[Recensione] “La ragazza di stelle e inchiostro” di Kiran Millwood Hargrave

Copertina de La ragazza di stelle e inchiostro.

Un’isola in decadimento, una giovane eroina e un demone di fuoco risalente a un antico mito sono gli ingredienti de La ragazza di stelle e inchiostro, fantasy per ragazzi che fra meno di dieci giorni, il 20 febbraio a essere precisi, farà il suo ingresso nelle nostre librerie. Al termine di una lettura del romanzo in lingua originale, mi rifaccio ora viva fra le pagine di questo blog per condividere la mia esperienza di lettrice. Sotto con la recensione!

Titolo: La ragazza di stelle e inchiostro
Autore: Kiran Millwood Hargrave
Genere: fantasy per ragazzi
Editore: Mondadori
Pagine: 211

Cosa c’è oltre la foresta? Chi abita i Territori Dimenticati? Isabella, figlia del cartografo che ha mappato la misteriosa isola di Joya fin dove lo spietato governatore Adori permette di esplorarla, sogna di poter disegnare su una cartina la risposta a queste domande. Così quando Lupe, la sua migliore amica nonché figlia del governatore, sparisce proprio in quei territori, è Isabella a guidare la spedizione di ricerca. Le mappe di famiglia la guidano attraverso villaggi deserti, nere foreste e fiumi prosciugati, e le stelle che suo padre le ha insegnato a osservare la accompagnano dall’alto. Ma il vero pericolo del suo viaggio appare presto chiaro: nelle viscere bollenti della terra Yote, un demone di fuoco, si sta risvegliando…


La ragazza di stelle e inchiostro: la recensione

Per essere rivolto a un pubblico di giovani lettori, La ragazza di stelle e inchiostro è un libro cupo: non è parco di violenze assortite, come nelle migliori fiabe dei fratelli Grimm, né risparmia la vista di dettagli raccapriccianti. La poesia, insomma, si esaurisce nel rettangolo di copertina adorno di libellule e farfalle. Nota di demerito? No. Semplicemente, vorrei sottolineare la disonestà della sinossi ufficiale, ricalcata dall’originale inglese, perché omette accuratamente qualsiasi allusione all’atmosfera a tinte fosche che tiene in ostaggio il lettore dalla prima all’ultima pagina.

Siamo a Gromera, un grappolo di case appollaiate nella zona sud-est dell’isola di Joya. È l’alba di un nuovo anno scolastico quando una donna del villaggio dà notizia della scomparsa della figlia Cata. Fra gli abitanti si scatena il panico e il governatore Adori, già dedito a opprimere la popolazione di Gromera impedendo a tutti di valicare i confini del paesino, pena l’arresto, impone dei rigidi coprifuoco. Quando le squadre di ricerca riferiscono del macabro ritrovamento del corpo della giovane, tutti gli indizi convergono verso la pista dell’omicidio. Il governatore, dispensatore di giustizia, ha intenzione di lavarsene le mani e levare le tende dall’isola insieme a tutta la sua famiglia, prima che l’assassino, a piede libero e latitante nei Territori Dimenticati al di là dei confini del villaggio, torni a reclamare altre vittime innocenti. Ma Lupe, sua figlia, ha ben altri progetti.

Hargrave affida a Isabella, la figlia del cartografo di Gromera, il compito di narrare le vicende in prima persona. Quando lei e Lupe si congedano al termine di un’accesa discussione, nella quale Isabella taccia l’altra ragazzina di essere menefreghista e codarda alla pari del padre, Lupe si allontana dalla relativa sicurezza del villaggio col proposito di braccare il colpevole dell’assassinio di Cata, e confutare così le accuse dell’amica. Isabella, rosa dai sensi di colpa, farà in modo di unirsi alla spedizione di ricerca bandita dal governatore. In quanto esperta di cartografia, arte trasmessale dal padre, è l’unica che può guidare gli scagnozzi del despota nei territori sconosciuti oltre i confini di Gromera. E chissà, forse potrà addirittura capovolgere la situazione a proprio vantaggio e mappare quelle regioni dell’isola che da anni stuzzicano la sua curiosità di esploratrice.


L’importanza dei miti

La ragazza di stelle e inchiostro è, prima di tutto, una storia sul valore dei miti. Tanti sono i fili rossi che possiamo tracciare con Oceania, film della Disney del 2016. Per Isabella i miti hanno poco a che spartire con le storie: entrambi si tramandano a voce attorno a un focolare, ma i miti non sono il frutto della fantasia di un individuo. Nelle sue parole…

A myth is something that happened so long ago people like to pretend it’s not real, even when it is.

