchiato, ipotesi che caldeggio, o sarebbe ancora in grado di confezionare capolavori ma ha preferito vendersi al facile guadagno.


Scott vive il sogno di ogni donna

Protagonista di Elevation, novella agrodolce che sta all’horror quanto il ketchup sta alla pastasciutta, è Scott Carey. Fondale del palcoscenico, la famigerata Castle Rock.

All’ennesimo chilo lasciato sulla bilancia, Scott Carey decide che è ora di consultarsi con un suo caro amico e medico in pensione. C’è qualcosa che non va in me, si lamenta, non troppo preoccupato, perché mangio come una scrofa all’ingrasso e perdo comunque peso. Più che di una richiesta di aiuto, le sue parole hanno il tono di una confessione: dai medici che ancora esercitano, infatti, non si farà mettere i guanti di lattice addosso come il più impotente dei ratti da laboratorio.

Scott, in soldoni, sta perdendo peso. È come se la gravità della Terra non esercitasse su di lui la stessa forza che invece esercita per tutto e tutti sulla superficie del pianeta. Non solo, il morbo contagia temporaneamente tutte le cose con cui Scott viene a contatto diretto, siano esse oggetti inanimati, gatti o esseri umani. Il peso che preme sulla bilancia non cresce secondo logica: Scott in tenuta adamitica pesa tanto quanto Scott in cappotto foderato e polsiere da un chilo su ambo le braccia.

C’è qualcosa che ha mandato il suo metabolismo in overdrive. Non si conoscono le origini di questo qualcosa, ma Scott sa di essere un caso unico al mondo e nel suo intimo conosce già dove la malattia lo condurrà.


La mentalità provinciale, cancro del nostro secolo

Missy e Deirdre, vicine di casa di Scott, gestiscono lo Holy Frijole, un ristorante specializzato in cucina messicana. Sono omosessuali e sono sposate, per cui si attirano la malevolenza di tutte le noci avvizzite di Castle Rock. Il boicottaggio è silenzioso ma virale: il pettegolezzo passa di bocca in bocca, il locale si sfoltisce di clientela. Posso immaginarmi le recensioni su Trip Advisor: il cibo è genuino e delizioso, in cucina ci stanno due lesbiche, che schifo. Castle Rock sarà anche una cittadina immaginaria, ma i suoi abitanti sanno essere sorprendentemente realistici.

Scott non si lascia infettare dall’arretratezza mentale dei suoi coabitanti. Anzi, in mezzo ai due fuochi si sentirà più vivo, volenteroso e leggero che mai. Sfrutterà la sua condizione a proprio vantaggio per mediare tra gli opposti. La sua impronta fisica si assottiglia giorno dopo giorno: che l’impronta morale lasci un segno più profondo di quello impresso dalle sue scarpe. È così che Scott ascende e vive il morbo come una benedizione. Un tocco divino e a Scott crescono ali d’angelo, il mezzo con cui epurare Castle Rock dei suoi peccati.

Elevation vuole insegnare che chi è privo di pregiudizi si eleva al di sopra di tutti. Un messaggio positivo che viene, però, ficcato a forza nella bocca del lettore. Non è il messaggio che soggiace alla trama, ma è la trama (?) che soggiace al messaggio.


Elevation è anche l’intruso nella sezione horror

Oh, c’è Stephen in copertina. Allora deve essere senz’altro un horror, no? No.

Elevation non è affatto un horror, sebbene tutti i negozi e archivi letterari online si prodighino per classificarlo come tale. Goodreads, addirittura, l’ha eletto miglior horror del 2018. Non è che una storiella con poca lode, tanta infamia e una spessa impanatura di politically correct. Come in un ingannevole Bastoncino Findus, il pangrattato pesa più del filetto di merluzzo racchiuso al suo interno: l’intento è denunciare un’ingiustizia, non raccontare una storia, perché l’idea per una storia non c’è. La malattia di Scott da dove deriva, che senso ha, cos’è? Si salva giusto giusto lo stile evolutosi da decenni di esperienza.

Non è horror, non è thriller, non è romance… so soltanto quello che non è, e non è tante cose. Non è un bel racconto, per iniziare, né un buon acquisto. È la fiera dei cliché, dei personaggi senza senso e monodimensionali. La copertina è il vero elemento horror: inorridisce il pensiero che ci sia la mente di King dietro a questa oscenità.


Per concludere

Quando la penna ferisce più della spada. Qualcuno lo disarmi e gli sequestri il quaderno, per favore.

Stellina per recensioni.
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[Recensione] “Nightflyers” di George R.R. Martin

Copertina di Nightflyers.

Dobbiamo a Netflix l’imminente uscita, questo 5 febbraio, della traduzione italiana di Nightflyers. Scritta da un ancora semisconosciuto George R.R. Martin e pubblicata nel 1980, questa novella fanta-horror ha infatti ispirato una serie Netflix dall’omonimo titolo. La stessa storia è il frutto di un’ispirazione con intenti ribelli…

Titolo: Nightflyers
Autore: George R.R. Martin
Genere: sci-fi/horror
Editore: Mondadori
Pagine: 161

Quando ormai la terra è sull’orlo del tracollo, l’ultima speranza risiede in una spedizione scientifica la cui missione consiste nell’avvicinare e studiare una misteriosa razza aliena che si spera possa custodire la chiave per la sopravvivenza dell’umanità.

L’unico mezzo in grado di affrontare la spedizione è la Nightflyer, un’astronave completamente automatizzata, controllata da un solo essere umano, il capitano Royd Eris. L’equipaggio però si ritrova a viaggiare su una nave fantasma perché il capitano non si mostra mai se non attraverso il suo ologramma e comunica solo tramite una voce contraffatta.

