[Recensione] “Le parole di luce” di Joanne Harris

Prima ci fu Il canto del ribelle. Poi fu il turno di The Testament of Loki (traduzione italiana tutt’ora avvolta nel mistero). Terzo per ordine cronologico (non di pubblicazione), Le parole segrete. Infine, il quarto e ultimo posto in fila lo troviamo occupato da Le parole di luce, quest’oggi esposto sul vetrino perché la lepisma ne analizzi la cellulosa a livello molecolare. Con questo romanzo, l’uroboro si morde la coda e chiude la quadrilogia di scritti che Joanne Harris ha consacrato ai miti norreni. Come anticipato dalla Harris è molto probabile che il quadri diventerà penta, ma l’autrice non ha rilasciato alcuna coordinata temporale entro la quale aspettare l’uscita in sala di un quinto volume. Nel frattempo, perciò, godiamoci i piatti che son già in tavola.

Si avvisano i gentili lettori che questa recensione contiene spoiler sulla trama del libro prequel Le parole segrete. Se il titolo non figura tra le vostre letture pregresse, procedendo a scrollare questo articolo vi assumete per silenzio assenso ogni responsabilità del vostro gesto scellerato. Alla lepisma potrete rinfacciare solo di non avervi cacciati con più solerzia.

Titolo: Le parole di luce
Autore: Joanne Harris
Genere: fantasy/young adult
Editore: Garzanti Libri
Pagine: 593

Maddy e Maggie hanno la stessa età, ma non potrebbero essere più diverse. Maddy è coraggiosa e ribelle; Maggie, invece, ama le regole e la disciplina. La sua passione sono i libri antichi. E solo immersa tra quelle pagine che riesce a non sentirsi sola. Eppure c’è qualcosa di misterioso che unisce le due ragazze nel profondo. Un marchio sulla loro pelle: una runa. Un simbolo considerato da tutti una maledizione, un flagello. Perché nel mondo dove vivono Maddy e Maggie la magia è proibita. Giocare è vietato. E sognare è considerato il più terribile dei peccati.

Ma c’è qualcuno che non ha paura di quel segno antico. Adam, un sorriso che toglie il fiato e due occhi azzurri impenetrabili dietro cui si nasconde un oscuro passato. All’inizio Maggie cerca di allontanarlo, ma poi non riesce a resistere alla forza sconosciuta che la attira verso di lui: il ragazzo è l’unico a conoscere il segreto scritto nella runa. Un segreto che parla di lei, delle sue origini e della scomparsa della sua famiglia. Un segreto che custodisce una minacciosa profezia che sta per compiersi: il loro mondo e il loro amore sono in pericolo. Maggie è la sola in grado di difenderli. Ma per farlo deve essere pronta ad accettare il suo destino. Un destino che la lega in modo indissolubile a Maddy. Le due ragazze hanno bisogno l’una dell’altra. Finalmente sono vicine come non mai, ma allo stesso tempo inesorabilmente lontane.


Le parole di luce: la recensione

Le parole segrete ci ha abbandonati su una fulminante rivelazione: Maddy è Móði, progenie profetizzata di Thor. Nell’assestare qualche pacca consolatrice a un dio del Tuono derubato degli eredi maschi (ma in corso d’opera avrà tutte le ragioni per inorgoglirsi anche di una figlia femmina), passiamo in rassegna i nuovi volti dei vecchi dèi.

C’è chi è stato tutto sommato fortunato, come Thor nelle sembianze del nerboruto Dorian Scattergood, e chi non può che grufolare e manifestare a incomprensibili grugniti la propria indignazione come la permalosissima Sif nelle rotondità adipose del corpo di una scrofa. Sembra che gli dèi – con diversi gradi di apprezzamento – siano scesi a patti con i loro aspetti e conducano una vita tutto sommato regolare nella Malbry del mondo di sopra.

Il mondo di sopra, tuttavia, non soddisfa le loro divine aspirazioni. Dal giorno della caduta gli dèi mirano con nostalgia alla loro casa nel cielo, ora cumulo di rovine. La loro vita ha imboccato un binario che scorre in un deserto dove rotolano le palle di salsola e gli dèi si sono rassegnati a rimanere infognati in corpi che non sono i loro, in esistenze terrene che non sono state tagliate per loro. Non c’è speranza di smettere i cenci del Popolo per calarsi di nuovo nella seta asgardiana.

Ma ecco, tra capo e collo, l’imprevisto: l’orizzonte uniforme si spezza in un tracciato che si snoda in un bivio. A tirar dritto sul binario monco davanti a voi abbraccerete l’impatto con un paraurti di adamantio. L’altro tracciato, in rotta di avvicinamento alla stessa velocità dei vostri iperturbati pensieri, si incurva e si fonde in lontananza con l’estremità di un arcobaleno e già sapete, memori dei tempi d’oro che furono, quali meraviglie vi aspettano dall’altra parte del ponte a semicerchio. Per esserne testimoni, tuttavia, dovete prima deviare dalla traiettoria di morte che state cavalcando a velocità ultrasonica.

Il deviatoio si chiama soluzione della profezia appena formulata e sta a voi ricomporre il puzzle per dirottare il convoglio verso la Asgard 2.0. A complicare le cose, però, vi insegue dappresso un brigante apparso da chissà dove in sella a un dromedario. Non solo l’animale tiene testa al treno, ma con le zampe sparge mangiate di sabbia per aria che vi ostacolano la visuale. Oltretutto, in quello che vi riesce di intravedere nella nuvola di granelli vorticanti, vi sembra che questo brigante abbia degli occhi inquietantemente famigliari.

Questo brigante si chiama Maggie e nessuna opera di proselitismo varrà a farlo desistere dal suo obiettivo: impedirvi di girare al crocevia.


Qualcuno tappi la bocca a quell’oracolo!

“Vedo un possente Frassino accanto a una Quercia possente.
Vedo alto un Arcobaleno, eredità d’ingannevole Morte.
Ma Tradimento e Massacro con Follia volano in cielo
e quando si romperà l’arco, allora la Culla cadrà
e poi la Quercia e il Frassino, tutto cascherà.

La Culla cadde un’era fa, ma sorgerà da Popolo e Fuoco
in dodici giorni, alla Fine dei Mondi; un dono nel sepolcro.
Ma la chiave del cancello è figlia dell’odio, figlia di entrambi e nessuno.
E nulla di sognato è mai perduto, e nulla perduto per sempre.”

Fedele all’impostazione del mito da cui trae ispirazione, la trama de Le parole di luce, come Le parole segrete prima di esso, ruota attorno al contenuto di una nuova profezia. Il concetto di predestinazione, d’altronde, condiziona tutti i racconti del mito norreno: ne è il filo conduttore, è la certezza della caduta da cui non ti puoi sottrarre. L’Edda poetica stessa esordisce con la profezia detta Vǫluspá dove si narra della creazione del mondo e del ciclo di vita e di morte potenzialmente infinito a cui sarà sottoposto (Ragnarǫk).

Se ti chiami Odino, ad esempio, sai già che l’ultimo alito di vita lo esalerai infilzato tra le zanne bavose del lupo figlio di tuo fratello, e che quel bastardo e infingardo di tuo fratello ingaggerà battaglia con Heimdallr, e che i due si stroncheranno la vita a vicenda in un’apocalisse globale alla quale sopravviverà solo il ramo più giovane dell’albero genealogico divino. Già sai tu, vecchio guercio sotto al cappello a tesa larga, che sarai estromesso dal mondo che rinascerà dalle ceneri di Asgard. Le profezie sono ineluttabili. Non ci sono finali alternativi a quello predetto, né sotterfugi che tu possa escogitare affinché il destino prescritto rimanga solo il delirio psicotico di una cariatide un po’ matta (Vǫlva). Ti metti l’anima in pace, punto.

Le parole di luce esordisce con una profezia dall’impostazione molto simile: il mondo come lo conosciamo cadrà, ma risorgerà dalle proprie rovine. Non lo farà tuttavia da solo, in autonomia, gli servirà una mano che lo tiri su dall’alto. Ai nostri protagonisti decifrare il contenuto e capire cosa fare perché si avveri.

Insomma: la vecchia Asgard è andata perduta, ora è tempo di rilasciare una nuova versione della cittadella celeste che sia corretta da tutti i bug e, soprattutto, inespugnabile da qualsiasi malware dei Nove Mondi. E si sa che il fiume Sogno abbonda di materiali da costruzione… forse questa leva di scambio è più a portata di mano di quanto si pensi.