Per l’occasione, Hargrave saccheggia il folklore del popolo dei Guanci, che si presumono essere i primi uomini ad aver colonizzato le isole Canarie, per presentarci una storia sull’importanza della fede, del coraggio, dell’amicizia e dello spirito di sacrificio. È dalla fede nei miti che Isabella, scontratasi con lo scetticismo degli amici che commettono l’errore di non discriminare le storie dai miti, trarrà il coraggio e la forza necessari per trascinarsi avanti quando tutto sembrerà perduto. Sarà la sua fede a decretare il destino dell’isola di Joya, minacciata dal risveglio di un demone antico che i più diffidenti pensavano fosse vincolato al mondo immaginario della tradizione orale.


Worldbuilding raffazzonata

Ogni fantasy che si rispetti, però, dovrebbe proporre una worldbuilding plausibile, con scelte giustificabili. La worldbuilding de La ragazza di stelle e inchiostro lascia intravedere tante idee interessanti, purtroppo sottosviluppate e disposte alla carlona, come scampoli di vari vestiti cuciti insieme in una coperta patchwork.

I personaggi hanno nomi spagnoleggianti (la moglie del governatore viene interpellata con un esplicito “Señora Adori”) e si citano continenti e Paesi dai toponimi piuttosto familiari (Amrica, Ægypt, Afrik), ma non si riesce a dare una collocazione cronologicamente precisa degli eventi del libro all’interno della nostra Storia, se del nostro mondo in effetti si tratta. Come si dovrebbe interpretare la diversa grafia di Amrica ed Ægypt? Siamo in uno scenario post-apocalittico in cui lo sviluppo tecnologico della razza umana è regredito all’età del ferro? Oppure dobbiamo inserire la storia in un contesto primitivo? Insomma, alcuni elementi sembrano introdotti alla cieca, senza una logica: perché un Ægypt dal sapore nordico a sfavore di un più coerente Egipto?

Viene naturale immaginare l’isola di Joya come l’ottava isola maggiore delle Canarie, ma è davvero così?


Stile vago e passivo

Lo stile scorre bene, ma è troppo vago. A ventiquattr’ore dal traguardo della parola fine, ricordo poco o nulla della geografia di Joya. Si percepisce la penuria di descrizioni: le informazioni concesse dal testo sono scarse e impediscono di crearsi un’immagine nitida della topografia dell’isola, un problema abbastanza ironico in un libro che dovrebbe essere un inno alla cartografia.

Il libro, infatti, è corredato di mappe a supporto del lettore che mettono a fuoco le aree dell’isola che la nostra compagnia di avventurieri si ritrova man mano ad attraversare. Esteticamente gradevoli, ma di poca, se non nessuna, utilità pratica dati i tratti essenziali con cui sono tracciate.

Lo stile tocca fondi di debolezza soprattutto nei capitoli ad alta dinamicità, dove metà delle azioni è resa al passivo. Alcune sono inoltre realisticamente improbabili.

My elbows and knees were pinned down, nails gouging into my neck. I tried to roll, to get free, but my assailant held on. Pain sang across my scalp as my head was pressed into the nubs of teeth beneath me.

My name was shouted from somewhere behind me – not Gabo’s name, but my own – and in the next moment the creature was barrelled off as Pablo threw it aside.

A smell like burning ships filled my head, then my hands were being wrenched behind me.

Ormai anche i sassi nel letto del Po sanno recitare a memoria la manfrina del “mostrare, non raccontare; tempo attivo, non passivo”, valida per il genere fantasy in particolar modo. Che la storia abbia bambini e ragazzi dai 10 ai 14 anni come destinatari finali non solleva l’autrice dallo sforzo di produrre buona letteratura. Non ho indagato sulla sua bibliografia perché la mia speranza è che ci troviamo di fronte a un esordio stilisticamente acerbo.


Per concludere

La ragazza di stelle e inchiostro esordisce con delle buone idee, ma non le sviluppa abbastanza e le espone con uno stile dilettantistico. È comunque una piacevole lettura che regala qualche emozione.

Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.

La lepisma libraia

[Recensione] “Il canto del ribelle” di Joanne Harris

Copertina de Il canto del ribelle.