A rendere la permanenza sulla Nightflyer ancora più inquietante, il sensitivo del gruppo inizia a percepire a bordo una presenza oscura, un’entità pericolosa, incorporea, aliena. Il capitano sostiene di non saperne nulla e, quando qualcosa o qualcuno inizia a uccidere i membri dell’equipaggio, sembra non essere in grado o intenzionato a cercare di arrestare questa scia di sangue. L’unica ad avere la possibilità di fermare questa creatura sanguinaria è Melantha Jhirl, un’umana geneticamente modificata, più forte, intelligente e veloce di tutti gli altri membri dell’equipaggio. Ma per farlo, prima deve riuscire a restare viva…


Nightflyers: la recensione

“I had read an article by a critic around that time that had said, ‘Well, science fiction and horror can never be successfully mixed because they’re opposite… horror is all about emotions and fear and a universe that we cannot pretend to understand, and science fiction is always about rationality and intellect and problems [that] are solvable by application of the human mind. And so you can never have a story that was both.’ And, of course, I took that as a challenge.”

Prima di scrivere Le Cronache del ghiaccio e del fuoco, prima ancora di affiancarsi agli sceneggiatori de Il Trono di spade, George R.R. Martin canalizzava la sua fantasia in storie di fantascienza. Suggerisco In fondo il buio, per esempio, il cui titolo originale, Dying of the Light, si rifà a un verso di una poesia di Dylan Thomas (parole che in tempi più recenti verranno riprese e trasportate sul grande schermo dal film sci-fi Interstellar). È solo nel 1980 che la sua verve creativa tasta l’acqua infida e gelida del genere horror, con la pubblicazione di Nightflyers prima e con l’uscita de Il battello del delirio due anni dopo.

Cos’è cambiato, nel frattempo? Un ignoto si è pronunciato sul carattere antitetico di fantascienza e horror e Martin ha raccolto il guanto soffocando la voce della critica con esso. L’esito della sfida sarà presto sotto ai nostri occhi e fra le nostre mani: un fanta-horror a tinte gore, una combinazione unica che va a incastrarsi nella tavola periodica dei filoni letterari riconosciuti e più rappresentati.


La Compagnia dei Nove decolla a caccia di volcryn

Karoly D’Branin non fa segreto della sua ossessione: per tutta la vita ha alzato gli occhi in su in attesa di una scia cadente dei mitici volcryn. Ma i volcryn vagavano nello spazio millenni prima che Cristo iniziasse a gattonare in Giudea e sono ormai troppo lontani per il potere risolutivo di occhi umani e telescopici. Per colmare le distanze astronomiche e soddisfare il desiderio di un incontro ravvicinato con la razza aliena, D’Branin assolda allora un’eterogenea squadra di otto accademici e affitta il timone della Nightflyer di proprietà del misterioso capitano Royd Eris.

I lettori di Martin più sfegatati ricorderanno volti e nomi già noti da I canti del sogno. A formare la cricca di volontari si annoverano, infatti: Lommie Thorne, donna cibernetica che sa parlare alle macchine; lo xenobiologo Rojan ChristopherisDannel e Lindran, due linguisti; Agatha Marij-Black, la psichica; la xenotech Alys Northwind, d’indole un po’ idrofoba; il sempre nervoso telepata di primo livello Thale Lasamer; la sensuale ed enigmatica Melantha Jhirl, che grazie ai – o a causa dei – prodigi della biotecnologia incarna la forza e l’intelligenza di due esseri umani in un corpo solo.

C’è l’animo avventuroso che condivide l’entusiasmo di D’Branin, c’è invece chi si trattiene e insegue le flebili orme dei volcryn con il compassato interesse di uno studioso. E poi c’è un intero equipaggio che si chiede, con una curiosità che minaccia di evolvere in paranoia, perché il capitano Royd Eris si rifiuti di uscire dalla sua cabina. Perché si lascia sostituire da una proiezione olografica, senza mai esporsi in prima persona? Perché la sua voce viene diffusa solo dagli interfoni?


Le pecore e il lupo insieme nel recinto

Ben presto, le antenne ricevitrici del telepata Thale Lasamer captano uno strano segnale a bordo. È una frequenza mentale che ha il colore rosso del pericolo e che getta l’accademico in uno stato di febbrile agitazione. Sarà la prima avvisaglia della presenza maligna che infesta la nave. Ed è risaputo: non c’è nulla che esasperi l’uomo, che manifesti i suoi istinti peggiori, quanto la convivenza coatta insieme a un ignoto assassino. I confini stretti esacerbano i conflitti.

All’ennesima richiesta al capitano di una conversazione a tu per tu che cade puntualmente nel vuoto, l’equipaggio comincia a meditare l’ammutinamento…


L’horror abbonda, il sci-fi scarseggia

Nightflyers è un horror ben riuscito in cui la psiche è la fonte suprema del terrore. Il dover affrontare un nemico ignoto che preda le sue vittime con un modus operandi del tutto casuale ed erratico riduce la più risoluta delle coscienze a un piatto di uova strapazzate.

Meno studiata e sbozzata a tratti grossolani risulta la cornice della worldbuilding: manca qualsiasi tipo di coordinata spaziale e temporale, del destino dell’umanità si conosce poco o nulla, è solo accennato il bagaglio di vita che ogni personaggio imbarca con sé. D’altronde, non molti autori vantano la tecnica per spremere il meglio da una lunghezza di trentamila parole e Martin riesce comunque a consegnarci un prodotto invecchiato molto bene. Nightflyers sorprende in positivo, invece, per maturità stilistica. Dilaga ormai lo stereotipo dell’esordio scritto coi piedi, ma non è questo il caso.