Io, francamente, continuo a capirci poco

Questi libri della Harris parlano di sogni e a trascrizioni oniriche assomigliano: in loro è assente qualsiasi senso di consequenzialità, al pubblico passivo stimolano l’innalzamento di un sopracciglio confuso mentre la trama procede a tre passi avanti e due indietro. L’impianto de Le parole di luce, come anche degli altri volumi di questa serie, tenta più volte il colpo di scena con la tecnica reiterata del “detto dopo”. Ci sono scrittori che della slealtà moderata fanno una virtù; altri, come la Harris, che sembrano non avere il senso della misura per fermarsi prima di esagerare e stancare il lettore a suon di rivelazioni.

In spiccioli: i colpi di scena colpiscono se sono pochi. Per dirla con una deriva dialettale di queste parti, i colpi di scena della Harris mi hanno sgionfato (dialettale per stufato).


Ricicliamo la carta, non i cattivi

E mi ha sgionfato anche il cattivo. Non puoi proporre lo stesso identico antagonista in tre libri su quattro, Joanne! Persino la Rowling, col suo villain potenzialmente immortale, non è arrivata a tanto!

No, Maggie non è l’antagonista. Di ciò che posso svelare di lei senza incorrere in spoiler parlerò nel paragrafo successivo, ma per ora lasciatemi mettere nero su bianco questo enunciato: Maggie non è il cattivo. Maggie è solo una pedina, una ragazzina turlupinata e sedotta da belle parole e false promesse infiocchettate con nastrini di raso. Il vero nemico, invece, è qualcuno che conosciamo fin troppo bene. Ne Le parole di luce ritroviamo dunque l’atmosfera da Fine dei Mondi con gli dèi che devono (ri)salvare l’universo dallo stesso cattivo che l’ha già minacciato l’altra volta.

E che barba, che barba, che noia… ma neanche la cricca di Jurassic Park, d’altronde, ha capito che il fascino del T-Rex è inversamente proporzionale al numero di volte che lo porti su schermo.


Maggie, stupidotta Maggie

La star decaduta de Le parole di luce è Maggie, coetanea di Maddie. È chiaro fin dalle prime pagine che Maddie deve aver fatto un uso migliore di Maggie dei nutrienti nel liquido amniotico, perché fra loro due c’è una netta disparità di materia grigia.

Maggie è una pecora smarrita, una pecorella nata fuori dal recinto. Anziché raggiungere il gregge che la chiama a grandi belati dall’interno della staccionata, Maggie preferisce spassarsela con Amico Lupo. Chi le darebbe torto, d’altronde? Le pecore nel recinto brucano erba che cresce a stento mentre Amico Lupo torna ogni sera a vezzeggiarla con zuppiere di steli della migliore qualità. Le riempie la pancia senza chiedere altro in cambio, le permette di scaldarsi dormendogli accanto.

Nel sentirsi al centro dell’attenzione, trattata come neanche una regina, Maggie gira il codino a beneficio delle altre pecore e continua a mangiare a sbafo, mentre il lupo si lavora la bava in bocca e con l’olfatto della mente annusa l’arrostino d’agnello con patate nel quale, terminato il periodo d’ingrasso, Maggie si trasformerà.

Maggie nega l’evidenza dei maltrattamenti per continuare stolidamente a definirsi innamorata del suo carceriere. Un amore, il loro, che scocca non si sa bene da quale arco, un rapporto irrealistico impresso su carta per convenienza di trama e niente altro. Vado a pesca della metafora più zuccherosa e smancerosa del mio repertorio di galantuomo paragonando i tuoi occhi a stelle del firmamento e *boom*, fra noi ci si dichiara amore imperituro. Ma da quando?

Al di là del fatto che ogni parola di un libro andrebbe comunque valutata in funzione dell’importanza che ricopre nello sviluppo dell’intreccio narrativo (una buona attività di scrematura del superfluo che spesso viene ignorata e violata senza pudore), deve comunque percepirsi lo sforzo da parte dell’autore di coltivare relazioni tra personaggi che imitino le dinamiche sociali del mondo reale.

Maggie è clinicamente stupida, di quella forma di inverosimile stupidità che non posso soffrire.


Potpourri divino

Vale a dire una ciotola che raccoglie di tutto un po’. Al solito, di tutto l’assortimento di fiori secchi si salvano solo pochi petali: Odino, Loki e i corvi Huginn e Muninn (una piacevolissima entrata in scena, la loro; da soli, intrattengono il pubblico meglio di quanto faccia il cast principale con la sua trentina di personaggi). I personaggi de Le parole di luce sono ancora una volta monodimensionali, mere incarnazioni delle principali forze di natura. Perfino ai nemici degli Æsir manca la verve: non è un buon cattivo colui che non dà l’aria di poter gettare più di un sassolino a intralciare l’ascesa del protagonista.


Quell’OOC che mi è sempre rimasto in gola

C’è poi un piccolo quanto fastidioso problema che avevo già ravvisato ai tempi della recensione de Il canto del ribelle e che voglio dare in pasto al responso del web una volta per tutte: nei romanzi della Harris, la relazione tra Loki e Sigyn è terribilmente OOC (dall’inglese Out Of Character, carattere non fedele a quello canon). Sarà che in queste settimane sto procedendo a una rispolverata dei vecchi episodi di Vikings, sarà che c’è una certa scena che mi si è marchiata a fuoco nelle retine, sarà che ho letto il libro con questa nuova consapevolezza… insomma, un’immagine vale più di mille parole e quella determinata scena a me è rimasta impressa come “rappresentazione ultima della fedeltà coniugale”. Ma procediamo per gradi a raccontare ciò che accade nel mito norreno.

Loki uccide Baldr. Viene condannato a scontare una pena esemplare: legato a una roccia dalle budella dei suoi figli uccisi per mano degli altri dèi, scandirà l’eternità contando le gocce di veleno che stillano dalle zanne di un serpente appeso sopra la sua testa. La moglie Sigyn arriverà in suo soccorso, le braccia tese verso l’alto a raccogliere il veleno in una ciotola. Goccia dopo goccia, la ciotola finirà tuttavia per riempirsi fino all’orlo: arriverà il momento in cui Sigyn sarà costretta ad allontanarsi per andarla a svuotare. In quei secondi infiniti, gocce di veleno saranno libere di conciare il viso di Loki come una fetta di Leerdammer. Questo, secondo i vichinghi, scatenava i terremoti (e scusateli, ai loro tempi non c’erano facoltà di Geologia a cui iscriversi).

Che conclusioni traiamo da questa punizione? Che gli dèi hanno voluto colpire Loki nel suo metaforico tallone: uccidendo i suoi figli e offrendo sua moglie (madre dei figli uccisi, tra l’altro) a un’eternità di afflizione. Ricaviamo che questo aneddoto del mito è stato concepito dal suo creatore come, appunto, “rappresentazione ultima della fedeltà coniugale”: Sigyn non abbandona il marito nemmeno quando avrebbe tutte le ragioni per farlo. Ricordo, infatti, che le leggi della società vichinga prevedevano il diritto al divorzio per entrambi i coniugi, e che il mito rispecchia la mentalità della gente di allora.

Il Loki de Le parole di luce se ne sbatte dei figli. In quanto alla moglie, vive la sua presenza con la stessa tolleranza che un misofobo riserva a un tizio che gli starnuta addosso. Che pena esemplare è se dei figli non ti importa un fico secco? Se voglio farti del male vado a colpire, giustamente, nelle aree dove so di farti un male boia. Non ti privo di qualcosa di cui so che non sentirai la mancanza. Capish, Joanne? Sono il dolore e il rancore, in ultima istanza, a trasformare il trickster caotico neutrale in una serpe vendicativa che aprirà le porte di Asgard alla progenie di Surtr, dettandone il destino di rovina.

OOC a parte, la sua interpretazione del personaggio è una di quelle che apprezzo di più. Il premio per la chiave di lettura più fedele a quella del mito, però, lo consegno senz’altro a Hilda Lewis. Nel suo racconto per bambini The Ship that Flew, infatti, riesce là dove Joanne Harris fallisce in quattro libri: inquadrare la figura di Loki con un solo scambio di battute. In quanto alla trilogia di Magnus Chase di Rick Riordan, sto ancora aspettando che la ferita lasciata aperta si rimargini…

E con questo mi son tolta il proverbiale – e pedante, ne sono conscia – sassolino dalla scarpa.