Joanne Harris è famosa per essere l’autrice di Chocolat, ma è altrettanto conosciuta alle luci della ribalta grazie ai romanzi della serie Runemarks, di cui Il canto del ribelle, pubblicato per la prima volta nel 2014, è il prequel. A più di dieci anni di distanza dalla pubblicazione del primo volume, la serie è più fervida che mai. È in programma infatti l’uscita di un secondo prequel, dal titolo The Testament of Loki, per maggio 2018.

Titolo: Il canto del ribelle
Autore: Joanne Harris
Genere: fantasy/mitologico
Editore: Garzanti Libri
Pagine: 320

Per Loki, il dio delle fiamme, intelligente, affascinante, ingannatore, spiritoso, l’accoglienza ad Asgard non è delle migliori. Nella città dorata che s’innalza nel cielo in fondo al Ponte dell’Arcobaleno, dove vivono le donne e gli uomini che si sono proclamati dèi, tutti diffidano di lui, che ha nelle vene il sangue dei demoni. Malgrado la protezione di Odino, Loki ad Asgard continua a non essere amato: quello è il regno della perfezione, dell’ordine, della legge imposta. Entrare definitivamente nella schiera delle divinità più importanti, per lui, è impossibile: non solo gli viene impedito, è la sua stessa natura ribelle a impedirglielo. Ma arriva il momento della sua riscossa. Il mondo delle divinità è agli sgoccioli, una profezia ne ha proclamato la fine imminente. E Loki potrà mettere le sue capacità al servizio di Asgard e dei suoi abitanti. È lui che si adopera, con la sua astuzia, per trarre in salvo Thor e compagni. Ma gli dèi sono capricciosi, volubili e di certo non più leali di Loki. Adesso è giunta per lui l’ora di decidere da che parte stare, chi difendere e contro chi muovere battaglia. E di scoprire se i suoi poteri e la sua astuzia possono davvero salvarlo dalla fine che minaccia i Mondi e le creature, umane e divine, che li abitano. Joanne Harris ci porta nelle atmosfere piene di fascino della mitologia nordica: le divinità buone e cattive, i popoli in lotta tra loro, le forze oscure, le città fantastiche e le battaglie sanguinose. Protagonista assoluto è Loki…


Il canto del ribelle: la recensione

Che il ribelle in copertina si identifichi nella persona di Loki penso sia ormai conoscenza universale – perlomeno di chi approderà a questo post tramite una ricerca su Google, in dubbio se comprare o no il romanzo. Sono sufficienti le prime pagine per introdurre le altre pedine in gioco: fra la schiera dei personaggi del libro, si riconoscono le divinità più famose – Odino, Thor, Frigg, Heimdall, Sif – e si individuano, per chi questo libro rappresenta il primo accostamento al mito norreno, identità più oscure che faranno presto la loro entrata in scena. L’arena di scontro è Asgard, cittadella elitaria degli dèi al centro del cielo.

Parliamo ora del Loki griffato Harris. La sua è una voce che si incarica di riscrivere i miti nordici per come ci sono giunti ai giorni nostri. La versione classica della storia (glissando sui possibili ritocchi dati da letture cristianizzate) ha sempre riservato a Loki un posto di poco valore al tavolo delle divinità, descrivendolo come un piantagrane bilioso spinto al litigio per puro spirito di antagonismo. D’altro canto, fra un insulto e l’altro il mito gli riconosce anche momenti di perspicacia che sistematicamente finiscono per salvare la pellaccia di tutto il pantheon, e che tuttavia non possono affrancarlo dalla sua reputazione di persona sgradita e da un ineluttabile destino che, come viene più volte ripetuto nel mito attraverso la profezia della Veggente, – di cui si ritrova una parafrasi nel libro – incombe su tutti gli dèi come un cappio sul collo di un condannato al patibolo.

In tutto il corpus risalta chiara questa dicotomia di persona sgradita prima e genio provvidenziale poi, in un percorso fra valli e monti che conduce inesorabilmente verso il tramonto di tutto, la morte di tutti gli dèi. Il Loki di Harris riprende questo tema di alti e bassi e presenta il mito da un altro punto di vista: il suo. Motivo conduttore del libro è infatti la volontà di riscattarsi e informare i popoli senzienti di come siano andate davvero le cose, di come Loki, cioè, ingannatore degli ingannatori, sia stato in realtà ingannato a sua volta, e senza moventi – a detta sua – a giustificarne l’atto.