Le illustrazioni di Palumbo sono una chicca tutta da ammirare.


Per concludere

Il critico ignoto si rimangia le parole. Ricordate, voi lettori, che questo libro è firmato Martin: affezionatevi ai personaggi a vostro rischio e pericolo…

Stellina per recensioni.
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Le novità editoriali di gennaio 2019

Novità editoriali.

È un gelido gennaio, questo che ci propone il 2019. E la selezione delle novità di questo mese, dunque, non può che iniziare con…

In un chiaro, gelido mattino di gennaio...In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo

Titolo: In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo
Autore: Roland Schimmelpfennig
Casa editrice: Fazi
Pagine: 230

In libreria dal 17 gennaio 2019

In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo un lupo attraversa il confine polacco-tedesco e si dirige verso Berlino. Un manovale polacco bloccato in autostrada a causa di un incidente lo vede e lo fotografa. La sua compagna fa pubblicare la foto. Negli stessi giorni due adolescenti scappano di casa e dalla provincia brandeburghese si mettono in viaggio per raggiungere la capitale, dove sperano di rintracciare un amico; un padre alcolista esce dalla clinica e si mette sulle tracce dei due ragazzi; una madre depressa torna nei luoghi della sua radiosa gioventù; un losco cileno proprietario di un locale tinteggiato di nero ospita i due ragazzini… E mentre la città, coperta di neve, s’impregna di un misto di paura e attrazione verso il lupo e crede di avvistarlo in ogni angolo, l’animale si nasconde, si sottrae, per poi apparire dove nessuno se lo aspetta. Una silenziosa parabola del cercare, del morire, del bere, del perdersi e del ritrovarsi segna il debutto narrativo del drammaturgo tedesco più tradotto al mondo. “In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo” è una fiaba metropolitana ambientata sul palcoscenico minimalista della Berlino dei nostri giorni: Schimmelpfennig posiziona i riflettori in modo da illuminare di volta in volta un solo angolo della scena, mostrandoci personaggi incapaci di uscire dalla solitudine del loro cono di luce; sullo sfondo, i fantasmi della DDR incontrano i mostri della gentrificazione.

La cosmopolita Berlino m’ha ospitata due volte: nel 2008, con una toccata e fuga di tre giorni come coronamento di cinque anni di scuola superiore, e poi per un mesetto in vacanza-studio ad agosto 2013. Non è una città che si lascia amare a vista d’occhio. Più che appagare gli occhi, infatti, appaga la curiosità dello storico e di chi all’acqua smeraldina preferisce i corridoi di un museo. La lepisma non è animale da spiaggia e questo libro l’ha quasi intossicata di nostalgia.


Un milione di volte buonanotte.Un milione di volte buonanotte

Titolo: Un milione di volte buonanotte
Autore: Kristina McBride
Casa editrice: Newton Compton
Pagine: 352

In libreria dal 17 gennaio 2019

La notte della festa prima delle vacanze, la diciassettenne Hadley prende “in prestito” l’auto di Ben, il suo ragazzo. Ovviamente senza dirglielo. Peccato che Ben non sia un tipo che lascia correre, e si vendica postando sui social una foto compromettente di Hadley senza veli, a beneficio di tutta la scuola. Quando viene avvertita di quello che sta succedendo, Hadley si trova a dover prendere una decisione. Può tornare indietro alla festa e costringere Ben a eliminare la foto oppure vendicarsi a sua volta portando la sua adorata macchina il più lontano possibile dalla sperduta cittadina dell’Ohio in cui vivono. Nel primo caso il piano per vendicarsi potrebbe portare alla luce segreti sconvolgenti. Nell’altro Hadley si ritroverebbe intrappolata nell’auto con il suo ex, Josh, costretta a rivivere con lui tutti gli errori commessi nel passato, incluse le cause della loro rottura. Hadley è di fronte al bivio e può scegliere solo una delle due strade… o forse no?


La forchetta, la strega e il drago.La forchetta, la strega e il drago. Racconti da Alagaësia

Titolo: La forchetta, la strega e il drago. Racconti da Alagaësia
Autore: Christopher Paolini
Casa editrice: Rizzoli
Pagine: 288

In libreria dal 22 gennaio 2019

Tre storie ambientate ad Alagaësia, un assaggio della nuova vita di Eragon e un estratto delle memorie di Angela l’erborista. Per tornare a immergersi nell’affascinante e antico mondo del Ciclo dell’Eredità.

«Cavalieri di Draghi, preparatevi a vivere un’avventura incredibile, anzi tre, Christopher Paolini, creatore di Eragon e inventore del mondo incantato di Alagaësia, torna con un volume che riunisce appunto tre storie» – La Lettura

È passato un anno da quando Eragon ha lasciato Alagaësia in cerca del luogo perfetto in cui addestrare una nuova generazione di Cavalieri dei Draghi. È alle prese con una lista lunghissima di compiti e doveri: costruire una fortezza a misura di drago, discutere con i fornitori, vegliare le uova dei futuri draghi e tenere a bada i belligeranti Urgali e gli altezzosi Elfi. Poi una visione degli Eldunarí, una visita inaspettata e un’appassionante leggenda degli Urgali gli offrono la distrazione di cui ha tanto bisogno e gli mostrano le cose sotto un’altra prospettiva… Tre storie inedite ambientate ad Alagaësia, un assaggio della nuova vita di Eragon e un estratto dalle memorie di Angela l’erborista – di cui è autrice Angela Paolini, che ha ispirato il personaggio della strega – per tornare a immergersi nell’affascinante e antico mondo del Ciclo dell’Eredità.