Non brutto, ma neanche bello

È probabile che i paragrafi precedenti suscitino l’idea che Le parole di luce non mi sia piaciuto. Mi è piaciuto, ma meno di quanto avrei voluto che mi piacesse. Ci sono scelte di intreccio e stilistiche che continuo a non condividere. Ci sono personaggi che son macchiette di latte su un foglio bianco e altri personaggi ancora che risaltano scarlatti come un bindi indiano sulla fronte. Fra le tante cose ho apprezzato, oltre ai già sopracitati Huginn e Muninn, il finale che ammicca al ciclo perpetuo di vita e morte, di inizio e di fine, espansione e riduzione, ma è poca cosa in relazione a un tomo da 600 pagine.

Il canto del ribelle si conquista la medaglia d’oro aggiudicandosi il premio per il libro più strutturato dei quattro. D’altronde, l’impalcatura era già quella pronta e prefabbricata del mito norreno: la Harris si è limitata al ruolo di tappabuchi ricoprendo lo scheletro con frattazzo e cazzuola.


Per concludere

Le parole di luce è criptico ma intrattiene quanto basta per invogliare a raggiungerne la fine. È una storia sul perseguire ciò che è giusto, che spesso non coincide con ciò che è facile, un racconto sul senso di appartenenza alla propria famiglia. La lezione più importante che se ne trae? Diffidate degli incantatori dalle bocche di rosa: hanno la mente di una serpe.

Stellina per recensioni.
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La lepisma libraia

[Recensione] “Le parole segrete” di Joanne Harris

Copertina de Le parole segrete.

Primo a essere pubblicato e terzo per ordine cronologico della serie Runemarks, Le parole segrete è un regalo di Joanne Harris agli estimatori dei miti norreni. La profezia del Ragnarok come raccontata dall’Edda si è avverata, la battaglia fra titani si è conclusa. Ma che ne è dei semi che attendono di sbocciare sotto alle macerie del vecchio mondo? Lo scenario post-Ragnarok è un territorio che nel mito è rimasto inesplorato: alla penna sagace della Harris l’incarico di elaborare una possibile evoluzione degli eventi.

Titolo: Le parole segrete
Autore: Joanne Harris
Genere: fantasy/young adult
Editore: Garzanti Libri
Pagine: 516

Nel villaggio di Malbry non è facile essere giovani e coltivare i propri sogni. Le regole e la disciplina la fanno da padroni; i giochi e gli incantesimi sono stati proibiti. Eppure Maddy non ha mai smesso di credere nel potere dei sogni e della magia. Lei è diversa da tutti: è ribelle, curiosa, testarda, e sulla mano ha il marchio di una runa. Per molti si tratta di un segno maledetto, ma non per il Guercio, il misterioso straniero che racconta storie affascinanti, l’unico amico che Maddy abbia mai avuto.

È lui a svelarle il misterioso linguaggio delle rune e a introdurla in quell’universo proibito e vietato dove sono nascosti gli incantesimi, la conoscenza e il segreto delle sue origini. Mentre il futuro inciso sulla sua mano si avvicina giorno dopo giorno, una terribile catastrofe minaccia di distruggere per sempre quel mondo perduto. Maddy è l’unica in grado di salvarlo: sarà un’avventura appassionante, una corsa contro il tempo, una guerra contro nemici dai poteri oscuri.


Le parole segrete: la recensione

C’erano una volta gli antichi dèi: ambiziosi, vanitosi, rancorosi, polemici, umani. E c’erano una volta le rune: simboli da incidere su pietra, un linguaggio tramite il quale manipolare la realtà. Adesso c’è solo l’Ordine, setta religiosa figlia del rigore e nemica di tutto ciò che è stato, e un Popolo derubato del libero arbitrio e della possibilità di sognare.

I dettami dell’Ordine in uso nella Città Universale prevedono che i nati col segno passino dall’accogliente calore del ventre materno a quello acre e rovente di un fascio di legname che lambisce e brucia le caviglie. Maddy deve ritenersi fortunata. Nascere col marchio di una runa nel remoto e rurale villaggio di Malbry, teatro di scena de Le parole segrete e dove l’ascendente dell’Ordine si esaurisce nei lugubri e moralistici sermoni del canonico di provincia, garantisce al più un futuro da emarginati sociali. Il marchio si trasforma, allora, in un bersaglio verso cui lanciare frecciatine verbali.

Maddy però fa spallucce. Come le insegna il suo unico amico e mentore, il vecchio Guercio, attraverso il marchio sul palmo le è dato vedere oltre il visibile, fare oltre il possibile. Nei tre solchi che compongono la runa Askr si nascondono formidabili capacità da coltivare: Maddy può padroneggiare le rune del vecchio alfabeto. Può, in breve, esercitare la magia. Le angherie del bulletto del quartiere non sono che un mite prezzo da pagare, perché alle frecciatine degli altri ragazzini Maddy ha il potenziale di rispondere con un autentico arsenale di dardi e fuochi d’artificio. D’altronde, la sua nascita è stata profetizzata mezzo millennio prima che lei venisse al mondo, e si sa che Odino il Guercio, ora una pallida ombra del dio che era, non si intrattiene coi bambini per il puro piacere di fare conversazione…


Quando i lupi sono i pastori

Le parole segrete si ambienta cinquecento anni dopo il cataclisma della Fine del Mondo e dopo gli eventi di The Testament of Loki (data di uscita della traduzione italiana ancora da destinarsi). Fra le sue pagine ritroviamo, anche se non così esplicitamente come in American Gods di Neil Gaiman, il leitmotiv della divinità spedita in panchina a suon di calci nel sedere.

Fiaccati dalla guerra ineluttabile del Ragnarok, gli antichi dèi assistono al lento disfacimento del loro mito: fiamme che accartocciano leggende vergate su carta, chiese che sorgono là dove prima si ergevano monumenti istoriati di rune, l’analfabetismo che viene lasciato libero di dilagare e sedare le masse perché solo a pochi eletti sia accordato il privilegio di interpretare e diffondere il verbo del Libro del Bene. Sarà lo stesso Guercio a insegnare a Maddy come estrarre il significato dai testi, perché solo agli uomini di fede è dato saper leggere la Parola dell’Innominato.

In una società dove nulla viene lasciato all’improvvisazione, qualsiasi indizio di una rinascita degli antichi dèi deve essere neutralizzato, perché solo così l’Ordine potrà continuare a prevalere sul Caos e ad assicurare a tutti i suoi proseliti un’esistenza monotona, grigia e miseranda. Ma le profezie non mentono né si possono aggirare: dopo il Ragnarok è prevista la nascita di nuove rune e nuove divinità, e così sarà.


Dalle alla strega!

Quando l’ormai adolescente Maddy, per mezzo di un incantesimo malriuscito, risveglia entità che minacciano di sconvolgere l’equilibrio dei Nove Mondi, gli inquisitori della Città Universale drizzano le orecchie e si lanciano al suo inseguimento. È una ragazza sola, la placcheranno nel suo nascondiglio sottoterra come una muta di cani che sventri la tana di una lepre. Maddy però non è sola, anzi: dopo uno screzio iniziale, troverà nel recalcitrante Burlone un valido alleato con cui fare fronte comune contro l’orda in arrivo. Insieme a lui e all’entità che il Guercio definisce il Sussurro, l’oracolo che al tempo predisse l’avvento del Ragnarok, Maddy porterà un bel po’ di Disordine & Parapiglia in quel di Malbry e dintorni.

Chi meglio di un figlio del Caos come Loki può destabilizzare l’Ordine costituito? Soprattutto, pensa Maddy, che valenza dare alle sue promesse? Ma non ha scelta, i Mondi sono stati scossi nelle loro fondamenta: se vuole sopravvivere e salvarli tutti, deve necessariamente fidarsi del traditore degli Æsir.


Dèi, quanti dèi!

Joanne Harris ha riversato ne Le parole segrete la sua interpretazione del futuro post-Ragnarok. Vanir e Æsir, all’appello della sua penna rispondono proprio tutti, con Odino e Loki a cui tocca alzare il braccio con una frequenza più elevata degli altri. Non che mi dispiaccia, affatto: sono i miei preferiti fra tutto il pantheon norreno e non avrò mai letto abbastanza delle loro rivisitazioni. Ma l’esistenza di un carattere dominante implica anche l’esistenza di un carattere recessivo, ed è nella caratterizzazione dei personaggi di contorno che la Harris si dimostra debolina. Gli dèi son troppi, dare a ognuno una voce personale è un’impresa disperata. Odino e Loki spiccano, insomma, in una cacofonia di voci l’una uguale all’altra.

Alla loro cricca, però, risulta facile affezionarsi. Credo sia questo il motivo per cui la Harris ha deciso di incentrare il romanzo su di loro spingendo gli altri dèi lontano dai coni di luce. Maddy e Loki sono personaggi che funzionano perché in sintonia con il target di lettori adolescenti a cui il libro è rivolto. Si empatizza presto con il loro spirito sovversivo e il loro stato sociale di reietti.