La voce del protagonista è dissacrante, dal tono sarcastico, e l’ho trovata, generalmente parlando, coerente con la personalità ambigua e sprezzante del Loki mitologico. Le due entità non si rispecchiano appieno per motivi che spiegherò a breve, ma al pari dei lati di una moneta condividono un nucleo fatto della stessa sostanza. Come il suo parente stretto, infatti, il Loki di Joanne Harris usa la lingua come un machete per ammaliare, abbindolare, seminare zizzania, per cavarsi fuori dai guai verso i quali sembra esercitare una forte attrazione magnetica: dove aggiusta una falla ne fa esplodere altre cento, al pari di uno scalognato Paolino Paperino alle prese con le tubature del lavabo.

A distinguerlo dalla sua controparte mitologica è la ricerca di una giustificazione alle sue malefatte. Come Paperino dà la colpa alla iella, così questo Loki trova, nella sua natura ribelle di demone nato dal Caos, un alibi alla sua apparente impossibilità di guadagnarsi uno sguardo amichevole fra i vicini di casa. Diversamente da come racconta il mito, sarebbe in pratica la sua estrazione ciò che gli impedisce di instaurare rapporti di amicizia, un retaggio di sangue cattivo che gli vale, fra le tante cose, un tesissimo comitato di benvenuto fra i ranghi di Asgard, una lunga, aperta ostilità e una sensazione di “diverso”, di antipatia a pelle che mai lo abbandona del tutto.
Questa è la sua storia, e da buon protagonista tira l’acqua al proprio mulino.


Lo stile

Il Canto del Ribelle è il primo romanzo che ho letto di Joanne Harris, perciò non ho metri di giudizio per decidere se testimoni un suo miglioramento o peggioramento stilistico: lascio a voi l’arduo giudizio. Posso dirvi, però, cosa ne penso dello stile usato in questo libro.

Harris adotta una scrittura contemporanea, frizzante, semplice ma non elementare e scandita da un giusto equilibrio tra frasi brevi e lunghe (un rapporto così bilanciato che me l’avrei parecchio a male se non lo prendessero in considerazione come esempio da imitare e glorificare nei manuali di scrittura creativa). Per incontrare il vocabolario e la fretta del consumatore moderno, il suo stile ha dovuto prendere necessariamente le distanze da quel conglomerato di kenningar e metafore di cui l’Edda di Snorri e l’Edda poetica si fanno portatrici (più dettagli: Wiki), ed è riuscito nel tentativo: Loki parla al lettore attraverso una prima persona onnisciente in pieno gergo del terzo millennio.

È una scelta, questa, che potrebbe far alzare un sopracciglio a chi, come me, ha visto nei miti e nelle saghe norreni quel meraviglioso connubio fra epicità, leggibilità e ricchezza linguistica che tanto ha viziato anche i lettori più affezionati di Tolkien (vedasi Il Silmarillion, o racconti eroici annessi). Ci si può chiedere se uno stile moderno sia adeguato per perpetuare idee e leggende in voga, anno più anno meno, attorno al periodo in cui Carlo Magno si vide apporre la corona sul capo. Tale scelta narrativa trova in realtà un movente nella narrazione degli eventi a posteriori: questo Loki è un narratore sopravvissuto al Ragnarök e i ricordi cui attinge per diffondere il proprio vangelo sono ormai vecchi di secoli. In quest’ottica, è facile vedere nella sua scrittura il naturale adattamento all’evoluzione di una lingua.

Per quanto concerne la tanto chiacchierata teoria dello show, don’t tell, mi tocca digrignare un po’ i denti – è il mio istinto latente di fan che mi porta a farlo – e ammetto di aver voltato pagina più volte, ma solo per vedere fin dove si prolungasse la muraglia cinese di testo e quante righe mi separassero ancora dal sollievo di un lungo discorso diretto, o di una descrizione tangibile. È proprio la mancanza di azioni a essere una costante del libro: perfino laddove la lunghezza del testo non avrebbe sofferto della scelta di un discorso diretto (il mostrare una scena ingombra nettamente di più del raccontarla), Joanne Harris preferisce, alle volte, imboccare la scorciatoia e sfruttare Loki come portavoce della battuta.