A Christopher Paolini piace fare castelli con mazzi di banconote. Questo suo ultimo scritto, insieme alla già infelice pubblicazione di Inheritance al secolo, ne è la prova definitiva. Si è aggiudicato una recensione da segno meno.


La macchina del tempo.La macchina del tempo

Titolo: La macchina del tempo
Autore: Herbert G. Wells
Casa editrice: Einaudi
Pagine: 144

In libreria dal 22 gennaio 2019

Un inventore mette a punto una macchina del tempo con la quale riesce a raggiungere l’anno 802 701. Vi trova un mondo diviso in due razze umane: gli Eloj, creature delicate e pacifiche che conducono una vita di svaghi, e i Morlock, esseri pallidi e ripugnanti che vivono nei sotterranei.

«Era orribile sentire nel buio tutte quelle creature viscide ammucchiate su di me, come essere in una mostruosa ragnatela».

Dopo angoscianti avventure, riuscirà ad andare ancora piú lontano nel tempo, in una Terra senza piú tracce di uomini, abitata soltanto da crostacei con «occhi maligni» e «bocche bramose di cibo». Fantascienza, critica sociale, romanzo distopico: il capolavoro di Wells è soprattutto l’opera di un grande visionario e Michele Mari, nel ritradurlo, ha trovato pane per i suoi denti. L’incontro tra lo scrittore-traduttore e uno dei suoi romanzi preferiti era destinato a produrre scintille… Traduzione e cura di Michele Mari.

Era proprio necessaria questa ritraduzione? La lepisma annuisce: non è mai troppo tardi per modernizzare i classici e riproporli alle nuove generazioni.


L'uomo delle castagne.L’ uomo delle castagne

Titolo: L’ uomo delle castagne
Autore: Soren Sveistrup
Casa editrice: Rizzoli
Pagine: 560

In libreria dal 22 gennaio 2019

Dall’autore della serie tv The Killing, un thriller di grande livello, un’invenzione narrativa complessa, un’indagine per comprendere come un’ossessione perfetta può deviare la mente di un individuo.

Troppe cornacchie dietro il trattore. Saltellano freneticamente intorno a qualcosa di bianco, pallido e informe. Un maiale. Gli occhi spenti, il corpo che freme e si agita, come se provasse a spaventare le cornacchie, appollaiate a mangiare da un grosso foro di arma da fuoco sulla sua nuca.

Un navigato agente di polizia, a una settimana dalla pensione, si ferma davanti alla fattoria di un vecchio conoscente, nei dintorni di Copenaghen. Qualcosa non va. Un maiale morto lasciato lì. Non si fa così, in campagna. Apre la porta d’ingresso, socchiusa, con due dita, come nei film. Per vedere una cosa che non avrebbe mai voluto vedere: sangue, un cadavere mutilato, altri corpi da scavalcare. Cammina fino all’ultima stanza, dove centinaia di omini fatti di castagne e fiammiferi – infantili, incompleti, deformi – lo guardano ciechi. Stravolto, si chiude la porta alle spalle, senza sapere che l’assassino lo sta fissando. Così si annuncia, spaventosa, la storia dell’Uomo delle castagne, un thriller di grande livello, il primo romanzo di Søren Sveistrup, autore della serie tv The Killing – il cult mondiale che ha appassionato milioni di spettatori – e sceneggiatore dell’Uomo di neve, il film tratto dal romanzo di Jo Nesbø. Un’invenzione narrativa complessa, un assassino disumano che si muove nel fondo di questo libro con una cupezza senza eguali, un’indagine condotta con angosciata bravura da due detective – uomo e donna, lui e lei – costretti a scendere mille gradini per comprendere come un’ossessione perfetta può deviare la mente di un individuo. Nemmeno Hitchcock. Perché poi un grande thriller nasce soltanto da un magnete, un chiavistello del male che attira, che vi attira inesorabilmente là, nella stanza degli omini che dondolano. Un capitolo vi lascerà il gusto di essere su una pista possibile e il seguente vi dirà di cambiare strada. Perché l’Uomo delle castagne ha pensato a tutto e ricorda ogni cosa. Gli altri, finti innocenti, hanno dimenticato.

La lepisma libraia

[Recensione] “La forchetta, la strega e il drago” di Christopher Paolini

Copertina de La forchetta, la strega e il drago.

Siete pronti a sellare i vostri draghi e a sorvolare Alagaësia sorprendendo le aquile dall’alto? Sarà in vendita da domani La forchetta, la strega e il drago, lo spin-off del Ciclo dell’Eredità di Christopher Paolini nato con la pubblicazione di Eragon nel 2002. Su le orecchie, dunque, voi che dovete ancora aggiornarvi sugli eventi della quadrilogia principale: proseguendo la lettura di questo articolo, calpesterete un terreno irto di spoiler.

Titolo: La forchetta, la strega e il drago. Racconti da Alagaësia
Autore: Christopher Paolini
Genere: fantasy
Editore: Rizzoli
Pagine: 288

Tre storie ambientate ad Alagaësia, un assaggio della nuova vita di Eragon e un estratto delle memorie di Angela l’erborista. Per tornare a immergersi nell’affascinante e antico mondo del Ciclo dell’Eredità.