Nel 2019, la situazione non è migliorata

Diventa così più che naturale lanciare occhiate truci all’autorità suprema che impartisce ordini dall’alto di una sovranità per la quale nessuno dei sudditi ha votato. Ed è emblematico che sia proprio una figura femminile, Maddy, a turbare le acque stantie di questa società patriarcale che rifiuta l’idea di una donna intelligente. Alle donne si addice l’obbedienza cieca, le loro mani servono a stringere mestoli e rimestare brodaglie. Qualsiasi altra pulsione è un abominio del demonio e come tale va estirpato alla radice. Nel mondo di Maddy, l’arguzia è un disonore.

La Harris ci dà un pasto, insomma, degli antieroi facili da amare e dei cattivi fin troppo facili da odiare. In corso di lettura, con l’Ordine che si delinea nella sua intransigenza e intolleranza del libero arbitrio, viene anche spontaneo tracciare similitudini con la Chiesa del Medioevo. In una sua intervista Joanne Harris nega di aver concepito l’Ordine de Le parole segrete come una versione mitizzata del Cristianesimo, ma ribadisce la sua avversione per i dogmi portati all’estremo. L’Ordine, in tal senso, si configurerebbe come l’archetipo delle fedi religiose più estremiste che esercitano il controllo sulle masse sfruttando il concetto di peccato come deterrente alla ribellione. Cristiani mitizzati o meno, io a questi inquisitori darei volentieri qualche sventola da bloccargli la cervicale.


Quei fastidiosi elenchi del telefono

Ora passiamo a ciò che davvero non mi è piaciuto, cioè lo stile. Sebbene della cifra stilistica “raccontata” della Harris abbia già disquisito altrove, non credo di essermi mai soffermata sulla sua tendenza a elencare lunghe serie di sinonimi in luogo di descrizioni più pensate ed efficaci. Cito:

“[…] un palazzo bianco come un osso a cavalcioni sul deserto, guglie e torri e doccioni e minareti e affioramenti scheletrici di architettura gotica e neogotica con archi rampanti e gigli e file di vescovi, preti, Inquisitori, cardinali, sciamani, mistici, profeti, stregoni, indovini, Magistri, redentori, semi-dèi e papi allineati nelle loro nicchie lungo la facciata.”

“[…] era imponente: lunghi passaggi bianchi di freddo alabastro, tendaggi d’avorio, volte intricate, arazzi sbiaditi quasi fino a essere trasparenti, e colonne scanalate di vetro delicato. Passarono attraverso corridoi di pietra silenziosi, attraverso stanze con specchiere pallide come il ghiaccio, attraverso camere nelle quali principesse morte ballavano il valzer da sole, attraverso cappelle funerarie e vestiboli deserti ammorbiditi dalla polvere.”

“Maddy questo già lo sapeva, ovvio. Gli insegnamenti del Guercio erano stati minuziosi su tutte le questioni concernenti la geografia dei Nove Mondi. Ma ciò che lei non aveva sospettato era la dimensione mostruosa del Mondo Sotterraneo: gli innumerevoli passaggi, i tunnel, le alcove e le tane che formavano la parte inferiore della Collina. C’erano fosse tettoniche e fenditure e crepe e recessi, rifugi e covi, passaggi laterali, magazzini, varchi e cavità, cunicoli e labirinti e dispense e pozzi.”


Punto di vista ballerino

Il punto di vista non è sempre coerente, perché nell’arco di una frase passa spesso dalla prospettiva limitata del personaggio a quella dello scrittore onnisciente:

“[Loki] Pronunciò una formula, lanciò Kaen e Raedo e, se ci fosse stato un testimone, si sarebbe sorpreso di vedere il giovane con le labbra piene di cicatrici e l’espressione tormentata ridursi, rimpicciolirsi, togliersi i vestiti e diventare un piccolo uccello da preda marrone che si guardò attorno per qualche istante con occhi vispi, non da uccello, prima di prendere il volo, facendo il giro della Collina due volte in un arco che si allargava, librandosi nelle correnti ascensionali e poi via verso i Sette Dormienti.”

Lo ammetto, ero lì lì per chiudere il libro a un centinaio di pagine dall’inizio. Non mi pento di aver resistito alla tentazione: Le parole segrete si è rivelato un’interessante lettura, un passatempo con cui scandire le ore morte della sera. Non mi sento di consigliare il romanzo, però, a chi non ha familiarità con i miti norreni.

C’è troppa carne sul fuoco, troppi personaggi che son macchiette sullo sfondo. Non siamo agli albori del tempo de Il canto del ribelle dove a tutto viene data la spiegazione. La Harris dà per scontato che il lettore si approcci al romanzo con una conoscenza pregressa del mito, escludendo, o rischiando di trarre in confusione, il saltuario lettore di fantasy che si avvicina per semplice curiosità. Non aiuta nemmeno la trama contorta che è marchio di fabbrica di questa serie di romanzi. Le parole segrete ricerca spasmodicamente il colpo di scena e sulle battute finali risulta addirittura prevedibile.


Per concludere

Le parole segrete è un romanzo carino ma non divino, un’impressione condivisa con i due romanzi prequel (Il canto del ribelle e The Testament of Loki). Loki, come sempre, favoloso e sfavillante. Gli veste bene il ruolo di Capitano dei goblin: da un paio di giorni c’ho un earworm che mi intona in testa Dance magic, dance! a ciclo perpetuo…

Stellina per recensioni.
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Mezza stellina.

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[Recensione] “Salvare le ossa” di Jesmyn Ward

Copertina di Salvare le ossa.

Nel 2012 usciva Re della terra selvaggia. Reclamizzato come film fantasy sui palinsesti cinematografici italiani, è stato trattenuto fuori dal cono di luce dei riflettori. Ha dunque fatto una comparsata sulle reti televisive, qualche anno più tardi, riscuotendo un modesto indice di ascolto. Se rientrate nella percentuale che finora se lo è fatto scappare, l’ovvio consiglio è di colmare la lacuna. In caso contrario, lascio a voi il piacere di scovare le differenze e i parallelismi con Salvare le ossa di Jesmyn Ward.

Titolo: Salvare le ossa. Trilogia di Bois Sauvage. Vol. 1
Autore: Jesmyn Ward
Traduttore: Monica Pareschi
Genere: drammatico/young adult
Editore: NN Editore
Pagine: 316

Un uragano minaccia la città di Bois Sauvage, Mississippi. Esch ha quattordici anni ed è incinta; suo fratello Skeetah ruba avanzi di cibo per i cuccioli di pitbull che stanno morendo nella polvere, mentre Randall e Junior cercano di farsi valere in una famiglia che sembra non conoscere la solidarietà. Nei dodici giorni che precedono l’arrivo devastante dell’uragano Katrina, i quattro fratelli orfani di madre si sacrificano l’uno per l’altro come possono. Uno sguardo potente e straziante sulla povertà rurale, Salvare le ossa è un romanzo rivelatore e reale, innervato di poesia.


Salvare le ossa: la recensione

Salvare le ossa, libro primo della trilogia di Bois Sauvage, è un ritratto sulla violenza dipinto a tonalità d’amore.

La prima pennellata di Jesmyn Ward è bianca come il pelo porcellana di China, una femmina di pitbull in procinto di partorire sul pavimento sporco di una baracca. Sotto allo sguardo attento del suo padrone, il sedicenne Skeetah, e a quello del punto di vista narrante Esch, China sforna una cucciolata di futuri guerrieri. Il suo amore verso i piccoli sarà quello inaridito e incostante di chi ha disimparato l’istintivo affetto materno sostituendolo con l’impulso omicida dei cani da combattimento.

L’amore tra Skeetah e China, invece, fluisce costante, puro e spiritualmente illimitato. Skeetah sta al suo cane come Laira Belacqua sta al suo daimon: due anime distinte ma interdipendenti, testa e coda della stessa moneta. Impegnati a disconoscere il resto del mondo al di là del perimetro dei reciproci abbracci, non sanno di essere oggetto di malinconica invidia.