Si può obiettare che, essendo Il Canto del Ribelle configurato come un racconto, cioè un riassunto, l’atto di raccontare anziché mostrare è inevitabile. D’altronde, le saghe norrene che mi piacciono tanto costituiscono, penso, i massimi esempi di raccontato reperibili fra i confini della Terra e oltre. Eppure non riesco a togliermi dalla testa l’idea che avrei apprezzato di più il romanzo se la bilancia fra i due meccanismi narrativi fosse stata meglio calibrata, perché un conto è leggersi una saga da cinquanta pagine, un altro un libro da sei volte tanto.
Ma non arrovellatevi troppo nel dubbio: il ritmo scanzonato decantato nel primo paragrafo, autentica àncora di salvataggio, è di quelli che fanno odiare l’arrivo all’ultima pagina.


La narrazione

Bisogna ammettere che Harris ha svolto un accurato lavoro di riordino e siliconaggio. La trama ricalca fedelmente le vicende frammentarie del mito, ma l’intreccio de Il Canto del Ribelle è lineare e segue senza interruzioni un tracciato che sorge all’arrivo di Loki nel “mondo fisico” e tramonta con la fatale conclusione del Ragnarök. In tutto questo, Harris è stata cauta e ha preferito l’aggiungere al modificare: si è affidata all’immaginazione personale per riempire i vuoti fra un capitolo e l’altro e ha lasciato quasi invariato il resto. La modifica più ardita, credo, è quella che vede Loki come un demone fatto e finito anziché un gigante – è una visione un po’ cristianizzata del mito quella che cerca in Loki la rappresentazione del demone cristiano. Mi sfugge la considerazione che ha portato al cambiamento da jötunn a demone, ma non è un dettaglio per cui strapparsi i capelli.

Apriamo ora una parentesi sul mondo nordico e sul suo clima. Non ho, purtroppo, ritrovato quell’atmosfera antica che si respira invece fra le pagine dell’Edda o delle saghe norrene. Complice, forse, anche il mancato sostegno di un registro “eroico”, la Asgard dipinta da Loki scarseggia, insomma, di sostanza. Il narratore ha incanalato la sua attenzione verso i propri pensieri, le proprie sensazioni ed emozioni, nonché i propri pareri – nient’affatto lusinghieri – sulle divinità che lo circondano, offrendo al lettore molti streams of consciousness e ben pochi mattoni con cui costruirsi la realtà asgardiana fatta di sfarzo, oro, eserciti, crudezza; si nominano i nove mondi, ma non vengono fornite le coordinate con cui orientarsi fra di essi. Viene, in poche parole, lasciato troppo spazio a uno sviluppo interiore della vicenda a discapito – e qui mi ricollego alla tematica affrontata nello scorso paragrafo – di descrizioni concrete. Non interpretatelo come un parere lapidario: sono presenti descrizioni. Solo, troppo poche.

E qui arriviamo a un’altra piccola nota di demerito. S’è detto che la psiche delle divinità occupa il posto a capotavola nella narrazione, ma gli dèi rimangono monodimensionali. All’infuori del protagonista e di Odino, che mi sembrano essere personaggi a tutto tondo, gli altri paiono soccombere allo stereotipo e fossilizzarsi su una sola dimensione caratteriale che riflette la precisa natura di cui il dio è personificatore (come fra gli dèi romani o greci, c’è il dio della guerra, della poesia, della bellezza, della fertilità…). Così Thor è scazzoso per cinquantanove secondi al minuto, e via dicendo. Lo spazio di manovra era tanto e si sarebbe potuto fare di più.


Per concludere

Insomma, questo libro è meritorio di uno buco sullo scaffale? Rispondo con una frase equivoca: dipende da due variabili. La prima, se voi conoscete i miti norreni a menadito; la seconda, se voi siete fan dell’autrice o del protagonista condito in ogni salsa.

La scelta di Harris di mantenere il mito invariato, nel mio caso, è stata sia lodevole sia controproducente. Ho apprezzato la sua fedeltà al mito originale, ma è stata proprio la possibilità di un confronto fra le versioni, credo, a levarmi il gusto della lettura. La conoscenza pregressa dell’Edda e delle sue storie equivale a spoilerarsi il finale prima ancora di aprire il volume! Si tira avanti con le pagine, certo, ma capite che non ci sono più gli estremi per un effetto sorpresa perché chi è appassionato di mitologia norrena conosce già inizio, svolgimento e fine della storia.

A essere sincera, però, ho gradito molto l’abilità con cui Harris ha colmato i vuoti e impilato le carte in bell’ordine. Grazie al suo stile si sorride e si ride, anche. Alla luce di quanto detto, mi sento di dire che un posticino nella libreria glielo si trova facilmente. Se poi siete fan di Loki, tanto meglio.

Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.
Stellina per recensioni.

La lepisma libraia