È passato un anno da quando Eragon ha lasciato Alagaësia in cerca del luogo perfetto in cui addestrare una nuova generazione di Cavalieri dei Draghi. È alle prese con una lista lunghissima di compiti e doveri: costruire una fortezza a misura di drago, discutere con i fornitori, vegliare le uova dei futuri draghi e tenere a bada i belligeranti Urgali e gli altezzosi Elfi. Poi una visione degli Eldunarí, una visita inaspettata e un’appassionante leggenda degli Urgali gli offrono la distrazione di cui ha tanto bisogno e gli mostrano le cose sotto un’altra prospettiva… Tre storie inedite ambientate ad Alagaësia, un assaggio della nuova vita di Eragon e un estratto dalle memorie di Angela l’erborista – di cui è autrice Angela Paolini, che ha ispirato il personaggio della strega – per tornare a immergersi nell’affascinante e antico mondo del Ciclo dell’Eredità.


La forchetta, la strega e il drago: la recensione

Sfogliata l’ultima pagina di Inheritance, la sottoscritta era una lettrice delusa. Giunta al punto di (s)conclusione de La forchetta, la strega e il drago, la sottoscritta è ancora una lettrice delusa. Più di quanto non fosse già.

La forchetta, la strega e il drago (titolo liberamente ispirato a Il leone, la strega e l’armadio di ben altro calibro di autore) è un frutto strappato prematuramente dal suo albero. Doveva rimediare a tutti i peccati veniali, mortali e immorali dell’ultimo capitolo della serie genitore, ma finisce per ereditarne i difetti e aggiungerne addirittura di nuovi.

Chris, soddisfami una curiosità: qual è il senso di pubblicare una storia incompleta? No, non parlo dell’incompletezza tipica dei romanzi seriali, ma proprio di una storia a cui manca un organo vitale. A nessuno piace leggere di uno spaccato di vita quotidiana cui è stato amputato il finale.


Eragon, spirito ardito e impoltronito

The day had not gone well.
Eragon leaned back in his chair and took a long drink of blackberry mead from the mug by his hand. Sweet warmth blossomed in his throat, and with it memories of summer afternoons spent picking berries in Palancar Valley.

Come leggiamo “Eragon”, è subito nostalgia. Non so voi, ma l’immagine mentale che ho avuto di me sul momento è stata quella di una foca che gorgheggia percuotendosi la pancia con le pinne. Più o meno questa. Ero eccitata come un elettrone fuori orbita.

Poi mi si parla di quanto sia tedioso e gravoso il compito di governatore. Eragon siede a una scrivania sommersa di pergamene e nulla farebbe la sua felicità quanto carbonizzarle con un Brisingr a fil di labbra. Ma non può: i chili persi in muscoli li ha guadagnati in fedeltà al dovere, e il dovere lo tiene inchiodato alba, giorno e tramonto a quella dannata scrivania.

Il suo sentirsi costantemente inadeguato al compito prefissato gli impedisce di rilassarsi, di staccare la sua mente anche solo per dormire sonni tranquilli. Sotto consiglio di Saphira, o dovrei dire sotto la minacciosa traiettoria di uno dei suoi artigli, andrà finalmente a farsi una passeggiata per la fortezza di Arngor e cercherà consulto presso la saggezza dei draghi che furono: le storie che ne trarrà saranno il necessario diversivo per tornare al lavoro con rinnovata serenità.

Ricordate il vento che ci frusta i capelli, i giri della morte su noi stessi, l’aria che fischia attorno alle orecchie, il riverbero del sole su squame lucenti, le ossa che vibrano alla frequenza dei ruggiti del nostro drago? Sì? Ecco: dimenticate tutto.

Della serie: Eragon indossa il colletto bianco e la sella di Saphira marcisce in mansarda.


La forchetta

Gli Eldunarí teletrasportano la coscienza di Eragon in quella indignata della piccola Essie, figlia del locandiere di un insignificante borgo di Alagaësia. Inconsapevole della reale identità del suo interlocutore che siede con lei, e incoraggiata ad aprirsi da una fiducia istintiva nei suoi confronti, intavola con lui una fitta conversazione in cui riversa un fiume di infantili disgrazie. Tornac, o Murtagh che dir si voglia, si lascerà sommergere dalla piena e impartirà alla bambina la lezione più importante della sua vita.

In questo arco temporale, il figlio di Morzan ha l’occasione di stregare una forchetta e distribuire qualche sventola a una masnada di clienti inadempienti. Sgattaiolerà dal retro del locale con in testa un fuoco di fila di domande.

Eragon, sintonizzato sullo stesso canale, assimilerà la paternale a sua volta e si interrogherà sulla prossima mossa del fratellastro: cos’era quella pietra, chi erano quei tizi? Lo stesso farà il lettore, disperso nel buio di una storia inconcludente come un cieco abbandonato dal suo cane sulle zebre della provinciale.


La strega

Strive for wisdom! Or at least a decrease in idiocy.

La strega è Angela, che scrive in prima persona. La sua è una quest quasi disperata: strappare Elva dalle mura della fortezza dov’è rinchiusa per assoldarla e farne la sua nuova apprendista. O per addolcirne, quantomeno, il disprezzo e la sfiducia che nutre nel genere umano tutto. Angela la scaricherà infine tra le braccia già sovraccariche di Eragon, perché, insomma, il guaio l’ha combinato lui e lui deve assumersene la responsabilità.