Alla sorella Esch, che ama, e al coetaneo Manny che non corrisponde, si sovrappone infatti la tragedia greca di Medea e degli Argonauti. Vestendo i panni sporchi di un moderno Giasone, Manny volta le spalle e declina qualsiasi paternità verso il figlio che Esch scopre di portare dietro agli spigoli smussati di un corpo dalla femminilità acerba. Esch è stata costretta a crescere come un virgulto solitario, esile ma corazzato di spine, in un mondo degradato che sembra tagliato apposta per l’irruenza maschile. Orfana di madre, il cui amore incorporeo è una presenza costante che aleggia nella sua mente in forma di buoni consigli e nostalgici ricordi d’infanzia, Esch dovrà scendere a patti con la nuova rotondità del suo ventre. Per questo identificherà in China, anche lei madre inesperta, una guida da cui imparare il significato di maternità.


Le altre tonalità d’amore

Randall, coi suoi diciassette anni, è il maggiore dei fratelli. In uno scenario in cui i più scialacquano i loro giorni in una mera lotta per la sopravvivenza, lui palleggia per il campo da basket e punta in alto, nel gioco come nella vita vera: ogni lancio che attraversa il canestro segna un passo in più verso il college e la fondamentale borsa di studio per frequentarlo. Figlio non modello, ma l’unico addomesticabile e vagamente addomesticato in un branco di belve con le orecchie retratte.

Amore infantile e a tratti asfissiante è quello che Junior, sette anni appena, nutre per i suoi fratelli più grandi. Se non è andato a infilarsi nei cunicoli fangosi sotto alle fondamenta di casa, si può star certi di trovarlo nel raggio d’azione delle braccia di Randall. D’altronde è lui la sua figura di riferimento, il faro all’orizzonte del mare aperto, il destinatario di imprinting. Il surrogato dell’amore paterno di cui lui non ha mai beneficiato e di cui i suoi fratelli sono stati privati. L’amore di madre ha raggiunto il picco alla sua nascita per poi spegnersi nel sacrificio per eccellenza: la donna che baratta la propria vita per quella del figlio.

Perfino dopo queste premesse, Ward è ben lungi dall’aver esaurito gli spazi vuoti sulla tela. E sulla tavolozza rimane ancora una varietà d’amore da miscelare, l’ultima: l’amore di un padre che affoga la vedovanza nell’oblio della birra. Il suo cuore, come quello indurito di China, è mal funzionante. Atrofizzato dal dolore e dalla solitudine della perdita, difetta di energie per interessarsi davvero dei figli, eppure non ha perso il suo sesto senso.

Come la leonessa che fiuta il bracconiere ancora prima di vederne il fucile, il padre di Esch annusa per primo il pericolo nell’aria del Mississippi. Sprangate le finestre, ordina, fate incetta di acqua potabile e di carne in scatola. Consapevole di incorrere nel rischio di guadagnarsi l’appellativo di svitato di Bois Sauvage, attirerà a sé tutta la famiglia, o tenterà di farlo, in una disperata missione di rinforzo strutturale della casa. Perché?, chiedono i figli alzando il sopracciglio. Perché è in arrivo un uragano. Un’alzata di spalle, giovani occhi che ruotano spazientiti nelle orbite. Ne abbiamo avuti tanti, che vuoi che sia?

Di lì a un grappolo di giorni, quell’uragano sarà battezzato Katrina. E siamo a Bois Sauvage, in Mississippi, dove le calamità naturali non si consumano dietro lo schermo del televisore a migliaia di chilometri di distanza, ma infuriano appena al di là del vetro traballante di una finestra…


La distruzione ha nome di donna

China è l’incubo dei cani da arena. Sfila fra di loro con la corona in testa, al pari di Madre Natura che, con un ritmo fortuito e senza favoritismi, con un colpo di scettro ricorda a tutti chi comanda davvero. In quanto a Esch… dirò solo che avrà la sua occasione per sfoderare le unghie e non mancherà di sfruttarla a dovere. Nella comunità maschiocentrica di Bois Sauvage, insomma, la femminilità è distruzione.

Non a caso, Esch si serve di China e della mitica Medea, figure femminili passionali, violente e vendicative, come chiavi di interpretazione della squallida realtà che la circonda. Le ammira e al tempo stesso le teme, perché pensa inconsciamente di condividerne il destino. Come Hushpuppy, Esch interiorizza il mondo esterno in forma di immagini e simbolismi e si sente parte integrante di un universo che pulsa, vive e respira dal più infimo sasso al più maestoso elefante. C’è dunque un senso di predestinazione che vela la realtà come restituita dai suoi occhi di adolescente.

Ogni metafora che Ward verga sulla pagina è unidirezionale, tesa a profetizzare l’arrivo dell’entità distruttrice per antonomasia: l’aria è densa, stagnante e impregnata d’acqua, tanto che alla protagonista quanto al lettore pare quasi di respirare attraverso una garza. Il ritmo della vita nella Fossa, dove sorge la casa della famiglia di Esch, viene scandito, più che dal ticchettio degli orologi, da gocce di sudore che cadono a punteggiare la terra rossa sotto ai piedi. Delle comodità della vita dell’entroterra, poi, a Bois Sauvage non riesce a spingersi nemmeno l’eco, figurarsi uno smartphone con tutti i circuiti intatti. Non si chiama estate quella che non viene sconquassata da almeno un paio di tempeste tropicali. Flora e fauna devono imparare ad adattarsi e risollevarsi, pena l’estinzione, perché non c’è cementificazione che tenga alle forze primordiali della Terra.

In una comunità già provata dall’asocialità dei suoi componenti, la minaccia di Katrina, ancora giovane, ancora un afflato di vento all’orizzonte, viene sottovalutata e archiviata come l’ennesima seccatura che va a impilarsi su una risma di altre noie quotidiane. A lei e alla sua furia distruttrice, infatti, saranno dedicati solo due dei dodici capitoli del romanzo. Ma il destino, evocato da Esch attraverso i continui rimandi al mito e all’idea di una femminilità distruttrice, è deciso ad avverarsi. Profetiche, allora, si rivelano le parole del padre:

«L’uragano… finalmente ha un nome. È una donna, sono i peggiori. Katrina».

La dicotomia uomo/natura, o uomo/donna, è così capovolta: a Bois Sauvage è la seconda a dominare sul primo, e non viceversa.

La natura che delizia con la luce del sole e gli alberi da frutto è insomma la stessa che tira per strappare le mani aggrappate l’un l’altre. E, paradossalmente, finisce suo malgrado per agire come una forza unificatrice: le braccia incrociate e i musi lunghi si rilassano e si tendono a intercettare chi affiora dall’acqua a supplicare un aiuto. L’isolamento selettivo di ciascuno finisce dove si richiede la cooperazione straordinaria di tutti. Perché ci si possa appuntare sul petto la mostrina dei sopravvissuti; perché si possa volgere lo sguardo a un cielo che, nero da giorni, finalmente si schiarisce. O per salvare le ossa, almeno quelle.


Per concludere

La tragedia moderna e ricca di simbolismi di Salvare le ossa è la rara nuvola di pioggia in un deserto editoriale di trame riciclate e personaggi preconfezionati. Vai così, Jesmyn, che la tua penna sia un modello da cui trarre lezioni di stile.

Aggiornamento: è stato tradotto il sequel (che non ho letto), dal titolo Canta, spirito, canta. Qui la scheda del libro su Goodreads.

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La lepisma libraia

[Recensione] “The Testament of Loki” di Joanne Harris

The Testament of Loki (pubblicato in originale questo 17 maggio, titolo in italiano non ancora disponibile) prende il testimone de Il canto del ribelle, di cui trovate qui una recensione, e chiude la distanza che lo separa dal sequel Le parole segrete, pubblicato qualche anno fa. È, insomma, un sequel al prequel. E l’ho aspettato per mesi. Valsa è l’attesa? Leggete oltre per scoprirlo!

Titolo (inglese originale): The Testament of Loki
Autore: Joanne Harris
Genere: fantasy/young adult
Editore: Gollancz
Pagine: 320

Il Ragnarök è stato la Fine dei Mondi.
Asgard è caduta secoli or sono e gli antichi dèi sono stati sconfitti. Alcuni sono morti, altri sono stati affidati all’eterno tormento nel mondo dell’oltretomba. Fra di loro c’è Loki, l’ingannatore per antonomasia. Un dio che ha tradito ogni alleato e che ha comunque perso tutto, che è stato dimenticato con il passare del tempo. Nel mentre, il mondo degli umani ha volto l’attenzione verso altre fedi, nuovi idoli e nuove divinità…
Ora, però, la razza umana ha ripreso a sognare gli dèi norreni. Il fiume Sogno è a un tiro di schioppo dalla loro cupa prigione e Loki è il primo a fuggire verso questa nuova realtà.
Il primo, ma non l’unico. Altre e più oscure figure sono scappate insieme a lui, figure che mirano a distruggere tutto quello che lui desidera. Se vorrà reclamare ciò che è andato perduto, Loki avrà bisogno di alleati, di un piano e di un numero consistente di trucchetti…


The Testament of Loki: la recensione

Il Ragnarök ha raso al suolo quanto costruito dagli dèi in secoli di influenza. Nel purgatorio senza tempo dove tutti loro sono sprofondati, una bolla di non-esistenza sulla falsariga del limbo di Inception, Loki giace ancora una volta in catene insieme a un serpente – suo figlio Jormungandr, tanto per cambiare – e non può dire di averci fatto il callo. Così, nell’oscurità totale, trascorre il tempo – saranno giorni, mesi, secoli? – a sognare una luce in fondo al tunnel da cui ogni tanto si affacciano guizzi dei mondi esterni. Gli dèi norreni sono sopravvissuti, infatti, se non in carne e ossa, in concetti riportati in videogiochi e saggi letterari: La gente pensa, dunque gli dèi sono.

Quando Loki infine la intravede, questa luce più stabile delle altre, e la insegue, nulla gli dà da pensare che l’altro capo del varco possa risputarlo nello scenario renderizzato di un videogioco (Asgard™) e nella mente di una diciassettenne inglese dei giorni nostri


Violazione di domicilio biologico

Il quesito primo, nel venire a conoscenza, qualche mese fa, di questa nuova pubblicazione della Harris, è stato: che altro c’è da raccontare? Il canto del ribelle (che per me, disconoscendo la traduzione ufficiale, è e rimarrà sempre Il vangelo di Loki) ha calato il sipario sul Ragnarok, scavando nella miniera della mitologia norrena ed esaurendo la sua vena di materiale.

In The Testament of Loki, infatti, si abbandonano gli scenari eterei della città del cielo per scendere alla mondanità dell’adolescenza young-adult. Jumps, la nostra co-protagonista nonché ospite coatta della divinità summenzionata, conduce la tipica vita di una diciassettenne: casa, liceo, qualche attrito parentale e autostima sotto i piedi.

Loki si autoinvita nella sua coscienza alla vigilia di un esame di letteratura inglese e non pone tempo in mezzo per rivoltare la vita della ragazza come un calzino. Un completo restauro estetico qui, un prelievo di sangue alla carta di credito là… D’altronde, è il caos fatto persona: dove passa lui, l’uragano Katrina piega il ginocchio e alza bandiera bianca.


Il Libro delle Facce e l’inspiegabile ossessione per le decalcomanie

“Ah, questo è un cellulare. Che sono quelle finestrelle colorate? Uh, si chiamano… icone? E quello? Il libro delle Facce. Ehi, ho fame. Tu hai fame, cioè. Perché non andiamo a mangiare? Frigorifero. Oh, ma i pinguini sul tuo pigiama hanno un significato particolare? Mi continua a balenare in mente questa parola, frigorifero. Cos’è un frigorifero, me lo spieghi, Jumps? E perché nel tuo (nostro) catalogo mentale c’è questo teschio con ossa incrociate su ogni cosa etichettata come cibo?”

Diciamocelo, non è la più gradita delle presenze.

Secoli di sensazioni incorporee e alquanto sgradevoli lo hanno affamato al di là di qualsiasi possibilità di saziarsi. Già ne Il canto del ribelle abbiamo letto il suo punto di vista come quello di una persona affezionata ai piaceri della carne e dei sensi, e ora che il corpo di Jumps lo affaccia all’esplorazione di un nuovo ed entusiasmante mondo, il desidero di fare tutto e subito lo investe come l’impatto di una colata di cemento. Ma Jumps, la sua giovane ospite, non è esente da una rosa di problematiche personali e questo nuovo peso sul groppone rischia di spezzarle le caviglie…


Qua la zampa, Thor!

Loki pensa, dunque, di poter fare quello che gli pare. È sicuro di sedere al vagone di testa, di essere stato il primo, il più furbo, a rompere le catene del limbo. Ma non è così: da tempo non quantificabile, infatti, Odino ha già avuto modo di insediarsi fra le sinapsi di Evan, ragazzo coetaneo a Jumps a cui manca un occhio e forza nelle gambe (sembra proprio che Odino sia afflitto da una maledizione che gli impedisce di apprezzare il senso della vista in tre dimensioni). Anche Thor trova una sistemazione degna della sua caratura nella testa di un candido cagnolino. E a scuola, codazzi di adolescenti sbavanti seguono la scia di feromoni che Freya, la dea dell’amore di tempi andati, si diffonde alle spalle nel corpo di una delle ragazze più attraenti dell’istituto…

Insomma, vuole il caso che il nostro divino ingannatore sia atterrato in una cittadina ad alta densità di divinità norrene.

Raccolta di libri sulla mitologia norrena.
Alla lepisma piacciono i miti norreni. Si nota?

Un gatto che non è né morto né vivo

Quando Loki pensa di potersi dare alla pazza gioia assumendo (reclamando con la forza) il controllo del corpo di Jumps, Odino, incarnatosi in Evan, gli impartisce una lezioncina di fisica quantistica: occhio, dice, che noi in questo mondo siamo come il gatto di Schrödinger. Né morti né vivi, solo coinquilini abusivi di appartamenti che prima o poi saremo costretti a restituire per intero ai legittimi proprietari.

Ecco, allora, che Odino illustra il suo piano, non senza qualche opportuna omissione: insieme alla caduta del loro mondo si sono sgretolate anche le rune del potere di cui gli dèi erano detentori, ma una nuova profezia annuncia l’avvento di nuove rune. Queste nuove rune sono la chiave per la risurrezione completa degli dèi e della potenza di Asgard.

In sostanza: Posa quel gin tonic, Loki, ché mi serve il tuo aiuto. Le rune, però, sono artefatti magici potentissimi. Stuzzicano l’ambizione di molti, di Odino in primis. Di un’entità a lungo dimenticata, in secundis. E Loki è il sempiterno Caotico Neutrale che non si schiera da nessuna parte…


Loki, il narratore per eccellenza

The Testament of Loki ripropone gli stessi difetti de Il canto del ribelle: Joanne Harris preferisce la narrazione passiva, nella quale Loki/Jumps riporta i fatti in un tempo successivo al loro svolgimento e svela la rete di piani e macchinazioni quando siamo ormai in zona Cesarini.

Nelle giuste dosi, l’attesa della rivelazione è un espediente letterario da pollice in su se retto da uno stile coinvolgente, perché, come nei migliori romanzi gialli, alimenta la nostra curiosità e ci invoglia a voltare pagina. Se invece si tratta di tenere il lettore sulle spine, centellinando le spiegazioni da dargli al contagocce, per poi distribuirle con la parsimonia di Ebenezer Scrooge mentre noi stiamo qui sotto trepidanti, manco fossimo fan di Justin Bieber, col collo in aria e la bocca a pesce morto, che attendono lo sputo di infodump dal balcone… ecco, così diventa una fonte di frustrazione, perché ci sentiamo un po’ l’ultima ruota del carro.


Raccontare prima, spiegare dopo

Lo stile della Harris, insomma, si rivolge al lettore solo a cose compiute e gli parla per riassunti, al punto che i personaggi di sfondo sono poco più che sagome dai contorni sfocati. Disordini psicologici da far surriscaldare il cervello a fior fiori di specialisti si curano con la retorica da banco di Lucy van Pelt. Gli interessi amorosi sono resi tutti al raccontato, descritti come improvvisi colpi di fulmine che fanno deragliare il nostro protagonista fuori dai binari di caratterizzazione su cui siamo abituati vederlo scorrere. Sarà l’influenza dell’umanità di Jumps, sarà la condizione da mortale… questo Loki è disinibito e impulsivo, preda delle emozioni come non lo abbiamo mai visto, ed è un’emotività un pochino Out Of Character.

In ogni caso, la voce di Loki può esser salita di qualche ottava al di fuori, ma alle orecchie di noi lettori si ripresenta irriverente e grondante di ironia. Ho trovato appropriate le sue reazioni – affatto scioccate – nel prendere coscienza di stare abitando un corpo da doppio cromosoma Y, ed esilaranti le sue gaffe che paiono strizzare l’occhio all’ingenuità del Thor di Chris Hemsworth alle prese col mondo moderno. Ma questo è il Loki della mitologia norrena come Snorri lo ha tramandato e ci vuole molto più di un frigorifero per disorientarlo…

L’idea di partenza, in sintesi, è GENIALE ma sprecata. E non c’è nulla di più insoddisfacente della genialità sprecata!