Un’improvvisa invasione di pagina da parte della guest-writer Angela Paolini, sorella di Christopher a cui è ispirato il personaggio omonimo, finalizzata a ispessire il volume del manoscritto e poco altro. Stravagante come sempre, farneticante come mai. Un raccontino senza capo né coda per stirare giusto un angolo delle labbra verso l’alto.


Il drago

Christopher non è nuovo a ispirazioni non creditate. Non soddisfatto, ai tempi, di aver saccheggiato a piene mani la trama di Star Wars, dirotta ora i propri artigli su elementi dell’universo tolkieniano quali il drago Smaug e Città del Lago.

Un clan di Urgali vive sotto la minaccia costante degli attacchi del drago Vêrmund. Orfana di padre, ucciso dallo stesso drago in una morte rovente e impietosa, Ilgra coverà nel cuore sentimenti di vendetta finché i tempi saranno maturi per passare dai propositi ai fatti. Ma il Kulkaras, sulla cui vetta si attorcigliano le spire del verme immondo nella grottesca imitazione di un nido d’uccello, è ripido e non si lascia addomesticare senza ingaggiare battaglia. Torneranno alla ribalta i Lethrblaka e la potenza primigenia dei lessemi dell’Antica Lingua.

L’unico racconto, dei tre, che possa definirsi completo. È lo stesso Paolini a confessare, sulle battute finali di ringraziamento, di averne atteso per anni la pubblicazione perché a corto di materiale con cui accompagnarlo.


Una riunione forzata

Writing about Eragon and Saphira after so many years was like returning home after a long journey.

Paolini la dice giusta: c’è un che di rassicurante nel rileggere nomi di personaggi che hanno vinto il nostro affetto anni e anni fa (Eragon è uscito 17 anni fa: anche voi sentite qualche ruga ispessirsi in viso? Ditemi di sì). L’istinto è quello di stringersi la mano e di darsi qualche pacca amichevole sulla schiena. Eragon e Saphira rievocano pomeriggi di un’infanzia trascorsa nell’azzurro del cielo, a rincorrere cervi ridotti a punti grigi in un campo sterminato di verde e filari di alberi.

La forchetta, la strega e il drago manca la sensazione di libertà che contraddistingue la quadrilogia principale. Lo stile, però, è tale e quale ad allora, e non è una fedeltà positiva, perché la produzione breve di un racconto si presta a uno stile spartano e povero di sproloqui. C’è poco margine per caratterizzare e ancora meno per lanciarsi in lunghe descrizioni. È necessario che lo stile sia incisivo, insomma, un aggettivo che tutto descrive fuorché la voce narrante di Christopher. Il risultato si condensa in questo volumetto: racconti che dicono poco in relazione allo spazio occupato. Racconti che non dissetano la gola riarsa dei lettori con domande vecchie di un decennio. Racconti parziali e troncati a metà da una casa editrice con gli occhi a forma di simboli di dollaro.

Questo patchwork di racconti è una bieca mossa commerciale. Non tenete fede al numero di pagine gonfiato da scelte tipografiche per ipovedenti: son quarantamila parole in tutto, con qualche decina di resto. Una cifra vergognosamente bassa.


Per concludere

Perché scrivere un solo spin-off quando ne puoi scrivere tre? Sì, gente, siamo dinnanzi al primo episodio di una progettata trilogia. Memori di Brisingr, aspettiamo pure che il numero lieviti…

Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.
Mezza stellina.

La lepisma libraia

[Recensione] “Salvare le ossa” di Jesmyn Ward

Copertina di Salvare le ossa.

Nel 2012 usciva Re della terra selvaggia. Reclamizzato come film fantasy sui palinsesti cinematografici italiani, è stato trattenuto fuori dal cono di luce dei riflettori. Ha dunque fatto una comparsata sulle reti televisive, qualche anno più tardi, riscuotendo un modesto indice di ascolto. Se rientrate nella percentuale che finora se lo è fatto scappare, l’ovvio consiglio è di colmare la lacuna. In caso contrario, lascio a voi il piacere di scovare le differenze e i parallelismi con Salvare le ossa di Jesmyn Ward.

Titolo: Salvare le ossa. Trilogia di Bois Sauvage. Vol. 1
Autore: Jesmyn Ward
Traduttore: Monica Pareschi
Genere: drammatico/young adult
Editore: NN Editore
Pagine: 316

Un uragano minaccia la città di Bois Sauvage, Mississippi. Esch ha quattordici anni ed è incinta; suo fratello Skeetah ruba avanzi di cibo per i cuccioli di pitbull che stanno morendo nella polvere, mentre Randall e Junior cercano di farsi valere in una famiglia che sembra non conoscere la solidarietà. Nei dodici giorni che precedono l’arrivo devastante dell’uragano Katrina, i quattro fratelli orfani di madre si sacrificano l’uno per l’altro come possono. Uno sguardo potente e straziante sulla povertà rurale, Salvare le ossa è un romanzo rivelatore e reale, innervato di poesia.


Salvare le ossa: la recensione

Salvare le ossa, libro primo della trilogia di Bois Sauvage, è un ritratto sulla violenza dipinto a tonalità d’amore.

La prima pennellata di Jesmyn Ward è bianca come il pelo porcellana di China, una femmina di pitbull in procinto di partorire sul pavimento sporco di una baracca. Sotto allo sguardo attento del suo padrone, il sedicenne Skeetah, e a quello del punto di vista narrante Esch, China sforna una cucciolata di futuri guerrieri. Il suo amore verso i piccoli sarà quello inaridito e incostante di chi ha disimparato l’istintivo affetto materno sostituendolo con l’impulso omicida dei cani da combattimento.