Per concludere

È come una doppia porzione di gelato alla vaniglia: divori la prima metà come se non avessi mai mangiato, l’altra metà devi sforzarti di ingollarla meccanicamente perché non capisci più che sapore abbia e speri che finisca presto. Mezza stellina in più, per un totale di quattro, se l’ultima pagina non avesse messo il punto su un finale aperto dal retrogusto, spiace dirlo, di operazione commerciale.

Stellina per recensioni.
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Mezza stellina.

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[Recensione] “Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta” di Angelica Rubino

Copertina di Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta.

Primo preambolo: ringrazio di cuore Angelica Rubino, l’autrice di Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta, per avermi inviato una copia digitale di questo romanzo in cambio di una recensione onesta. Chi volesse fare richiesta di recensione può consultare questa pagina.

Secondo preambolo: spero abbiate trascorso delle buone feste e vi siate concessi una colossale scorpacciata di cioccolato, colomba e cannoncini. Che l’ago della bilancia sia con noi fino al prossimo Natale.

Terzo preambolo… stop ai preamboli, discutiamo del libro!

 

Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta.

Titolo: Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta
Autore: Angelica Rubino
Genere: fantasy per ragazzi
Editore: Apollo Edizioni
Pagine: 172

Britannia, anno 999. Il giovane Jeremy aspira a diventare un prestigiatore alla corte del re per sostentare la famiglia. Quando si presenta l’opportunità di accompagnare un cavaliere fino a Flourshing, centro nevralgico della monarchia, Jeremy si affretta a far fagotto e lascia il tranquillo villaggio natale di Adalama per inseguire nuovi orizzonti. Determinato a ottenere un ingaggio come giullare, Jeremy farà la conoscenza di molti personaggi e si ritroverà coinvolto in un’avventura imprevista che richiederà doti non comuni in un ragazzino della sua età. Re Deathproof, infatti, incarna i peggiori difetti dell’animo umano e cova intenti inquietanti: è alla ricerca del Melon, un manufatto celtico con proprietà in grado di conferire vita eterna. Quando allaccia un legame di amicizia con Kamila, la vera erede al trono ridotta in schiavitù dal re abusivo, lo spirito nobile di Jeremy non trova più requie: occorre ostacolare i piani di re Deathphoof a ogni costo.

Voto:

 

La recensione

Ambientato in una Britannia sospesa tra realtà e fantasia dove le fate si confondono tra la razza umana, Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta è un romanzo che condanna, con parole semplici e dirette, l’ingiustizia e la disuguaglianza sociale.

Il bienno 999-1000 è stato testimone della fervida immaginazione di stampo catastrofista della gente del Medioevo. Si temeva, infatti, che allo scoccare del secondo millennio una serie di calamità naturali avrebbe distrutto la Terra e annientato tutta la vita sulla sua superficie. In questo scenario dai toni apocalittici si muovono i nostri protagonisti: l’anziana nonna nonché fata in incognito Juliana, i due giovani fratelli Jeremy e Janeka, il cavaliere Sam, il tiranno re Deathproof, la gentile Kamila e la coccolatissima e viziatissima figlia del re, Cordelia (che fa rima con Crudelia De Mon – un nome, una garanzia).

Jeremy Jenkhins e il fiore della montagna perduta riesce a disporre sulla scacchiera delle pedine ben sagomate e subito classificabili per colore. In questo tavoliere quadrettato come nella vita vera, non manca la presenza di una zona grigia in cui schierare i personaggi ambigui e in bilico tra forze opposte.

Una menzione particolare va ai membri del popolo celtico. È confortante sapere che ci sia ancora qualcuno che non attribuisce la paternità di Halloween agli americani. Angelica Rubino integra le tradizioni celtiche conosciute con altre, come la leggenda del Melon, concepite di proprio pugno. Visto come simbolo di prosperità e immortalità, il melo era davvero un albero sacro nella loro cultura. Può darsi che l’assonanza sia una coincidenza, ma a me piace pensare che queste allusioni siano frutto di ricerche.

 

Tanta cultura celtica, troppe feste

La trama tende un po’ a deviare per le strade secondarie di eventi accessori quali feste di compleanno e di Halloween. Se anche ho apprezzato molto il lavoro di studio sulle tradizioni celtiche, non è a Ognissanti che è intitolato il romanzo. A tratti pare che i nostri eroi siano più impegnati a imbellettarsi e sistemarsi i canini posticci che a sventare i piani di quel despota di re Deathproof.

L’impressione, insomma, è che il romanzo manchi di struttura e che i capitoli siano stati scritti d’istinto senza l’ausilio di una scaletta a prevenire deragliamenti di intreccio.

Le situazioni conflittuali non vengono sfruttate a dovere. Nei primi capitoli assistiamo a un dialogo tra Jeremy e sua madre: lui ha le formiche ai piedi dal desiderio di partire per la corte del re, lei avanza un inutile tentativo di metterlo in guardia dall’abitudine del sovrano di decapitare i giullari che non incontrano i suoi gusti artistici. Ma Jeremy è irremovibile e pronto a scommetterci il collo.

Qual è stata la mia reazione immediata? Mi sono sfregata le mani in previsione di vedermi somministrare una massiccia dose di conflitto: ce la farà Jeremy a farsi assumere o perderà letteralmente la testa? Accidenti, che posta in gioco, ora voglio proprio vedere come si tira fuori dal ginepraio! A dispetto delle mie rosee aspettative, tutto questo potenziale si è dissipato in poche righe:

Ecco, adesso era il suo turno.
“Ce la puoi fare, Jer” pensò fra sé aspettando che il re lo chiamasse dinanzi a lui per farlo esibire. Quando accadde, sentì un vento gelido attraversare il suo corpo ed entrargli nel sangue.
«Hai bisogno di qualcosa maghetto?» rise Deathproof.
A lui quel riso non piacque e si sentì imbarazzato.
«Sì, mi servirebbe un mazzo di carte» rispose.
[…]
Jeremy prese due carte e le mostrò al pubblico, dopo di che invitò Cordelia a inserirle nel mazzo in posizioni diverse e distanti fra loro. Lei lo fece. A quel punto lui disse di essere in grado di ritrovare le due carte semplicemente lanciando il mazzo in aria e…ci riuscì. Cordelia applaudì divertita e Deathproof si alzò in piedi per rendere omaggio l’artista. Daron tirò fuori dal baule il costume da giullare.

Fin.

Il protagonista che ha vita difficile ci calamita al libro, mentre un romanzo privo di contrasti è la quintessenza della noia. Parola d’ordine: conflitto. In un vecchio manuale di scrittura (il cui titolo sta attualmente giocando a nascondino nell’archivio dati della mia memoria…) si consigliava di seguire il detto “dalla padella nella brace”. Elevare i pericoli al quadrato invece di estrarne la radice, non lesinare cattiverie ai danni dei personaggi. Facciamoli tribolare per ottenere il loro lieto fine! Cosa sarebbe successo se Jeremy avesse indovinato solo una delle due carte?

In ogni caso, la storia di fondo è ricca di spunti di riflessione. Possiamo interpretare l’abisso di benessere tra il popolino e il re, tra chi sta alla base e chi alla sommità della piramide sociale, come un riflesso delle moderne classi di chi governa e chi lavora, dell’uno che frega e del milione che viene fregato. Ne servirebbero, di Jeremy! Nonostante il romanzo intrecci elementi del filone fantasy, quali le fate, appunto, ad altri che affondano radici nella Storia del nostro mondo, la tematica che affronta è più attuale che mai: sul trono che spetterebbe all’animo virtuoso siede, molto più spesso, il corrotto fino al midollo che puntualmente è disposto a vendersi l’anima al diavolo pur di piantarci il sedere vita natural durante (e oltre).

 

Ma siamo davvero in Britannia?

Ci sono, purtroppo, alcuni particolari che stonano.

Nella Britannia di Jeremy, all’imbrunire del 999, esistono gli zainetti e i panciotti. Ci troviamo in un universo parallelo che ci ha preceduto di cinque secoli nell’invenzione dei panciotti? Non viene specificato.

Manca il supporto di una mappa, anche appena abbozzata. Le distanze si misurano in generiche settimane di viaggio, non in chilometri. Non si sa dove siano le immaginifiche Adalama e Flourshing (o Flourishing, entrambe le grafie sono utilizzate) rispetto a Londinium e il Tamesis, gli unici toponimi geograficamente collocabili.

Sono mancanze da strapparsi i capelli? Certo che no, ma sono sintomatiche di una scarsa cura nei dettagli. La riuscita di un romanzo fantasy dipende da questi dettagli a prescindere dal target di lettura: non è che se un romanzo è per ragazzi allora posso costruire un regno “campato per aria”.