L’amore tra Skeetah e China, invece, fluisce costante, puro e spiritualmente illimitato. Skeetah sta al suo cane come Laira Belacqua sta al suo daimon: due anime distinte ma interdipendenti, testa e coda della stessa moneta. Impegnati a disconoscere il resto del mondo al di là del perimetro dei reciproci abbracci, non sanno di essere oggetto di malinconica invidia.

Alla sorella Esch, che ama, e al coetaneo Manny che non corrisponde, si sovrappone infatti la tragedia greca di Medea e degli Argonauti. Vestendo i panni sporchi di un moderno Giasone, Manny volta le spalle e declina qualsiasi paternità verso il figlio che Esch scopre di portare dietro agli spigoli smussati di un corpo dalla femminilità acerba. Esch è stata costretta a crescere come un virgulto solitario, esile ma corazzato di spine, in un mondo degradato che sembra tagliato apposta per l’irruenza maschile. Orfana di madre, il cui amore incorporeo è una presenza costante che aleggia nella sua mente in forma di buoni consigli e nostalgici ricordi d’infanzia, Esch dovrà scendere a patti con la nuova rotondità del suo ventre. Per questo identificherà in China, anche lei madre inesperta, una guida da cui imparare il significato di maternità.


Le altre tonalità d’amore

Randall, coi suoi diciassette anni, è il maggiore dei fratelli. In uno scenario in cui i più scialacquano i loro giorni in una mera lotta per la sopravvivenza, lui palleggia per il campo da basket e punta in alto, nel gioco come nella vita vera: ogni lancio che attraversa il canestro segna un passo in più verso il college e la fondamentale borsa di studio per frequentarlo. Figlio non modello, ma l’unico addomesticabile e vagamente addomesticato in un branco di belve con le orecchie retratte.

Amore infantile e a tratti asfissiante è quello che Junior, sette anni appena, nutre per i suoi fratelli più grandi. Se non è andato a infilarsi nei cunicoli fangosi sotto alle fondamenta di casa, si può star certi di trovarlo nel raggio d’azione delle braccia di Randall. D’altronde è lui la sua figura di riferimento, il faro all’orizzonte del mare aperto, il destinatario di imprinting. Il surrogato dell’amore paterno di cui lui non ha mai beneficiato e di cui i suoi fratelli sono stati privati. L’amore di madre ha raggiunto il picco alla sua nascita per poi spegnersi nel sacrificio per eccellenza: la donna che baratta la propria vita per quella del figlio.

Perfino dopo queste premesse, Ward è ben lungi dall’aver esaurito gli spazi vuoti sulla tela. E sulla tavolozza rimane ancora una varietà d’amore da miscelare, l’ultima: l’amore di un padre che affoga la vedovanza nell’oblio della birra. Il suo cuore, come quello indurito di China, è mal funzionante. Atrofizzato dal dolore e dalla solitudine della perdita, difetta di energie per interessarsi davvero dei figli, eppure non ha perso il suo sesto senso.

Come la leonessa che fiuta il bracconiere ancora prima di vederne il fucile, il padre di Esch annusa per primo il pericolo nell’aria del Mississippi. Sprangate le finestre, ordina, fate incetta di acqua potabile e di carne in scatola. Consapevole di incorrere nel rischio di guadagnarsi l’appellativo di svitato di Bois Sauvage, attirerà a sé tutta la famiglia, o tenterà di farlo, in una disperata missione di rinforzo strutturale della casa. Perché?, chiedono i figli alzando il sopracciglio. Perché è in arrivo un uragano. Un’alzata di spalle, giovani occhi che ruotano spazientiti nelle orbite. Ne abbiamo avuti tanti, che vuoi che sia?

Di lì a un grappolo di giorni, quell’uragano sarà battezzato Katrina. E siamo a Bois Sauvage, in Mississippi, dove le calamità naturali non si consumano dietro lo schermo del televisore a migliaia di chilometri di distanza, ma infuriano appena al di là del vetro traballante di una finestra…


La distruzione ha nome di donna

China è l’incubo dei cani da arena. Sfila fra di loro con la corona in testa, al pari di Madre Natura che, con un ritmo fortuito e senza favoritismi, con un colpo di scettro ricorda a tutti chi comanda davvero. In quanto a Esch… dirò solo che avrà la sua occasione per sfoderare le unghie e non mancherà di sfruttarla a dovere. Nella comunità maschiocentrica di Bois Sauvage, insomma, la femminilità è distruzione.

Non a caso, Esch si serve di China e della mitica Medea, figure femminili passionali, violente e vendicative, come chiavi di interpretazione della squallida realtà che la circonda. Le ammira e al tempo stesso le teme, perché pensa inconsciamente di condividerne il destino. Come Hushpuppy, Esch interiorizza il mondo esterno in forma di immagini e simbolismi e si sente parte integrante di un universo che pulsa, vive e respira dal più infimo sasso al più maestoso elefante. C’è dunque un senso di predestinazione che vela la realtà come restituita dai suoi occhi di adolescente.

Ogni metafora che Ward verga sulla pagina è unidirezionale, tesa a profetizzare l’arrivo dell’entità distruttrice per antonomasia: l’aria è densa, stagnante e impregnata d’acqua, tanto che alla protagonista quanto al lettore pare quasi di respirare attraverso una garza. Il ritmo della vita nella Fossa, dove sorge la casa della famiglia di Esch, viene scandito, più che dal ticchettio degli orologi, da gocce di sudore che cadono a punteggiare la terra rossa sotto ai piedi. Delle comodità della vita dell’entroterra, poi, a Bois Sauvage non riesce a spingersi nemmeno l’eco, figurarsi uno smartphone con tutti i circuiti intatti. Non si chiama estate quella che non viene sconquassata da almeno un paio di tempeste tropicali. Flora e fauna devono imparare ad adattarsi e risollevarsi, pena l’estinzione, perché non c’è cementificazione che tenga alle forze primordiali della Terra.