Messo da parte il fascino della cultura celtica, rimane insomma il quadro di una worldbuilding dipinta con pennellate rozze, in una disarmonia di colori da imputare, forse, più all’uso sbadato dei termini di cui sopra che a contaminazioni anacronistiche.

 

A(f)fianco, “c’è l’avevi” e virgole birichine

È giunto il momento di commentare il tallone d’Achille del romanzo: lo stile. Sarà un viaggio irto di spine. Vi chiedo il permesso di sottrarvi qualche altro minuto del vostro tempo e di leggere i paragrafi seguenti fino alla fine, dove troverete… no, la priorità alla recensione vera e propria. Non sbirciate con fulminei scorrimenti di rotellina del mouse, ché la lepisma vi guarda.

Dunque… c’è da dire che, tolta qualche intrusione di punto di vista (quello che viene definito PDV “ballerino”), la penna di Angelica Rubino si lascia leggere con scioltezza. Non si inceppa, né si esibisce in ghirigori barocchi. Questi (ottimi) punti a favore non compensano, però, i suoi gravi difetti.

Gravi, sì, perché lo scrittore è l’ultima persona da cui potrei aspettarmi imprecisioni linguistiche. Se sui refusi sono disposta a soprassedere perché non esiste un vaccino contro le distrazioni, non posso – e non sarebbe corretto ai fini di una valutazione sincera – ignorare i numerosi errori di ortografia e il posizionamento arbitrario delle virgole.

Daron e Corr, erano affianco a lui e russavano, coprendo i suoi già flebili passi.

«E’ già, d’altro canto […]» disse lei facendo l’occhiolino.

«Auguri!» risposero in coro i ragazzi «non c’è l’avevi detto!»

«Figlio mio, tu sai bene che Deathproof decapita chiunque faccia esibizioni a lui, non gradite!».

[…] si sollevò su una gamba sola e li guardò come chi osserva un’animale per la prima volta.

 

Precisione, precisione e ancora precisione

La qualità dello stile è incostante: raramente descrive bene, spesso non descrive affatto, troppe volte si adagia sugli allori e ricicla le stesse espressioni linguistiche. Ancora peggio, questo stile racconta quando dovrebbe mostrare.

Persevererò nella predicazione della tecnica dello show, don’t tell finché avrò fiato: le scene cardine di un romanzo vanno mostrate, non raccontate. Sono troppo importanti per essere liquidate in una manciata di parole.

In quel momento Cordelia lanciò un urlo. Non di rabbia, stavolta, ma di dolore.
La diciassettenne abbassò le braccia e lanciò anche lei un grido. Quello che vide la spaventò enormemente: la cugina era stata colpita alle spalle da una freccia.

Raccontando, riassumendo, si privano i colpi di scena del giusto impatto.

Vorrei vedere Cordelia digrignare i denti, storcere la bocca, tremare nel tendere una mano verso l’asta piantata nella schiena. È attraverso le azioni concrete, e non le descrizioni astratte, che si caratterizzano i personaggi. Imboccare il lettore con la pappa pronta dicendo che tal personaggio si spaventa enormemente, invece di descrivere la paura come, che so, una sensazione di gelo nelle ossa o di un cuore che tenta di sfondare la cassa toracica, non sollecita alcun interesse né coinvolge il lettore emotivamente.

Questo è mostrare:

I loro volti erano ingialliti, pieni di pustole, i denti cariati, le ossa quasi fuoriuscivano dalla carne magrissima. Le case erano distrutte, dalle fontane usciva solo acqua sporca.

Questo no:

Il cavallo si trasformò diventando improvvisamente enorme.

Raccontare equivale ad annacquare una bottiglia di Barolo. Per scrivere bene, bisogna sforzarsi di essere precisi. Ma non sempre vale questa regola…

Annuì poi con la testa.

Questa precisazione è superflua perché si annuisce solo con la testa.

E il libro è tutto così.

 

Dulcis in fundo

Sapete qual è il colmo? Che nella prefazione al romanzo qualcuno di cui non voglio fare il nome abbia avuto la faccia di bronzo di lodarne lo stile. Questa, signori, non è professionalità. È una presa in giro nei confronti dell’autrice che nonostante la giovanissima età e i limiti dettati dall’inesperienza si è messa in gioco e con dedizione ha portato a termine un’impresa di cui c’è solo di che andare orgogliosi. Lo stile è immaturo? Sì. Sono presenti errori di grammatica? Cavolo, sì. Allora è un obbligo morale farglieli notare perché ne diventi cosciente e corregga il tiro in vista di lavori futuri. Mentire non è costruttivo.

 

Per concludere

Un’animale. C’è l’avevi. Daron e Corr, erano affianco a lui. Annuì con la testa. […] decapita chiunque faccia esibizioni a lui, non gradite.

Al rappresentante di Apollo Edizioni che si spertica in complimenti sullo stile (“Ogni parola, ogni punto e perfino ogni virgola è meditata e giustapposta […]” ) vorrei chiedere se il libro l’ha quantomeno sfogliato o se l’ha usato per assestare la gamba del tavolo.

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La lepisma libraia

 

“Valhalla” di Peter Madsen

Edizione islandese di Valhalla di Peter Madsen. (5 di 15 volumi)

Query di ricerca: Valhalla di Peter Madsen. Strumenti » Pagine in italiano. Ricarica. Chi provasse a battere queste parole sul motore di Google Italia si vedrebbe restituire una piana desertica, arida e inospitale dove ogni tanto rotolano salsole morte. Siccome la lepisma è del parere che il talento e il genio vadano diffusi a macchia d’olio, parlare di questo argomento diventa un dovere civico ancor prima che un piacere.

E l’argomento di oggi è Valhalla di Peter Madsen.

 

Cos’è Valhalla?

È una serie a fumetti danese che reinterpreta, in chiave comica ma sempre mantenendo una certa fedeltà all’originale, i miti norreni come presentati nelle Edde che sono sopravvissute fino ai giorni nostri. La raccolta, già conclusa, si compone di 15 numeri pubblicati in un ampio arco temporale che copre trent’anni, andando dal 1979, con l’uscita del primo albo dal titolo Ulven er løs, “Il lupo è libero”, al 2009, anno in cui l’ultimo volume, Vølvens syner, “Le visioni della veggente”, è approdato in libreria.

Evidente la parentela con l’oltramontano Asterix, da cui ha saccheggiato il formato da 50 pagine con albo rilegato in cartoncino rigido. La mano disegnante è però 100% appendice del braccio di Madsen, e se nel primo volume l’inesperienza della giovane età si concretizza in un tratto ancora un po’ immaturo ma già caratteristico, negli albi successivi l’illustratore non lesina alcuno sforzo e ci consegna tavole dettagliate e full color che già da sole valgono il prezzo di copertina.

 

Valhalla, Huginne Muninn in un'illustrazione di Peter Madsen.
Valhalla #5, tavola 1, edizione islandese

 

Si dà spazio a tutte le vicende più conosciute: Thialfi e Roskva, il furto del martello di Thor con nozze di tuoni e fulmini annesse, la costruzione della palizzata attorno ad Asgard, il concepimento di Sleipnir. Il tutto all’insegna di grasse risate, senza per questo snaturare il mito originale. Lodevole (ed efficace) il tentativo di Madsen & Co. di rattoppare e ordinare il mito secondo un ordine cronologico: si parte col reclutamento dei due bambini, Thialfi e Roskva, nel volume 1, per concludere con l’apocalisse del Ragnarök.

Oh, e dagli albi 4 e 5 è stato tratto un film a cartone animato.

 

Loki contro Logi in un'illustrazione di Peter Madsen.
Valhalla #5, tavola 15, edizione islandese

 

Al momento la traduzione del fumetto verso altre lingue è disponibile in svedese e norvegese, mentre è in corso d’opera per l’edizione islandese, ribattezzata in Goðheimar, di cui vengono pubblicati i volumi a cadenza annuale – quest’anno, infatti, dovremmo assistere all’uscita del nono. Traduzioni ufficiali dei primi albi sono inoltre disponibili per le seguenti lingue: olandese, tedesco, francese, finlandese, faroese e indonesiano. (E se non siete ferrati in nessuno di questi idiomi, girano sempre delle più abbordabili e meno ufficiali scanlations in inglese – ma non dite che ve l’ho detto io.)

Insomma, se vi attraggono i miti nordici e riuscite a metter le zampe sopra a qualche edizione di Valhalla, tenetevela ben stretta fra gli artigli, ché merita.

La lepisma libraia