In una comunità già provata dall’asocialità dei suoi componenti, la minaccia di Katrina, ancora giovane, ancora un afflato di vento all’orizzonte, viene sottovalutata e archiviata come l’ennesima seccatura che va a impilarsi su una risma di altre noie quotidiane. A lei e alla sua furia distruttrice, infatti, saranno dedicati solo due dei dodici capitoli del romanzo. Ma il destino, evocato da Esch attraverso i continui rimandi al mito e all’idea di una femminilità distruttrice, è deciso ad avverarsi. Profetiche, allora, si rivelano le parole del padre:

«L’uragano… finalmente ha un nome. È una donna, sono i peggiori. Katrina».

La dicotomia uomo/natura, o uomo/donna, è così capovolta: a Bois Sauvage è la seconda a dominare sul primo, e non viceversa.

La natura che delizia con la luce del sole e gli alberi da frutto è insomma la stessa che tira per strappare le mani aggrappate l’un l’altre. E, paradossalmente, finisce suo malgrado per agire come una forza unificatrice: le braccia incrociate e i musi lunghi si rilassano e si tendono a intercettare chi affiora dall’acqua a supplicare un aiuto. L’isolamento selettivo di ciascuno finisce dove si richiede la cooperazione straordinaria di tutti. Perché ci si possa appuntare sul petto la mostrina dei sopravvissuti; perché si possa volgere lo sguardo a un cielo che, nero da giorni, finalmente si schiarisce. O per salvare le ossa, almeno quelle.


Per concludere

La tragedia moderna e ricca di simbolismi di Salvare le ossa è la rara nuvola di pioggia in un deserto editoriale di trame riciclate e personaggi preconfezionati. Vai così, Jesmyn, che la tua penna sia un modello da cui trarre lezioni di stile.

Aggiornamento: è stato tradotto il sequel (che non ho letto), dal titolo Canta, spirito, canta. Qui la scheda del libro su Goodreads.

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La lepisma libraia

[Letture in inglese] “Dreamland” di Robert L. Anderson

Copertina di Dreamland.

In un panorama sempre più internazionale, sapersi destreggiare fra lingue diverse da quella madre è indispensabile per restare al passo con le esigenze dei nostri tempi. Se da lettori uniamo l’utile al dilettevole attraverso la lettura di libri in lingua originale, apriamo anche la porta a migliaia di opere mai importate nel nostro Paese.

Qualche mese fa, nella prima tappa di questa rubrica a cadenza casuale, abbiamo corso per i corridoi del Museo dei Ladri insieme all’indomita Goldie. Oggi vi porto nel limbo che sta fra la veglia e l’incoscienza del sonno profondo, quella landa incoerente e inconsistente che è da anni oggetto di studi da parte di scienziati e fonte di mirabili idee per registi e autori visionari. Vi porto, insomma, nel Regno dei Sogni.

 

Dreamland.

Titolo: Dreamland (edizione inglese)
Autore: Robert L. Anderson
Genere: fantasy/young adult
Editore: HarperTeen
Pagine: 332

Odea Donahue cammina nei sogni della gente da quando aveva sei anni. Sua madre le ha insegnato le tre regole che ogni onironauta deve rispettare assolutamente: mai interferire, mai essere visti, mai camminare più di una volta nel sogno della stessa persona. Odea non ha mai messo in discussione queste regole, né si è mai chiesta perché sua madre sia terrorizzata dagli specchi. Non sa perché non possa fare a meno di tappezzare la casa di orologi, né perché la costringa continuamente a trasferirsi da un posto all’altro per tenere a distanza degli esseri mostruosi da cui sua madre è certa di essere braccata.
Quando un misterioso ragazzo di nome Connor si stabilisce in città, la vita di Odea comincia finalmente ad assumere una parvenza di normalità. Connor non solo abbatterà il muro che la ragazza ha tenuto eretto per così tanto tempo, ma andrà anche vicino a conoscere il suo segreto. Per la prima volta, Odea si chiede che male ci sia nel confessare la verità. Quando però la ragazza infrange le regole stabilite, il confine tra i mondi comincia a deteriorarsi. Come potrà discernere tra realtà e fantasia? 

Traduzione libera a cura di La lepisma libraia

 

Perché consiglio questo libro?

Dreamland non è un saggio filosofico né un manuale di medicina. È un romanzo fantasy, e neanche dei più riusciti (lascia con la sete in gola, per dirne una). Perché, allora, ne consiglio la lettura?

Perché quello onirico è un ambiente di cui si discute sempre troppo poco. I sogni sono fondamentali per il benessere del nostro organismo (è attraverso di loro che consolidiamo le memorie della veglia, per esempio), eppure, quando apriamo gli occhi e scopriamo che alcune di queste fantasie sono filtrate nel mondo dei desti, non ci soffermiamo quasi mai ad analizzarle. Le dimentichiamo con la stessa spontaneità con cui le concepiamo nottetempo.

 

A chi lo consiglio?

A chi ha acquisito almeno un B2 in inglese. A chi, sopratutto, si è chiesto cosa sia un sogno lucido e ha maturato abbastanza interesse da volerne testare gli euforici effetti in prima persona.

La lepisma libraia